Defunti digitali

Il culto dei morti, in qualunque posto del mondo si finisca, ha avuto un ruolo capitale per tutte le civiltà umane. Così visitiamo templi e piramidi, chiese e cimiteri e ogni altra testimonianza che lega noi vivi con chi non c’è più.
Noto una crescente dematerializzazione o smaterializzazione che contraddice la tradizione con chi non solo inizia a scegliere di essere cremato, ma chiede poi che le sue ceneri vengano sparse chissà dove, rinunciando anche ad una tomba su cui comparire.
Leggevo in queste ore un articolo del sociologo Gérald Bonner, scritto per L’Express, che ci apre ad un nuovo approccio. Tutto si digitalizza e perché non il rapporto con i defunti?
Cita all’inizio una sua disavventura: aver fatto gli auguri su Facebook a un suo follower per essere poi avvertito che era morto e prosegue sul tema: “Une étude réalisée par Carl Ohman et David Watson de l’université d’Oxford, Facebook comptera plus de profils de personnes décédées que d’utilisateurs vivants à l’horizon de 2070. Sans qu’on s’en aperçoive, les nouvelles technologies inaugurent un rapport inédit entre le monde des morts et des vivants. Dans toutes les cultures, on trouve des rituels, généralement annuels, pour honorer les défunts. Chez les chrétiens, la Toussaint est le moment idoine pour rendre hommage à ceux qui ont disparu. Par les fleurs que nous leur offrons et les paroles que nous leur chuchotons, nous les faisons revivre un peu”.
Già ma ora irrompono le tecnologie, facendo - mi si consenta - il verso a chi in passato e temo anche nel presente finisce vittima dei ciarlatani che con sedute spiritiche evocano chi finisce nell’Aldilà.
Osserva l’autore: “Le monde contemporain et ses excroissances technologiques nous offrent de multiples façons de faire revenir les morts. En février 2022, un couple d’Indiens a décidé de se marier dans le métavers. Parmi les 2 500 invités qui ont festoyé dans le décor du Poudlard de Harry Potter, il y avait le père de la mariée. Rien d’étonnant, à ceci près que l’individu était décédé l’année d’avant. Le marié a voulu honorer sa femme en ressuscitant son père sous la forme d’un avatar. Cette situation n’est qu’une de celles qui vont nous conduire à explorer une nouvelle forme de coexistence entre les vivants et ceux qui nous ont quittés.
Ainsi, plusieurs applications d’intelligence artificielle permettent de recréer de façon quasi indiscernable la voix de personnes disparues. On a pu entendre Steve Jobs, décédé en 2011, déclarer que la pandémie de Covid-19 avait été l’événement le plus considérable de l’année 2020. Plusieurs entreprises se sont lancées dans ce « spiritisme » technologique qui va permettre de parler avec les morts. Les sociétés Forever Voices ou Somnium Space offrent déjà de recevoir des messages vocaux de proches disparus, à condition que l’on ait conservé des enregistrements de ceux-ci”.
Roba da infarto, se non avvertiti.
Ma altro ci attende: “L’étape suivante est presque là : non seulement les entendre, mais encore les voir. (…) Il ne restera plus qu’une étape à franchir, donner un corps à cet avatar, pour que le trouble soit total”.
Altro che la piccola fotografia, spesso inquietante, sulla tomba o la vecchia scritta con data di nascita e di morte. Altro che il potere evocatore dei morti delle belle poesie di Lee Masters.
Ancora un’osservazione si Bonner: “Si cette opportunité technologique se développe, les questions attenantes seront immenses, comme la possibilité même de faire son deuil. Elle conduira les sociétés humaines à redéfinir le rapport entre le monde des morts et celui des vivants. Il existe, partout dans le monde, des processions annuelles où l’on mime le retour des défunts parmi nous. Que ce soit par la fête d’Halloween ou par les traditions multiples du carnaval, les disparus reviennent le temps d’un instant visiter le monde de la vie. Certains anthropologues y voient des rituels essentiels à la revitalisation du lien social et du monde en général, notamment parce qu’ils s’organisent fréquemment autour des solstices. Quelque interprétation qu’on leur donne, ils sont traditionnellement contingentés par les calendriers ancestraux, qui ont la sagesse d’appeler à un temps limité du souvenir. La technologie nous fait prendre le risque de désorganiser le marché des rituels car elle fait une offre nouvelle qui perturbera la régulation du calendrier traditionnel. Sommes-nous à l’aube d’un temps social qui sera celui d’un carnaval permanent?”.
