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29 gen 2016

La montagna: gioie e pericoli

di Luciano Caveri

Capisco che si tratti di un mio pallino, per cui - come può capitare a tutti - uno rischi di fissarsi. Eppure resto convinto che bisogna riflettere, in una società valdostana in grande modificazione, sul passaggio di alcuni aspetti basilari della cultura alpina, un tempo pacifico appannaggio dell'educazione familiare e dell'ambiente sociale in cui siamo immersi. Mi riferisco al territorio montano in cui viviamo e che richiede un approccio specifico, senza pensare di fare di tutti degli alpinisti, ma almeno dei frequentatori delle montagne - dove per altro abitiamo - questo sì. L'altra sera mi è capitato di presentare l'attività del "Soccorso alpino" valdostano in una conferenza con Adriano Favre, che ne è il direttore. Il tema è interessante è pieno di spunti e andrò un pochino a casaccio.

Si possono evocare i "marroniers", che accompagnavano e vigilavano sui viandanti lungo il cammino del Colle del Gran San Bernardo, si può ricordare la fondazione del Corpo nazionale nel 1954 e la presenza in Valle d'Aosta, sin dal dopoguerra, di una legislazione originale sulle guide alpine già considerandole importanti anche per vigilare sugli incidenti in montagna. E come non ricordare l'affermarsi dell'elicottero, come mezzo indispensabile, partendo dal fallimento del primo volo di soccorso nel Natale del 1956 sul Monte Bianco nel celebre caso alpinistico attorno alla morte di due giovani, Jean Vincendon, 24 anni, di Parigi, e François Henry, 23 anni, di Bruxelles, che resistettero dieci lunghi giorni a oltre quattromila metri di quota sul Monte Bianco. Da allora in poi l'elicottero si affermò e in Valle d'Aosta furono gli elicotteri degli alpini negli anni Settanta ad occuparsi di soccorso e poi subentrarono le aziende private, adoperate dai sistemi di soccorso pubblici. Ricordo quei primi stage di formazione organizzata, con elicotteri "Lama", al rifugio "Monzino", con quel guru del Soccorso che fu la guida alpina Franco Garda. E ricordo i miei reportages in quegli anni: il più doloroso risale al 1985, quando sei giovani alpinisti dai 18 ai 33 anni, cinque aspiranti guide ed il loro istruttore, morirono scalando la parete del "Lyskamm", sul massiccio del Rosa. Ricordo quel rientro in elicottero, dopo aver "girato" il servizio, con Garda ed il medico Carlo Vettorato che piangevano disperati, seduti sul velivolo giusto di fronte ai sacchi con alcune delle salme. Poi, con altri incarichi, ho dovuto occuparmi del Corpo nazionale del Soccorso Alpino, specie con normative discusse e approvate alla Camera, sempre ritagliando lo spazio apposito al nostro "Soccorso alpino". Penso agli accordi con francesi e svizzeri per regolare gli interventi nelle zone confinanti. Ricordo le lotte per ricordare il ruolo delle guide alpine e contrastare il desiderio di troppi di occuparsi di soccorso in montagna per trovare lustro e pubblicità. Come dimenticare l'azione preziosa del Soccorso, assieme a tutti gli altri soccorritori, in occasione dell'alluvione del 2000, quando si giunse ad avere fino a quattordici elicotteri in volo, avendo come base logistica della "Protezione civile" quell'aeroporto, che era l'unica struttura trasportistica efficiente. Un giorno si vedrà purtroppo quanto la retorica anti-aeroporto sia stata nociva per la nostra comunità e segno di ignoranza. Un caso evidente fra gli altri è quello di aver buttato via quell'accordo con la società elicotteristica "Agusta Westland" che avrebbe portato da noi la scuola per piloti di elicotteri in montagna, a vantaggio anche del nostro "Soccorso alpino"! Ma torniamo all'inizio e alla constatazione che un tempo proprio gli uomini del Soccorso avevano la possibilità di andare nelle scuole a spiegare i pericoli della montagna ai giovani per quell'alfabetizzazione che è indispensabile dal punto di vista culturale. Oggi i tagli di budget rendono questa attività impossibile e la considero una scelta negativa e grave. Bisogna lavorare per trovare modalità nuove ed efficaci per "trasmettere" la montagna con le sue gioie e i pericoli.