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08 feb 2014

La poesia e gli "Ossi di seppia"

di Luciano Caveri

La poesia l'ho scoperta a scuola. Oggi, tra l'altro, capisco anche quell'imposizione di imparare a memoria i versi, che mi pareva odiosa, ed invece serve molto come esercizio e torna utile per la propria cultura. A scuola poi, ai tempi del Liceo, mi piacevano molti i classici latini e greci e, non avendo ancora coscienza di come certi sentimenti umani attraversino le epoche, ero stupito della loro modernità e della vicinanza con certi miei pensieri. Poi - specie quando avevo cominciato a pensare di fare il giornalista radiotelevisico - quando c'era da leggere in classe qualcosa (tipo Dante Alighieri o, che so, Giacomo Leopardi) lo facevo volentieri, dandomi un tono profondo all'Arnoldo Foà. Ricordo, sempre nella memoria giovanile, ma dovevo essere ben più piccolo, quando venne trasmessa l'Odissea in riduzione televisiva, un vecchissimo Giuseppe Ungaretti (poeta che poi ho amato) leggeva pezzi dell'opera di Omero. Non era una lettura da attore, ma sofferta e direi "semantica", per quello scandire così espressivo e antico. Ma il mio preferito resta Eugenio Montale, che doveva avere, accanto ad una genialità indiscutibile, un carattere terribile. Uomo senza compromessi, come dimostrato dal prezzo, povertà compresa, pagato per il suo antifascismo. Quando facevo Terza media, per merito di una professoressa di Lettere di origine genovese, scoprii alcune poesie di "Ossi di seppia", la prima raccolta del poeta, risalente al 1925. Per chi, come me, aveva passato tutte le estati, da giugno a settembre, in Liguria - nella materna Imperia, già cara a Casa Savoia, quando erano ancora divisi Oneglia e Porto Maurizio - questo suo scrivere del mare e della terra ligure erano utile per capire quei luoghi che, nella poesia, assumono naturalmente un valore universale. Il caso vuole che, in questi giorni, abbia trovato e letta interamente, quella raccolta e, con maggior coscienza, abbia ritrovato quanto mi era piaciuto, senza capire fino in fondo. Sapendo - e questo al "Classico" si capisce subito - che nella poesia resta sempre uno spazio di interpretazione soggettiva, perché i versi cadono su ciascuno di noi per quel che siamo e per il bagaglio che ci portiamo dietro. La spiegazione di perché "Ossi di seppia" è in quel passaggio: "Oh allora sballottati come l'osso di seppia dalle ondate svanire a poco a poco". Ma sono proprio le invenzione linguistiche ad avermi sempre stupito, come quell'effetto di luccichio del mare, che così diventa in alcuni versi: "Lameggia nella chiaria la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia vita turbata". E quella conclusione in Scirocco, cui ho pensato tante volte, vedendo le acrobazie dell'agave: "ora sono io l'agave che s'abbarbica al crepaccio dello scoglio e sfugge al mare da le braccia d'alghe che spalanca ampie gole e abbranca rocce e nel fermento d'ogni essenza,coi miei racchiusi bocci che non sanno più esplodere oggi sento la mia immobilità come un tormento".