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08 set 2016

Dietro il burkini

di Luciano Caveri

Qualche tempo fa, su "Twitter", ho visto a confronto le foto della squadra femminile di pallavolo dell'Iran, prima e dopo la famosa rivoluzione iraniana che avvenne fra il 1978 e il 1979. Allora le ragazze della squadra erano vestite all'occidentale con maglietta e pantaloncini, mentre oggi - per essere in squadra o meglio per vivere senza che i "guardiani" del regime ti prendano a scudisciate - devi mettere vestiti coprenti, essendo la logica quella della mortificazione del corpo femminile. L'anno scorso in Marocco, in una bella spiaggia popolatasi di giorno solo dopo la fine del periodo del "Ramadan", ho visto di tutto. Ragazze in bikini che potresti vedere a Rimini, donne in "burka" - che arrivavano cariche come somari, arrancando sulla sabbia con nugoli di bimbi, mentre il marito non portava nulla - che facevano il bagno del tutto intabarrate con vicino altre donne che, invece, indossavano il "burqini" o "burkini", secondo la grafia.

Questo capo d'abbigliamento, fatto da un tunica di media lunghezza con annessa cuffia che copre i capelli e con pantalone che copre sino ai piedi, è niente altro che una forma di "jilbab" (in arabo vuol dire "coprire, celare allo sguardo"), inventata da un'australiana di origine libanese per il rispetto della logica della velatura ed è un precetto che rientra fra i vari obblighi della "shari'a", cioè la legge islamica di stretta osservanza religiosa, che permea le regole di uno Stato teocratico. Quest'estate su questo capo di abbigliamento - che obbliga chi lo indossa ad autentiche saune in spiaggia - si è sviluppata una polemica causata dalla scelta, specie in Costa Azzurra, di alcuni sindaci di vietarne l'uso sulle spiagge, scelta poi contraddetta da una sentenza del Consiglio di Stato francese, che ha parlato di "una violazione grave e apertamente illegale delle libertà fondamentali, che sono la libertà di movimento, di coscienza e la libertà personale". In punta di Diritto la sentenza ovviamente ci sta, visto che - non trattandosi di qualcosa di aggressivo o di un mascheramento di cui potrebbero profittare i terroristi - questa scelta di coprirsi è un precetto religioso e la libertà di culto è un caposaldo delle Costituzioni occidentali nel solco dello Stato di Diritto. Il nostro, non quello della gran parte dei Paesi islamici, ma ovviamente non si può pretendere la reciprocità. Ma il vero tema semmai è un altro, vale a dire che cosa ci sta dietro al "burqini". Anzitutto: esiste davvero un uso ideologico di questo indumento, che suona - scientemente ma nascostamente - come un modo per sbandierare una vicinanza ai disvalori dell'estremismo islamico? Capisco che non bisogna mai fare il processo alle intenzioni, ma fare finta di niente non è certo intelligente. E ancora: questa copertura quasi integrale, che riguarda solo il corpo femminile e non certo quello maschile, è sempre una scelta libera della donna o esistono - anche nel nostro Occidente - una serie di obblighi da parte di mariti affinché questo capo di vestiario venga indossato? Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere" ha posto in modo diverso la stessa domanda sulla libertà di indossare il burkini: «Benissimo: ma la donna islamica che invece non volesse? Potrà farlo? Che ne è della sua volontà?». Qualcuno mi ha obiettato che loro coprono il loro corpo, noi - all'estremo opposto - mercifichiamo il corpo femminile con un eccesso della sua esposizione. Oppure: anche le nostre suore o le nostre nonne per entrare in chiesa velano il proprio capo e mettono vestiti in qualche modo coprenti. Intanto il passato è passato e ben diverso è chi scelga di avere un ruolo religioso, ma nessuno di noi - nel nome della moda - è costretto a spogliarsi od a troppo vestirsi. Semmai, dunque, bisogna chiedersi fin dove il nostro Diritto possa essere paravento di quel relativismo culturale, che rende ancora di fatto la condizione femminile nel mondo islamico, anche non estremista, in una posizione di inferiorità, in barba alle nostre norme sulle Pari opportunità. Questo alla fine è il succo del problema e cioè accettare che nelle nostre società ci siano, per specie per imposizione maschile o per accettazione venata di ideologismo, donne che subiscono mortificazioni di vario genere, sapendo che qualunque donna Occidentale dovesse vivere nella gran parte dei Paesi islamici dovrebbe rigidamente seguire certi medesimi dettami senza possibilità di scegliere propri modelli culturali di riferimento. Capisco che sono argomenti difficili da affrontare, ma il problema alla fine è politico e va affrontato con grande serietà proprio per evitare derive populiste o scelte autoritarie.