Giusto interrogativo.

L’addio ai 7 nani

L’Ansa l’ha spiegata così e alla lettura non sapevo se ridere o piangere: “Biancaneve ispanica, senza principe e senza nani. Il nuovo film della Disney firmato dalla sceneggiatrice e regista del momento, Greta Gerwig, uscirà solo nel 2024 ma ha già scatenato un acceso dibattito tra chi lo accusa di aver snaturato la fiaba del 1937 in nome del "politically correct" e chi lo saluta come la necessaria attualizzazione di una storia datata. A creare il clamore e scatenare i social media è stata una foto pubblicata dal tabloid britannico Daily Mail delle riprese del film in Bedfordshire, Inghilterra. Nell'immagine si vede Biancaneve con il suo caratteristico mantello rosso sopra l'abito giallo e blu seguita da un gruppo di creature magiche d'ogni genere, dimensioni ed etnia. "GoWoke or GoBroke", ha scritto un utente di Twitter accusando l'industria cinematografica negli Stati Uniti di essere "succube" della cosiddetta "cultura woke", ovvero anti-razzista, pur di vendere i propri prodotti”.
Non è la prima volta in cui il politicamente corretto e il cancel culture si mischiano alla “cultura woke”. Woke, letteralmente "sveglio", è un aggettivo della lingua inglese con il quale ci si riferisce allo "stare all'erta", "stare svegli" nei confronti delle ingiustizie sociali o razziali. Tutto bene quando non si cade nel ridicolo, come con questa rivisitazione, che può essere usata - tanto per fare un esempio - per tutto l’insieme di favole e fiabe. Ricordo come la favola sia di regola scritta da un autore, ha per protagonisti animali e alla fine contiene una morale con la quale si vuole insegnare un comportamento o condannare un vizio umano. La fiaba invece ha origini popolari antichissime, risale addirittura alla preistoria, e non ha una morale.
Mi ha molto divertito il sarcasmo da equilibrista sul tema dell’ottimo Gianluca Nicoletti su La Stampa: “Davvero non mi spiego il piagnucolare diffuso delle vedove del Principe Azzurro di Biancaneve. Ancora meno riesco a capacitarmi per l’horror vacui che ha provocato la scomparsa dalla vita di quella fanciulla di sette coattoni, buzzurri, violenti, misogini e soprattutto avidi trafficanti di diamanti.
Davvero esistono ancora donne capaci di rimpiangere quel giovane farlocco figlio di papà, che si sente un fico andando in giro con una mantellina ridicola che appena gli copre il sedere, con uno spadino di misura imbarazzante, con un taglio di capelli da locandina di antico barbiere di paese?
Iniziamo a vederci chiaro sulle figure ambigue dei Sette Nani, ne dedurremo quanto non sia possibile per persone civilizzate lamentare la messa al bando di quella cosca di malavitosi”.
E aggiunge più avanti in modo graffiante: “È fuori di dubbio che il periodo che Biancaneve passa a casa dei nani sia assimilabile a un regime di schiavitù: la obbligano alle mansioni più umili senza ombra di compenso, lei è costretta a lavare i loro pedalini zozzi, le loro mutande incrostate, pulire casa, cucinare. Oltre che provvedere di persona alla loro animalesca igiene intima. Tutto senza nemmeno applicarle il contratto nazionale per le colf e badanti che prevede equo salario, riposo settimanale, ferie e Tfr?
Lo sfruttamento da parte dei nani papponi della sventurata Biancaneve non si ferma neppure con la sua morte. Continuano ad abusare di lei persino quando la ragazza fatalmente collassa, nell’apoteosi della disperazione, pone fine alle sue sofferenze dopo essersi incautamente affidata a una vecchia pusher, con l’illusione di poter evadere dalla sua angoscia ricorrendo a sostanze psicotrope”.
