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08 giu 2015

Renzi e il suo PD

di Luciano Caveri

Matteo Renzi ha vinto e, nello stesso tempo, ha perso le elezioni regionali. Paradosso? Niente affatto e non solo perché la comparazione dei voti del Partito Democratico delle Europee mostra un crollo nei consensi così evidente che è puerile negare la circostanza. Ma perché dietro all'apparentemente impressionante risultato calcistico del cinque a due, come Regioni conquistate, che potrebbe essere giudicata una vittoria, ci sono alcuni veleni che fanno riflettere attorno al PD, partito così importante nello scacchiere politico. Ne elencherei alcuni, di diversa pericolosità, come avviene con il morso dei serpenti. Premetto una cosa: non partecipo al gioco infantile dei "renziani" e degli "anti-renziani", perché finirebbe per farmi aderire a forme di culto o di disprezzo della personalità che sono, pur antitetiche, egualmente nocive. Perché sull'eccessiva personalizzazione della politica italiana si fonda una delle ragioni dell'antipolitica (dell'astensionismo - un elettore su due ormai - ho scritto troppo volte!).

Ecco i sei punti, più un addendo:

La figura di Renzi gioca con il carisma, che si gonfia e si sgonfia con la stessa facilità nel rapporto con l'elettorato. Si tratta di una logica totalizzante, di cui reggere onori e oneri, ostentando sempre sicumera come si vede in queste ore in cui la linea è «tutto bene!». E questo vale per il suo cerchio magico, élite di pretoriani - in genere intimi da tempo, ma anche nuovi ingressi scelti per la fedeltà - e ciò genera anche personale politico e burocratico fragile. Questa falange macedone, che sale di prestigio e rischia per contro di finire nella polvere, opera con la logica del Capo: «o con me o contro di me», che spesso non tiene conto della logica istituzionale e del principio di continuità amministrativa. La dialettica interna al PD sembra un fastidio, piace la deriva della sola ratifica della decisione assunta al vertice, all'insegna del centralismo democratico. Le "purghe", nella logica proprio del modello del partito marxista-leninista, ma con la fatwa dei "social" come arma letale, operano con immediatezza verso chi esprima idee o linee diverse, non esistendo la logica del compromesso, che implicherebbe - così si pensa - debolezza della leadership. Ora si annuncia una legge applicativa dell'articolo 49 della Costituzione: "Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Vecchia questione che sembrerebbe questa volta servire «ad usum Delphini»! Vincere anche con candidati "dubbi" o meglio "impresentabili", come il presidente eletto in Campania, Vincenzo De Luca (che ora dovrebbe essere sospeso in ossequio alla legge Severino), comporta rischi nei fatti concreti ed ha incrinato il feeling con parte dell'opinione pubblica. Certe scelte poi hanno dimostrato la "coda di paglia" nella famosa logica della rottamazione, che sembra essere usata secondo le necessità e quindi con spregiudicato opportunismo. L'effetto annuncio alla fine stufa, non distinguendosi più quanto fatto da quanto proposto. Così come non viene più compreso il clima perenne di imposizione unilaterale e di polemica "di palo in frasca" in un crescendo bellico senza respiro: sempre in trincea. Questa logica preoccupa molti cittadini, anche se forse serve a tenere vivi i fedelissimi. La filosofia politica leaderistica finisce per non essere "né carne né pesce", che rende tutto liquido nella fine pronosticata degli steccati di destra e sinistra. Il carisma personale dovrebbe cancellare tutto e lo si è già visto nella storia italiana e il famoso "partito della Nazione" dovrebbe essere il parto conclusivo di un disegno nel nome del decisionismo e della puntualità, con le leggi che diventano come treni da far arrivare in orario. Si è assistito perciò al "paradosso regionalista": una campagna elettorale sulle Regioni in piena epoca di centralismo statale, compresa la riforma costituzionale in corso. Visione che fa il paio con un altro impiccio per chi vuole tutto comandare: il Parlamento. E così si cavalca la logica antiparlamentare fra decreti legge imposti, apposizione della fiducia su tutto, tagliole nei regolamenti parlamentari, uso dei decreti delegati per evitare discussioni assembleari.
Un ultimo punto più locale: in Valle d'Aosta è ragionevole avere buoni rapporti con Roma, se possibile a tutela di poteri, competenze e ordinamento finanziario. Ma attenzione a non sbracare: i diritti non sono piaceri, l'amicizia non è vassallaggio, la simpatia non è servilismo. E sul destino delle Speciali mai si è udito di recente qualcosa di certo. Permane un fastidio di fondo, un coro crescente che irride ai soliti privilegi, mentre il federalismo - unica vera svolta perché l'autonomia speciale non sia revocabile per capriccio - è stato seppellito per sempre.

Per cui fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. E scriverlo il 2 giugno, festa della Repubblica, ha un suo significato.