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15 mag 2016

Il perdono e il doping

di Luciano Caveri

Perdonare è certamente un dono e resto "terra a terra", limitandomi ai comportamenti umani, e non alla redenzione dai peccati che occupa pieni ben più elevati dei miei pensieri. Questo perdono si può dare e lo si può ricevere e talvolta si incrocia reciprocamente negli errori di cui è piena zeppa la vita di chiunque. Tendenzialmente so chiedere perdono e so darlo, ammesso naturalmente che esista - in chi ritengo abbia sbagliato con me - una spiegazione delle sue ragioni. C'è sempre il rischio di montare dei casi su delle piccole questioni, facendole appunto gonfiare a dismisura. Tendenzialmente mi inalbero e poi io stesso cerco delle motivazioni per non fare troppo can can. Talvolta mi immedesimo nel pensiero di Cesare Pavese, quando diceva: «Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza, stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo».

Fino ad un certo punto: con chi è recidivo ho buona memoria, specie se ritengo di essere stato vittima di una qualche forma di ingiustizia. Mi innervosiscono in particolare quelli che fanno cattiverie gratuite e se devo inseguire i pensieri sul demoniaco, penso davvero e purtroppo che ci siano persone malvagie, che non so se abbiano venduto la loro anima, ma quel che è certo è che hanno venduto sé stessi. Ma riscendiamo ai piani bassi della cronaca e ad una polemica sul perdono che riguarda lo Sport, pratica umanissima e anche ipocrita come dimostra la storia che le Olimpiadi dovrebbero ospitare solo dilettanti, regola davvero di cartapesta come i carri di Carnevale. Leggevo in queste ore di Alex Schwazer che, dopo tre anni e nove mesi di squalifica per doping di cui è stato reo confesso solo perché le prove erano schiaccianti, si è qualificato per i Giochi di Rio 2016, nella cinquanta chilometri del mondiale a squadre di Roma, ed il risultato, una vittoria netta, gli ha dato il "pass olimpico". Lui pare sereno: «Se questa vittoria mette fine alle polemiche? Non lo so, e non mi interessa sinceramente. Io quello che posso fare è andare bene nelle mie gare poi tutti sono liberi di dire quello che vogliono. Sono concentrato su quello che voglio fare». Il nuovo allenatore, Sandro Donati, noto per essere paladino della lotta al doping, dice, senza perdono per chi aveva criticato il ritorno dell’atleta dopato: «E' una giornata bella però, al tempo stesso, di amarezza perché abbiamo combattuto con l'odio di gente che ha scaricato contro di me e contro Alex una violenza inaudita, un tentativo di fermarci, di farci saltare i nervi di continuo». Donati - il cui tono sarebbe degno di miglior causa - ha aggiunto che «ha vinto lo sport perché su questo atleta si può mettere la mano sul fuoco. E' super controllato». Ed il presidente del "Coni", Giovanni Malagò, si accoda, perché vede già una potenziale medaglia in ottica Rio: «Alex ha avuto la forza di crederci, credo che il merito sia tutto suo e di Sandro Donati, che è stato corteggiato come non si fa neanche nei migliori film d'amore. Era l'unico che poteva dargli la certificazione di atleta che ha sbagliato e che ora non vuole più sbagliare». Verrebbe da aggiungere: «Amen!». Insomma: finisce tutto "a tarallucci e vino" e la parabola dello sportivo drogato che ha ingannato tutti (compresa la povera pattinatrice e sua morosa Carolina Kostner, che è passata più per fessa che per collusa) ma poi ha ripulito coscienza e sangue, piace molto, perché il riscatto accende fantasie e forse in alcuni qualche speranza che capiti anche a loro laddove ne hanno bisogno. Io capisco il perdonismo, ammiro il riscatto umano e civile, apprezzo l'affezione per lo sport (che poi portava anche i soldi della pubblicità con Alex che mangiava le merendine nel panorama del suo Sudtirolo). Penso, tuttavia, che le sentenze penali, civili, sportive e di qualunque altro genere nulla abbiano a che fare con le regole morali che Schwazer ha infranto. Poco mi consola il fatto che sono tantissimi gli sportivi che ammiro che, scava scava, si scoprirebbe che fanno uso di sostanze che li aiutano nelle loro pratiche sportive in una logica di rincorsa continua fra "guardie" che controllano e "ladri" che trovano modalità sempre nuove per truccare i risultati. Con questa stessa logica di chiudere gli occhi di fronte alla realtà del doping, allora varrebbe il perdono per chi, senza tirar di mezzo l'interdizione dai pubblici uffici, si dimostra un politico disonesto o losco, facendo delle regole di comportamento - ancora prima che del diritto penale - "carne di porco" per proprio tornaconto. Lo stesso vale per chi si macchi di terribile delitti e certo in carcere può espiare, anche nella logica - se gli sarà possibile - di un futuro reinserimento nella società. Ma esiste comunque una condanna sociale che di fronte a certi fatti non prevede scorciatoie. Così - che sia chiaro che non è cattiveria - per uno sportivo andare alle Olimpiadi non passa solo attraverso le "forche caudine" della riabilitazione dopo una condanna sportiva o dai risultati che devono essere conseguiti, ma c'è da sperare che valga l'insieme di una carriera e della sua probità. E questo non è davvero il caso, ma l'Italia buonista spera che il montanaro di Vipiteno-Sterzing - che ha tradito pure i valori della sua terra che ha un'etica che ben conosco - garantisca una bella medaglietta ai Giochi olimpici. E questo vale come una forma tombale di assoluzione e, diceva Albert Einstein, che «La morale non ha niente di divino; è una faccenda puramente umana».