Ovviamente si riferisce alla terribile mela e poi Nicoletti sfotte lo stucchevole lieto fine. Per altro avevo letto che i censori del politicamente corretto avevano stigmatizzato il famoso bacio del Principe Azzurro, perché dato - senza il suo consenso - ad una Biancaneve dormiente!
Su Twitter tale “Estrema riluttanza” ha raccontato una storia che apre uno squarcio ancora diverso: “Fu proprio "#Biancaneve" a impedire la cessione dei diritti degli scritti di #Tolkien a #Disney.
"Biancaneve e i sette nani" uscì 3 mesi dopo "Lo Hobbit" e Tolkien andò a vederlo con l'amico C.S.Lewis, il padre del ciclo di Narnia.
Tolkien ne fu disgustato. I nani della "Ne riconosco il talento, ma mi è sempre sembrato irrimediabilmente corrotto. Sebbene nella maggior parte delle creazioni dei suoi studi ci siano passaggi ammirevoli o affascinanti, il loro effetto su di me è di disgusto."
L'anno dopo scrisse una lettera esplicita ai suoi editori "finché sarà possibile… porremo il veto a qualsiasi cosa che abbia a che fare con gli studi Disney (per i cui lavori ho un sincero disgusto)."
Fu la pietra tombale sui tentativi Disney di acquisire i diritti sugli scritti di Tolkien”.
Aggiungo solo che ovviamente in Disney l’intento sui nani (lancerà difficoltà è ricordarne i nomi di tutti e sette) era quello non di sfottere chi affetto da nanismo, ma di creare personaggi buffi che si rifacevano ad una favola famosa di origini popolari, resa mondiale nella stesura da parte dei Fratelli Grimm. Per altro - e chissà come la possono giudicare i censori del film - questa fiaba del 1812 è profondamente diversa da quella che tutti noi conosciamo. La matrigna è in realtà la madre di Biancaneve, che ha soltanto sette anni, e la vuol fare uccidere per mangiarle fegato e polmoni con sale e pepe. Il principe la conosce nella bara di vetro in un momento imprecisato dell’età della ragazza, che non viene risvegliata dal veleno della mela né da un bacio dell’uomo, ma dagli strattonamenti dei servi, stanchi di vedere il principe iracondo a causa dell’amore necrofilo per il cadavere della ragazza.
Roba più horror delle simpatiche canzoncine dei sette nani e di Biancaneve.

Questione di pelo

Ci sono molti modi di dire sul pelo. Ne ricordo alcuni: avere il pelo sullo stomaco, cercare il pelo nell'uovo, di primo pelo, essere a un pelo da qualcosa, fare il pelo e il contropelo, lasciarci il pelo, lisciare il pelo, non avere peli sulla lingua.
Mi fermo qui e vengo al punto e cioè a qualche passaggio di un articolo su Le Monde dedicato - scusate la semplificazione - alla depilazione, la cui trattazione è molto seria.
Così inizia Claire Legros, rifacendosi all’attualità: ”Ce fut l’un des enseignements inattendus des confinements imposés par la pandémie de Covid-19. Pendant quelques mois, un vent de liberté a soufflé sur les duvets et les toisons. Nombreuses sont celles, notamment parmi les plus jeunes, qui ont délaissé rasoir et épilateur. Selon l’institut de sondage IFOP, plus d’un tiers des femmes de moins de 25 ans déclaraient en 2021 s’épiler « moins souvent qu’avant le premier confinement ». Avec soulagement, si l’on en croit les réactions recueillies par le collectif Liberté, pilosité, sororité créé en 2018 pour dénoncer la «norme du glabre» : «une sacrée liberté!»  ; «un gain de temps et d’argent!» ; « la fin des douleurs » ; «une réappropriation de mon corps », témoignent celles qui ont franchi le pas”.
