Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
28 gen 2016

Pensieri sul funerale

di Luciano Caveri

Non mi trovo a mio agio ai funerali e provo una certa considerazione per chi ci partecipa quasi con un'attitudine da professionista del ramo. Ce ne sono nei paesi: si configurano come degli esperti, dopo molta pratica, della faccia di circostanza, persino con pianto incorporato. Con il passare degli anni e più invecchiano e più sembra per loro manifestarsi nel funerale altrui un senso vago di averla scampata bella. Per altro, visto da un'altra ottica, ricordo come in genere i proprietari delle pompe funebri ("pompa" che significa letteralmente "corteo" o "cerimonia") siano persone molto simpatiche, spesso dei bon vivant, come evidente reazione al tipo di settore merceologico che trattano. Conosco anche dei politici che hanno scelto la specializzazione del presenzialismo funerario, sapendo che certe presenze diventano impressionanti, spesso per il solo sgomento della parentela che si chiede «perché è venuto?», come se lo scomparso avesse tenuto nascosta chissà quale familiarità con la personalità luttuosa all'uopo.

Io ai funerali ci vado - se posso - per persone ben conosciute, non avendo più certi obblighi protocollari di quando avevo ruoli pubblici e poteva capitare di andarci per dovere di rappresentanza, com'è giusto che sia. Confesso però di sentirmi sempre inadeguato nelle circostanze. Ci pensavo ieri a Champoluc, dov'ero salito per un ultimo saluto a Miki Origone, ayassin di origine genovese e padre dei famosi campioni dello "speed ski" Simone ed Ivan, che era un amico, in un paese che amo - Ayas - dove la forza di integrazione della comunità resta un esempio in Valle d'Aosta. Ma dicevo del mio disagio di fronte al dolore di chi ha voluto bene allo scomparso: non ci sono parole e neppure silenzi che possano essere davvero consolatori e questo mi turba ogni volta per un senso di impotenza. Capisco quanto ci sia di ineluttabile, ma questo non modifica il mio stato d'animo di fronte alla giusta convenzione sociale di un addio, che è poi - il paradosso non sfugge di certo - uno dei segni più importanti che ci resta delle civiltà del passato. La costruzione di riti e miti, che in fondo servono a esorcizzare la morte, passaggio obbligato di cui ci sfuggono così tante cose. Certo la rete di tradizioni e convenzioni che attorniano le esequie sono molto fitte e ci sono, anche in una realtà piccola come la Valle d'Aosta, varianti locali conservate gelosamente e tramandate con attenzione. Anche se poi - ad innescare cambiamenti - basta poco: penso alla semplicità in Valle delle epigrafi che annunciavano la morte, oggi lentamente in via di modificazione con annunci sempre più rococò con disegni e foto. Penso ai necrologi che annunciavano la morte suoi giornali, oggi caduti da noi in disuso chissà perché sostituiti sui settimanali da annunci che ricordano anniversari della scomparsa, anch'essi con foto, come evidente tributo alla società dell'immagine. Noto ora su qualche sito l'insinuante diffondersi di qualcosa a metà fra l'annuncio a pagamento e l'articolo redazionale di commiato. Vien da condividere, per certe prove di enfasi, quanto diceva fra il serio e il faceto, ma con un fondo agro convincente, il grande Totò: «Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però per venire riconosciuti qualcosa, bisogna morire». Facendo le corna...