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04 nov 2013

I "giacimenti culturali", con tutte le cautele

di Luciano Caveri

Citavo ieri le città d'arte, come esempio mirabile di come, in fondo, certe costruzioni umane siano parte integrante della Natura di cui facciamo parte. Il turismo culturale è una realtà straordinaria: un giacimento d'oro - si parlava non a caso, anni fa, di giacimenti culturali - di cui si può vivere, gestendo con intelligenza l'eredità del passato. Questo vale anche per la Valle d'Aosta, che ha nel piccolo del proprio territorio una serie di ricchezze artistiche invidiabili e spesso originali, nel senso che per trovarle bisogna proprio venire nel nostro angolo di Alpi e operare in una logica di tutt'uno regionale, senza troppo badare ai singoli campanilismi. Sarà che scrivo da Firenze, vittima - senza cadere nella "Sindrome di Stendhal" di cui parlai tempo fa e che lo colpi proprio qui - della straordinaria attrattiva di una città, che ogni volta offre qualcosa di diverso, come se fosse un pozzo senza fondo. Ieri, dopo una vasto giro agli "Uffizi", mi sono seduto su di una panca e mi sono trasformato in bonario guardone. Osservavo questo flusso di umanità cosmopolita, dalle caratteristiche le più varie, che si aggiravano come straniti in mezzo a tanta bellezza antica con la gioia e la meraviglia sui volti. In un mondo che è ancora pieno di guerre ed orrori ci sono, per fortuna, delle zone franche dove si trovano - magari di fronte ad un dipinto - nemici giurati, per un attimo accomunati dall'ammirazione. Sono espressioni che ho visto in altre città d'arte, come Venezia - il cui irradiamento lascia sbalorditi - o la stessa Torino, rinata dalle proprie ceneri per una serie di attrattive messe in ordine. Poi c'è Roma, che ho conosciuto un po' meglio nella sua logica di miseria e nobiltà, che le consente di restare ai vertici dei desideri dei turisti. Conosco meno bene le grandi città del Sud, ma anche lì non mancano attrattive uniche e irripetibili. Questa, in un'Italia senza materie prime, è una materia prima, che funziona a condizione che ognuno resti come si sente di essere, immaginando che le differenze e i particolarismi non siano una malattia, ma una ricchezza. Aveva ragione Milan Kundera nel dire: «La culture, c'est la mémoire du peuple, la conscience collective de la continuité historique, le mode de penser et de vivre». Ogni città d'arte ha la sua personalità, come eredità appunto di un modo di pensare che spingerebbe naturalmente l'Italia al federalismo, ma anche oggi - lo dico con dolore - si va verso un centralismo ormai intollerabile e questo spingerà a una riflessione complessiva su uno Stato ormai prossimo al collasso. La Cultura - con maiuscola o minuscola poco conta - non è un capriccio elitario o uno snobismo di maniera e garantisce continuità nel proprio senso identitario. Si tratta di una risorsa economica e di un elemento indispensabile di crescita per le persone e per le comunità. Un vero antidoto contro la logica di chi vorrebbe un popolo bue e un utilizzo superficiale della cultura, intesa come "panem et circenses", cioè intrattenimento senza radici e nuove fioriture.