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09 feb 2015

Essere tappetino

di Luciano Caveri

A parte la consolazione che un galantuomo sieda al Quirinale, ho l'impressione che sulle vicende politiche nazionali, in epoca di proclamata trasparenza, si è invece in un accrocchio con troppe opacità e molti "pontieri" che sembrano emersi da romanzi d'avventura. Le cronache dei giornali sono piene di retroscena che spesso sembrano inverosimili, fino a poi scoprire che invece si tratta di fatti del tutto concreti. Per cui è bene mai stupirsi. Questo penso non piaccia per nulla al cittadino mediamente informato, che oggi pretende a ragione che certe nebbie si dissolvano. Ma cerchiamo di prendere le cose con un pizzico di leggerezza. Matteo Renzi dice di «non voler perdere tempo con i partitini», a conclusione proprio della vicenda dell'elezione del Presidente della Repubblica e promette, con metafora automobilistica , di «voler mettere il turbo alle Riforme». Silvio Berlusconi abbozza, dopo la sconfitta per il Quirinale, perché par di capire che il "Patto del Nazareno" - che pare venga letto diversamente dalle parti stipulanti - serve per risolvere alcuni suoi problemi fra beghe giudiziarie e futuro del sistema radiotelevisivo.

Per cui oscilla fra essere un Berlusconi di lotta o di Governo, a seconda dei momenti e soprattutto degli interessi in gioco. Ma gli esponenti del Nuovo Centrodestra - che stanno perdendo pezzi fra chi torna dal Cavaliere che si accasa con la Lega - si arrabbiano della storia dei "partitini" ed un rappresentante di spicco del partito e del Governo, Maurizio Lupi, crea una nuova immagine nella politica italiana con il suo «non siamo tappetini». Bella storia, che vale la pena di essere approfondita. L'Etimologico racconta di come la parola venga dal latino, che l'ha preso dal greco "tápēs", che è a sua volta un prestito orientale, probabilmente persiano, dalla radice "tap- tessere" che ha dato "tāfta - tessuto" (da cui "taffetà"); il prestito è entrato una seconda volta in Occidente al tempo della prima Crociata attraverso il greco bizantino "tapḗtion". Da qui arriva l'ottocentesco "tappetino" o "nettapiedi", così spiegato dalla Treccani: "tappetino rettangolare (detto anche stuoino o zerbino) di fibre corte di cocco o altro, che si colloca per lo più alla porta d'ingresso degli appartamenti e simili, per strofinarvi la suola delle scarpe e liberarla così da polvere, fango o altro". Esattamente quello cui si riferiva Lupi. La tipologia dei tappetini è ben presente e ampia in politica. Ci sono quelli che lo sono per vocazione naturale e dunque per loro non è neppure un sacrifico, perché assecondano una pulsione alla schiavitù già esistente senza forzatura alcuna. E vi sono quelli che lo fanno per opportunismo e dunque sopportano di abbassarsi a zerbini per i vantaggi che possono avere a detrimento della propria dignità. I peggiori sono quelli che di entrambi le specie fan parte dell'entourage (o "cerchio magico" nella pubblicistica più recente) e che per restarci amano ogni forma di mortificazione. Il "tappetino" finisce per assomigliare al Fantozzi di Paolo Villaggio, che alla fine anche quando si ribella - come nel celebre episodio della "Corazzata Potëmkin" quando definisce il celebre film «una cagata pazzesca» - torna poi all'ovile perché è pusillanime dentro e non può contrariare la propria indole più profonda. In epoca di anglicismi resta consolante pensare che lo zerbino può essere anche istoriato con la scritta benaugurante "Welcome - Benvenuto" per essere ancora più accogliente per chi monta sulla schiena del tappetino umano per pulirsi i piedi.