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06 gen 2015

Un accordo intergenerazionale

di Luciano Caveri

Bisogna pensare a come affrontare tante cose e l'inizio dell'anno serve a questo. Finiti brindisi, lustrini e cotillons tocca profittare del momento psicologico di riflessione sul da farsi. Bisogna combattere i rischi del giorno per giorno, della politica usa e getta e dell'amministrazione che segue disegni troppo spesso oscuri (il "pecunia non olet" va combattuto con decisione e non basta inasprire le pene). Giorgio Napolitano ammette di perdere qualche colpo alla veneranda età di novant'anni ed io conosco giovanissimi che non gli arrivano al malleolo. L'altro giorno, per gli auguri di Natale, ho incontrato César Dujany, classe 1920, che analizza con rara lucidità la situazione valdostana, ma in un quadro cui non sfuggono mai i problemi del mondo. A commento, mi è piaciuta molto un commento da parte di un antico amico della Valle d'Aosta. «Se siamo d'accordo sul fatto che la mente conta più dell'anagrafe, i ruoli di responsabilità possono sicuramente essere mantenuti fino in età avanzata. Anzi, io sostengo che l'anziano ha il diritto di avere doveri e responsabilità, perché sono questi i principali stimoli per mantenere attivo il cervello». Lo ha detto il professor Umberto Veronesi, coetaneo di Napolitano, intervistato da "Qn" sulla scelta, pure spiegata direttamente nel messaggio agli italiani, del Presidente della Repubblica di lasciare il suo incarico. Fra i diversi patti da stipulare per il futuro della Valle d'Aosta, ma vale per tutto l'Occidente sviluppato, questo è un punto centrale. Si tratta, infatti, di applicare alla nostra società una qualche forma di accordo intergenerazionale. Non si tratta di un esercizio retorico o sentimentale, ma di affrontare un problema serio: la vita umana per fortuna si allunga, ma questa prospettiva si incrocia con una diminuzione degli spazi dello Stato Sociale e della possibilità che la spesa pubblica "copra" in tutto e per tutto quanto si rende necessario per una vecchiaia serena, sapendo che più ci si avventura in là e più certi problemi aumentano. In parallelo i giovani diventano minoranza, su cui grava il futuro, ma ci sono troppe evidenze di forme di incertezze e precariato per le nuove generazioni. Rischia fra gli uni e gli altri di aprirsi una forbice fatta di incomprensioni. Al "nuovismo" rottamatore, che appare come una malattia infantile, rischia di contrapporsi un "vecchismo" egoista, altrettanto patologico. Per altro, deve funzionare il meccanismo del passaggio di testimone fra vecchi e giovani e il mix giusto resta sempre quello che mette assieme esperienza e innovazione. Ma non può essere concepito come una guerra di trincea e una sorta di incomunicabilità. Un caso di scuola è nell'incipit di una notizia data da "La Repubblica" ieri sera: "Nel 2007 il tasso di occupazione tra gli "over 55" era al 34,2 per cento, mentre oggi siamo saliti quasi al 47 per cento. Di contro, nella fascia tra 25 e 34 anni si sono persi oltre undici punti percentuali di occupazione fino al 59,1 per cento: significa un milione e 600mila ragazzi in meno. Italia quarta in Europa per perdita di occupazione tra i più giovani". Va detto, però, che, in mezzo, ci sta la riforma pensionistica e il fatto che non si può far retorica sui giovani e cambiare, spostandoli più in là, i requisiti dell'età. Così com'è difficile pensare che certe scelte al ribasso sul fronte delle tutele contrattuali servano ai giovani per avere maggiori certezze. Poi, per carità, nel nome della crisi e del "Patto di stabilità" si può fare ormai tutto e il suo contrario, ma il rischio è che - fra i vari scenari - "salti" sempre più il rapporto fra generazioni. Temi non facili, ma che vanno messi assieme in un disegno che non sia fatto a spizzichi e bocconi, almeno laddove - finché dura - la politica di prossimità dell'autonomia speciale dovrebbe (ma oggi il condizionale è d'obbligo) consentire di fare scelte nuove e coraggiose.