Già ma più avanti entra nel merito: ”Le poil féminin dérange, il insupporte, il hérisse. Si le sujet déchaîne les passions, c’est qu’arborer sa pilosité est perçu, chez la femme, comme une transgression qui « heurte les traditions, mais aussi les normes contemporaines », rappelle l’historienne Christine Bard, professeure d’histoire contemporaine, dans son livre Féminisme. 150 ans d’idées reçues (Le Cavalier bleu, 2020). Affiché comme un acte militant, le geste en dit long sur l’époque. Car le poil n’est pas qu’une affaire de mode ou d’esthétique, il est aussi « un révélateur subtil de l’état d’une société, de l’idée qu’elle se fait d’elle-même et des traumatismes qu’elle a subis », explique l’historienne Marie-France Auzépy, qui a codirigé une magistrale Histoire du poil (Belin, 2011, réédité en 2017)”.
La Storia, in un altro passaggio, aiuta e così annota la Legros: ”En grec ancien, le mot thrix désigne autant le poil que le cheveu, puisqu’ils ont la même origine biologique. La plupart des langues, d’ailleurs, ne les distinguent pas comme le fait le français. Qu’on le raille sur les jambes des filles ou qu’on l’exhibe sur les mentons des garçons, qu’on le rase sur le crâne des moines ou qu’on le voile sur la tête des femmes, il participe à la construction des apparences, « ce labeur exténuant accompli sur les corps pour les faire ressembler aux mots et aux images qui prétendent les façonner », selon les mots de l’historien Alain Corbin”.
Ma non tutti hanno la medesima pelosità: “La pilosité n’est pas uniformément partagée sur la planète. « On l’oublie souvent, mais il existe une géographie du poil, rappelle Christian Bromberger. A de rares exceptions près, seules les populations européennes et du pourtour méditerranéen, ainsi que celles du Moyen-Orient, développent une pilosité naturellement abondante. » En dehors de cette « ceinture velue » − la formule est du romancier américain Jeffrey Eugenides dans Middlesex (2002) − qui s’étend à peu près du Portugal et du Maroc à l’Afghanistan, une majorité des populations de la planète sont naturellement glabres”.
E prosegue l’autrice: “Il n’existe, jusqu’à la seconde moitié du XXe siècle, que de très rares témoignages directs sur l’épilation féminine. Dans la Grèce antique, les sculptures des déesses affichent un corps imberbe, y compris le pubis, et de nombreuses traces témoignent de pratiques dépilatoires féminines. Plusieurs coupes peintes, dont la plus ancienne date du Ve siècle avant notre ère, montrent une servante à genoux en train d’épiler le corps nu de sa maîtresse. Le poète grec Aristophane évoque différentes techniques dont l’usage d’une lampe à huile pour brûler les poils pubiens des femmes”.
E ancora: “Au cours des siècles, les religions vont renforcer les injonctions pilaires. La peau glabre est un symbole de pureté dans les cultures hébraïque, chrétienne, islamique et les religions extrême-orientales. Les premières représentations d’Eve la dévoilent imberbe alors même qu’elle est censée évoluer dans sa naturalité originelle, tandis qu’Adam est souvent montré barbu. Au-delà de l’iconographie, les divergences pilaires entre les religions sont nombreuses. Le christianisme prône le respect de la nature, œuvre de Dieu. « On ne doit pas supprimer les poils, mais les passions », écrit au IIIe siècle Clément d’Alexandrie, l’un des Pères de l’Eglise. Pour les sociétés islamiques, au contraire, l’épilation du pubis et des aisselles est la norme pour les deux sexes”.
Ma la depilazione, ricorda la Legros, si declina ormai molto al maschile: ”Cet hygiénisme qui semble vouloir échapper aux contingences du corps touche également les jeunes hommes, de plus en plus nombreux à bannir eux aussi toute trace de pilosité. La tendance témoigne sans doute de la fluidité de genre qui traverse l’époque. Elle ne doit cependant pas faire oublier que les injonctions restent beaucoup plus fortes pour les femmes. Ainsi le malaise suscité par la vue de poils reste quatre fois plus important pour des aisselles féminines (57 %) que masculines (15 %), selon un sondage de l’IFOP”.
