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07 set 2014

«Che fai?»

di Luciano Caveri

Capita spesso - ed è avvenuto anche nelle gite estive in giro per la Valle - di trovare qualcuno che, più o meno amico e con più o meno garbo, mi domandi secco: «Ma ti occupi ancora di politica?». L'interrogativo, posto in buona o cattiva fede, a seconda del soggetto interrogante, mi stupisce sempre, anche se dovrei esserci abituato. La risposta è sempre rapida, perché dovrebbe prevedere non un semplice scambio di battute, magari mentre bevo un caffè o sgambetto lungo un sentiero, ma presupporrebbe un ragionamento un pochino più lungo e senza distrazioni. Per cui provo a rispondere bene ed in fondo finisce per essere un esercizio per me medesimo. Chi ha fatto a lungo politica, con cariche elettive che ritengo "significative", finisce per guardare il mondo in parte con quegli stessi occhiali. Lo faccio, nel mio caso, limitando al massimo il "reducismo", cioè quel fenomeno di reinserimento nella società civile che avevano una volta i militari che tornavano dalla guerra, tentati di portare anche nell'esistenza corrente quanto appreso nella loro vita sui campi di battaglia. Non che non mi piacciano l'aneddotica e i riferimenti ormai storicizzati, ma vorrei evitare di sembrare uno che pensa di avere esaurito le sue energie e vive con le pile dei propri ricordi. Il vantaggio di essere fuori, per così dire, dalle "stanze dei bottoni" (espressione che coniò il famoso leader socialista Pietro Nenni) è che - oltre a tornare al tuo lavoro di un tempo - guardi le cose con maggior distacco e forse le persone ti parlano con maggior libertà e, in certi casi, con maggior sincerità. Per cui ti rendi conto con crescente consapevolezza di quanto l'antipolitica sia ormai un virus diffuso e questo va da forme di totale disinteresse o astrazione verso la politica, cancellata dalle proprie vite, a forme invece di militanza furiosa verso ogni soggetto istituzionale costituito. Fra questi due estremi ci sono molte varianti, che rendono ogni caso pressoché unico. E' difficile, di fronte a schifezze e brutture, fare il difensore della classe politica per partito preso, ma neppure accetto generalizzazioni devastanti, perché - per fortuna e onestà - ognuno deve’essere esaminato per la propria posizione personale. Eppure, ritenendo ancora e sempre la politica un impegno civile, che nel mio caso è anche uno scrivere ed interessarsi a quello che è un giovane soggetto politico come l'Union Valdôtaine Progressiste, penso sempre alla necessità di forme di militanza, sapendo che queste cambiano giustamente nel tempo e nulla è ormai cristallizzato in una fissità rassicurante. Questo vuol dire che chi ama la politica deve muoversi su un terreno sempre nuovo e non adagiarsi nella comoda poltrona del conservatorismo e delle abitudini, ma muoversi in un mondo in cui bisogna cercare sempre nuove strade, senza tagliare i ponti alle proprie spalle, perché non si va in giro senza un patrimonio di idee e di pensieri, così come si sono formati nel corso della propria vita. La situazione della Valle d'Aosta oggi è grave ed è persino inutile sul punto, così platealmente dolente, entrare nei particolari, essendo tutto ben visibile alla luce del sole per chi la voglia vedere. Non si può, proprio per le difficoltà in corso, far finta di niente e rifugiarsi nel privato, quando invece un elenco telefonico di buone ragioni implica la necessità di darsi da fare per affrontare urgenze ed emergenze e capire che cosa fare nel futuro, uscendo dalla politica del giorno per giorno e da quella ragnatela di storie e storielle che rischia di soffocare l'autonomia speciale. Non è una mozione degli affetti o il refrain favolistico e menagramo del «al lupo, al lupo», ma la considerazione che rassegnarsi o chiudersi nella semplice polemica suona già come una sconfitta. Perché il terreno della politica viene comunque occupato da altri e poi non ci si può lamentare se le cose non vanno o vanno troppo bene per i soliti noti e il loro simpatico entourage. Esiste in alcuni una carica di violenza mista a un senso crescente di impunità, che sposta sempre più distante il confine della legalità, a detrimento della larga maggioranza di persone che mai concepirebbero certe vicende. Ma la parola "fine" non arriva da sola, sperando in qualche intervento salvifico o risolutore, da dovunque esso arrivi o contando comunque sul lieto fine, come se così dovesse essere obbligatoriamente. Tocca metterci la faccia.