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06 lug 2015

La difficoltà di dirsi europeista

di Luciano Caveri

Ormai l'Europa sta "sulle scatole" quasi a tutti. E' come un'epidemia che dilaga e rispetto alla quale c'è poco da fare. Per chi, come il sottoscritto, si sente - malgrado tutto - un europeista convinto, pur sperando in una Unione diversa dall'attuale, il compito è arduo. Ormai, piuttosto del solito "resistere, resistere, resistere" (espressione usata da Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio dopo la batosta di Caporetto), ci sono occasioni in cui lascio perdere per non farmi il fegato marcio. Specie se gli interlocutori si lanciano nelle solite litanie disinformate e populiste contro le quali ci vorrebbe tempo e toccherebbe spendere molte energie. Talvolta l'impresa sarebbe titanica o inutile, come lavare la testa agli asini (operazione in cui si perde tempo e sapone).

L'anti-europeismo - basta leggere quanto si scrive sulla Grecia - ormai spazia, come la mani di un pianista sulla tastiera, attraverso tutti gli schieramenti da Destra verso Sinistra e ritorno. Che sia l'uso del latte in polvere per fare i formaggi o l'austerità imposta da Bruxelles, attraverso altre mille varianti di scelte comunitarie, il refrain porta alla fine ad un rigurgito di nazionalismo, che va dal muro anti-immigrati dell'Ungheria al referendum inglese sull'adesione all'Unione. Sembra in sostanza che ci sia ormai una forma di oblio sul perché è nato e si è sviluppato, tra alti e bassi e fra mosse giuste e sbagliate, il processo d'integrazione europea. La logica - mi perdoni chi lo sa bene - è che o il Vecchio Continente nel difficile secondo dopoguerra trovava una strada per evitare le guerre oppure saremmo tornati, specie con l'arma nucleare, all'età della pietra. Ciò detto, anche io vorrei un'Europa diversa, meno statalista e burocratica, meno centralizzatrice e tecnocratica, ma l'Unione attuale non è frutto del caso, ma di scelte che sono avvenute nel tempo e tutte, per fortuna, sono correggibili. Chi è federalista (e dunque legato al principio di sussidiarietà) vorrebbe un'integrazione politica seria, che abbia - ma questo è la mia visione - fra gli antidoti una forte interazione fra il livello continentale e la fitta rete dei diversi regionalismi e dei poteri locali. Una specie di modello svizzero espanso, con le necessarie attenzioni e correzioni, a livello più vasto, facendo dell'Europa una superpotenza dal volto umano. In cui si possa mettere assieme il meglio di ciascun popolo europeo. Da questo punto di vista, con evidente periodicità, ci si chiede - lo fa anche l'ultimo arrivato Matteo Renzi - come mai l'Italia, Paese fondatore, conti poco. Conta poco per colpe italiane e non perché l'Europa sia cattiva. Basta vedere il peso politico, spesso scarsissimo, dei parlamentari europei italiani. E' sufficiente vedere come certi nostri ministri e certi funzionari partecipino sciattamente alle riunioni in sede comunitaria, se ci vanno. Di come sia diminuito il peso nei posti chiave europei dei dirigenti italiani. Il caso politico di Federica Mogherini, con una neofita posta per capriccio in un posto chiave di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, è la dimostrazione che non si capisce quanto il peso dell'esperienza e dell'autorevolezza vada esportato in Europa. Così come esiste un "bon ton" da rispettare e fa male Renzi ad usare spesso atteggiamenti goliardici ed evidenti sfottò con i colleghi, che somigliano talvolta alle telefonate pensose di Silvio Berlusconi a due passi da Angela Merkel (stava organizzando le serate di Arcore con le ragazze) o alle famose corna che il cavaliere sfoggiava con la manina birichina sulla testa dei colleghi delle "foto di famiglia". Il mio non è moralismo, ma rendersi conto che cerimoniale e protocollo, già piuttosto a fisarmonica a Bruxelles, non vanno buttati a mare perché la logica informale e chiacchierina «fa tanto giovane». Insomma: in queste ore cruciali per la credibilità dell'Europa e non mi riferisco al dato dell'economia e delle Borse (pure importanti), ma al dato politico, bisognerebbe non perdere la prospettiva storica, perché abbacinati dalle polemiche contingenti. Tornare indietro nel processo d'integrazione europea sarebbe un crimine, diverso è riflettere su perché e come ripartire per riacquistare la fiducia perduta. Ma il presupposto è che i cittadini non considerino sempre e solo l'Europa come un elemento estraneo, inamovibile e ostile. E che la politica faccia la politica.