È con le femministe negli Settanta che emerge una prima ribellione contro la depilazione, ma resta un’incompiuta, ora in movimento: “Quarante ans plus tard, c’est à la faveur du mouvement Metoo, au tournant des années 2010, que le poil féminin revient dans le débat, alors qu’« enfle le tsunami de la réappropriation par les femmes de leur corps dans ses dimensions les plus intimes », souligne la philosophe dans Le Corps des femmes. La bataille de l’intime (Philosophie Magazine Editeur, 2018). (…) Renversant l’idée d’une libération des corps dénudés sur les plages, les militantes d’aujourd’hui dénoncent l’obsession du lisse comme un mythe aliénant, un nouveau support de contrôle social qui maintient les femmes dans un état d’insécurité et de subordination, première étape d’un continuum de violences. « Les féminismes des années 2010 défendent plus que jamais des corps libérés et affirment que les poils, le gras, les rides ou encore les règles sont politiques », souligne l’historienne du féminisme Christine Bard”.
Insomma il mondo cambia, come le mode e i costumi. In fondo niente di nuovo sotto il Sole.

Le leggi e la democrazia

“Una cosa non è giusta perché è legge, ma dev’esser legge perché è giusta”. Così diceva Montesquieu o meglio Charles di Sécondat, Barone di Montesquieu, filosofo , storico e pensatore politico dell’illuminismo francese. Ricordo che nacque nei pressi di Bordeaux (dove lo celebra una bella statua, vista coi miei occhi) nel 1689 e morì a Parigi nel 1757. L’eco del suo pensiero attraversa dunque i secoli, mantenendo un’incredibile freschezza.
La breve affermazione iniziale resta il caposaldo e vale a tutti i livelli, salendo gli scalini della sussidiarietà: leggi regionali, nazionali e normative europee. Sapendo ogni volta che la nascita di nuove leggi obbligherebbe giudiziosamente ad abrogare quanto di inutile in materia per evitare il caos. Buona regola non sempre viene applicata, quando la tecnica legislativa zoppica e si ingarbuglia, come nel caso italiano, dove in più si opera con norme e normette in modo non sistematico.
Si aggiunge la cattiva scrittura degli articoli, spesso scientemente troppo tecnici o volutamente fumosi per dare la possibilità in certi casi di successive interpretazioni estensive.
Ricordo, come esempio, quando - non situo bene in quale anno - la Finanziaria dello Stato era in buona parte nelle mani esperte dell’allora Presidente della Commissione Bilancio della Camera, Cirino Pomicino, dove iniziava la discussione della manovra finanziaria e dunque dove si apportavano le maggiori modificazioni al testo governativo.
C’era - siamo a cavallo fra anni Ottanta e Novanta - la crisi feroce della siderurgia di Stato e in Valle d’Aosta era in corso - e Romano Prodi ebbe un ruolo importante - l’operazione salvifica di privatizzazione della Cogne di Aosta per evitarne la deriva e la chiusura. Una delle condizioni era sfoltire il numero dei dipendenti e dunque era necessario ridurre il numero dei dipendenti in esubero attraverso forme di pensionamento anticipato a 50 anni. I soldi c’erano, come mi disse lo stesso Cirino Pomicino, attraverso quello che curiosamente lui stesso definiva il vol au vent e cioè il gruzzolo che i partiti della maggioranza avevano a disposizione per interventi in Finanziarie Omnibus in cui ogni gruppi cercava di mettere qualcosa di loro in una logica - il tempo lenisce tutto - da assalto alla diligenza.
Feci il mio compitino, preparando un emendamento che coinvolgesse altri stabilimenti siderurgici, come Napoli, Genova e Torino. Lo vidi trasformato all’atto della presentazione da parte del relatore, che era lo stesso Pomicino, cui ne chiesi le ragioni e mi spiegò che la maggior genericità avrebbe consentito più spazi di manovra nella successiva fase applicativa. Un certa oscurità serviva, insomma, per essere meno…rigidi. Una lezione di vita sulla crescita in quegli anni del famoso debito pubblico.
