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13 apr 2015

Pasquetta, cibo e festività

di Luciano Caveri

"Pasquetta" è un diminutivo di Pasqua, entrato nell'uso popolare per indicare la giornata festiva, anche se non di precetto e dunque senza obbligo della messa, che segue la Pasqua. La giornata è definita anche Lunedì dell'Angelo in ricordo dell'incontro dell'angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Destino del tutto analogo, come festa post festa ma meno importante, del 26 dicembre, che ricorda Santo Stefano, primo martire cristiano. La differenza è che la Pasqua è mobile per via della regola per calcolarla, derivata dalle decisioni - sempre molto umane - prese durante il "Concilio di Nicea" del 325: l'idea fu di far coincidere, ma la faccio semplice, la Pasqua la domenica successiva alla prima luna piena post equinozio di primavera. Quindi potremmo ha ragione chi scherza sul fatto che la Pasqua è... lunatica. Ma in realtà, proprio queste regole, calcoli alla mano, situano la Pasqua in un arco temporale compreso tra il 22 marzo ed il 25 aprile ed esiste pure un'equazione per semplificare i calcoli.

E' interessante come - a segnalare la nostra umanità, che mette assieme con agevolezza sacro e profano - tutto finisca sempre a tavola e in questo il parallelo fra le festività natalizie e quelle pasquali è del tutto coerente. Con la differenza scolpita nel celebre detto "Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi", che ampia gli orizzonti della festività primaverile certo adatta a piccole vacanze fuori dagli obblighi dell'intimità familiare del 25 dicembre. Ma Pasquetta e la primavera annessa - al di là del rischio beffardo del maltempo che sembra seguire il cambio di data (il prossimo anno slitteremo al 27 marzo!) - spingono alla celebre "gita fuori porta", che apre i telegiornali in una giornata in cui, se la cronaca non propone cattive notizie, nelle redazioni non si sa di che cosa parlare e si propone sempre la solita storia, fotocopia di anno in anno, fatta di pranzi e scampagnate. Ma dicevo del cibo e della sua costante presenza. Uova vere o di cioccolato, colombe dolci, agnello e capretto, torte salate (come la torta verde di mia mamma): chi studia la sociologia dell'alimentazione, che spazia dagli usi e costumi all'antropologia culturale, scopre come ci piaccia fissare ad ogni festività una corrispondenza con il cibo da consumare. E queste suggestioni sono visibili durante le spese nei supermercati che assecondano non solo la stagionalità dei prodotti, ma ammiccano alle tradizioni in una logica sempre più globalizzata (la parte etnica nelle scansie è il segno del "melting pot", ammesso che questa logica del crogiolo funzioni...), per non dire dei menu dei ristoranti che riceviamo nella posta elettronica per santificare la festa con i piedi sotto il tavolo e che sono un trionfo della culinaria ammiccante fra il "local" e il "global", che ormai è filosofia spicciola fra "chilometri zero" e mondo intero. Lo scrittore poliglotta George Steiner ha osservato: «Mangiare da soli ci dà la sensazione di una solitudine particolare, a volte penosa. Invece, nel condividere cibo e bevande, penetriamo nel cuore della nostra condizione socioculturale. Le implicazioni simboliche e materiali di quell'azione sono quasi universali: comprendono il rituale religioso, le strutture e le divisioni dei ruoli fra i sessi, il campo erotico, le complicità e gli scontri politici, le opposizioni giocose o serie nel discorso, i riti del matrimonio o del lutto». Il cibo (e naturalmente il bere) non è solo - per fortuna rispetto a chi stenta a sfamarsi - un banale nutrirsi: è un modo complicato e ricchissimo per interagire con il prossimo, è un intrico di prodotti che si mischiano e si rinnovano, non è solo lo stomaco ma è il trionfo dei sensi che si incrociano.