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29 ago 2016

Il "Dieselgate" nel mio piccolo

di Luciano Caveri

E' dal 1977 che ho la patente per la macchina: uno dei momenti topici di passaggio verso l'età adulta con un esame di guida che era allora una preoccupazione per l'incombere di un minaccioso "Ingegnere" barbuto che strapazzava durante la prova pratica i neopatentandi (specie femmine, per fortuna). Francamente ho perso il conto di quante macchine ho avuto in questi quarant'anni, ma - tranne rari casi - attorno ai 150mila chilometri ho sempre ritenuto utile, visto che faccio molta strada ogni anno e prima che l'auto si deprezzasse eccessivamente, cambiarla. Quel che è certo è che mi sono prevalentemente affidato ad auto tedesche del gruppo "Volkswagen" di diversi modelli, ma questa volta - domani ad essere precisi - cambierò marchio e nazionalità con una "Volvo" svedese (a dire la verità negli anni una, già un'eccezione, l'avevo avuta).

La ragione di questa scelta è stata molto semplice: quando uscì il "dieselgate" scoprii che proprio il marchio di mia fiducia taroccava il software delle centraline elettroniche per rientrare nei parametri dell’inquinamento negli Stati Uniti (la tecnologia riconosceva quando la macchina era sui rulli per i test), ho subito dubitato che facesse parte del mazzo anche il mio motore diesel "euro 5" ed ero stato buon profeta... Ma in realtà nessuno mi disse niente e, come raccontai all'epoca, "se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna" e dunque, profittando di un cambio gomme, chiesi qualche mese dopo alla concessionaria valdostana dove avevo comprato la vettura se facessi parte o no del "pacco". La risposta fu, avendo visto il numero di telaio, purtroppo positiva, dunque la mia auto faceva in effetti parte dei milioni di auto costrette a subire una revisione per rientrare nella normalità. In altri casi si sarebbe parlato di una sorta di truffa, ma immagino che questa volta ci fossero macroscopici interessi in ballo, ben al di là delle pur legittime lamentazioni del singolo. Più avanti nel tempo - finalmente! - arrivò la lettera, assai fredda e burocratica, in cui mi dicevano che da lì a poco sarei stato chiamato per un intervento gratuito (ci mancava che mi facessero pagare!) con cui avrebbero rimesso a norma la centralina alterata. Visto che "Audi" usa dei call center che ti martellano per sapere come funziona l'officina dove porti l'auto per i tagliandi o per segnalarti nuovi modelli, sarebbe stata gradita una telefonata di un essere umano. Invece, solo molti mesi dopo, contravvenendo alla lettera precedente, due tizi con la solita firma stampata in fondo alla lettera svogliata, mi annunciavano che avrei potuto portare la macchina in officina. Proprio negli stessi giorni - e per evitare cause milionarie - la casa automobilistica tedesca annunciava risarcimenti negli Stati Uniti - dove le class action, cioè le cause collettive sono una cosa seria, diversamente dall'Italia - per settemila dollari per ogni cliente con auto "truccata", mentre poco tempo dopo l'Antitrust italiana infliggeva una multa di cinque milioni di euro a "Volkswagen" per il giochino compiuto. Gli automobilisti europei ingannati, invece, sono rimasti con la sola modifica del software e saluti e baci. Questa cosa, come consumatore e cliente che negli anni ha speso un sacco di soldi e dimostrato affezione e fiducia verso il gruppo tedesco, mi indigna profondamente anzitutto pensando al ruolo del management italiano del gruppo, evidentemente prono rispetto ala scelta di lasciare la clientela italiana a bocca asciutta, ma anche verso le autorità di tutela e di controllo italiane che non disturbano il manovratore. L'unica arma rispetto ad una vicenda di evidente malcostume era quella di lasciare Ingolstadt al cambio auto e di raccontare a tutti che i tedeschi - sempre pronti in Europa a fare le pulci agli altri, specie ai Paesi con sponda mediterranea - questa volta sono dalla parte del torto ci sono loro e questo deve far riflettere su certe morali che spesso ci si sente fare da Berlino.