Partecipai in altra veste - e Sabino Cassese, oggi ultraoottantenne, era già in pista come lo è ancora oggi, a importanti riflessioni sulla qualità delle leggi, che portarono alla nascita di un Comitato per la Legislazione a Montecitorio, il cui compito sarebbe sotto quello di rendere intellegibile la lettura delle leggi attraverso un linguaggio scevro da eccessi di burocratese e di aggiunta mano a mano di modificazioni criptiche a quanto già esistente. Mi pare che non ci siano stati grandi passi in avanti.
Per altro, ma non suoni come consolatorio, anche direttive e regolamento europei - di cui ho visto a Bruxelles nascita e evoluzione - non brillano per la loro chiarezza e apertura ad una comprensione grand public, mantenendo troppo spesso un carattere quasi esoterico.
Rientrato in Regione, portai immodestamente qualche esperienza tradottasi in leggi Omnibus di manutenzione e abrogazione di norme ormai inutili, leggi di recepimento delle normative europee nelle materia proprie e anche opportuni tentativi applicativi di competenze statutarie con legislazione propria e con le preziose norme di attuazione dello Statuto di cui ci si era poco interessati per una certa pigrizia del legislatore regionale e rischi di sine cura nei rapporti con lo Stato.
Per altro resta chiaro e forte che - tenendo anche conto del ruolo sulle leggi statali dei parlamentari valdostani - questo sarebbe il compito precipuo del Consiglio Valle, troppo spesso inondato da interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. Intendiamoci: sono iniziative del tutto legittime e spesso danno origine a utili dibattiti in materia ispettiva e di riflessione di temi politici, ma - come in tutte le cose - il troppo stroppia se dalla logica di un Parlamento che…parla si passa talvolta allo straparlare. Così si rischia in certi passaggi di trasformare l’assemblea in organo pletorico e ciò crea fastidio anche nei cittadini che chiedono elementi sempre più fattivi (che ovviamente ci sono!) e sempre meno dialettici, quando e se le sedute diventano per ore maratone oratorie in eccesso.
Lo dico con affetto. da vecchio parlamentarista convinto del ruolo centrale delle assemblee elettive e l’esempio del progressivo svuotamento del Parlamento italiano, inondato da decreti legge approvati con l’apposizione sistematica del voto di fiducia. Situazione che sta modificando di fatto l’ordinamento italiano senza le necessarie modifiche costituzionali.
Vigilare su queste cose, dette senza polemica ma con preoccupazione, vuol dire salvaguardare basilari elementi costitutivi della democrazia e far sì che l’opinione pubblica non si imbeva di antiparlamentarismo e di quel vasto armamentario anticasta - spesso non applicato a casi reali di malcostume da combattere - che ha agevolato il sorgere di certi populismi distruttivi, la cui onda non si capisce ancora bene dove ci porterà.

Gli scenari dell’Intelligenza Artificiale

Con ChatGPT, prima App di Intelligenza Artificiale (IA) per il grande pubblico, l’approccio era stato pieno di curiosità. La sua sveltezza e la sua cortesia mi avevano gradevolmente stupito. Utile per avere informazioni più rapide e sistematiche di un motore di ricerca. Tuttavia, quando le domande poste corrispondono a argomenti conosciuti da chi pone la questione si svela subito il rischio evidente che la ”macchina" prenda “ciòca për bròca“, imbattibile espressione piemontese che significa “confondere una campana con un chiodo“.
Quanto regolarmente avvenuto quando è apparso un secondo concorrente e cioè l’applicazione di IA di Google, chiamata Bard, esattamente come il nostro Comune della Bassa Valle, che si farebbe ricco se potesse rivendicare qualche royalties sul nome! La neonata creatura digitale, su mia richiesta basata sul mio nome, ha preso qualche granchio. Prima mi ha fatto nascere nel 1947 e designato amministratore delegato della Telecom e poi - quando ho insistito - sarei diventato a mia insaputa sindaco di Cuneo. Al terzo tentativo ha cominciato a dare qualche informazione credibile.
Non sono ingenuo: so bene che questi sistemi “popolari” sono pallida risultanza rispetto alle Intelligenze Artificiali già esistenti ma celate al grande pubblico. Per questo non bisogna farsi ingannare dalle vetrine attuali dei sistemi scaricabili, perché c’è ben altro e risalirà presto in superficie. Ne ho avuto piena contezza incontrando a Bruxelles al Parlamento europeo Brando Benifei, il relatore del regolamento comunitario in materia, la cui lettura dà conto dell’assoluta complessità del tema e della necessità di capire bene come equilibrare rigidità nelle norme di controllo con il buonsenso per non strangolare in Europa l’uso della IA.
Ci pensavo, dovendo parlare sul tema in un convegno e avendo come necessario riferimento questioni concrete per evitare di volare inutilmente troppo alto. Con una premessa: la difficoltà di stare dietro a progressi tecnologici così veloci da creare un rischio. E cioè che una volta realizzato qualche cosa ci sia la possibilità che il sistema risulti già prematuramente invecchiato!
Esempi pratici? Elenco alcune possibilità.
Nella Sanità emergono potenzialità nella Telemedicina per fornire soluzioni nelle aree montane più distanti dall’Ospedale. Altro filone: la medicina predittiva, legata da noi al progetto 5000 Genomi e cioè la capacità di anticipare e in certi casi di evitare l’arrivo delle malattie.
Nel monitoraggio dell’Ambiente ci sono molte piste, anche con l’uso dei satelliti, per controllare fenomeni vari come le risorse delle acque, la salute delle foreste, persino della fauna selvatica. Questo significa anche la prevenzione e il controllo dei fenomeni derivanti dal cambiamento climatico, come lo scioglimento dei ghiacciai e fenomeni idrogeologici minacciosi.
Vasto l’uso del settore del Turismo per informazioni ad esempio sui percorsi di trekking o alpinistici. Idem nel settore dell’Energia per ottimizzare l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili e per la loro messa in sicurezza. Nel campo dell’Istruzione l’IA può creare, specie nelle piccole scuole di montagna, migliorare l’apprendimento degli studenti e fornire percorsi di tutoraggio. Pensiamo ancora al Soccorso in montagna, ad esempio per sperimentazioni nel maggior uso dei droni per le ricerche e banche dati per semplificare gli interventi. Interessante per i Trasporti ottimizzare la pianificazione degli spostamenti e migliorare la sicurezza sulle strade.
Mi fermo qui, avendo elencato alcuni spunti, ma esiste anche un filone utile per sburocratizzare il rapporto fra Regione e cittadini su cui intendo lavorare anche con il PNRR.
Per queste potenzialità anche la piccola Valle d’Aosta non deve restare indietro.

La reciprocità dei diritti

Parto con una premessa, che fotografa - mi pare in modo oggettivo - una parola che si adopera molto. Tra l’altro finita in tendenza per le dichiarazioni della scrittrice Michela Murgia che, drammaticamente affetta da una malattia allo stato terminale, ha deciso sul tema di lasciare un segno, partendo dalla sua stessa famiglia in contestazione molto forte con la famiglia tradizionale.
Ecco la definizione: “Il termine "queer" è usato per descrivere persone che non si identificano come eterosessuali o cisgender. Può essere usato come termine ombrello per descrivere una varietà di identità di genere e sessualità, tra cui gay, lesbiche, bisessuali, transgender, non binarie e asessuali.
Il termine "queer" è stato storicamente usato in modo dispregiativo, ma è stato ripreso da alcuni membri della comunità LGBTQ+ come un termine di orgoglio. Alcuni lo vedono come un modo per sfidare le norme di genere e sessualità e per celebrare la diversità. Altri lo vedono come un modo per abbracciare la propria identità unica”. A questo proposito ringrazio chi, dopo la pubblicazione, ha meglio precisato la questione, segnalando come il termine transgender che così posto sembra riferirsi solo agli eterosessuali, quando in realtà sono transgender anche gay, bisessuali, transgender e asessuali perché anche queste persone si identificano chiaramente in un genere di appartenenza.
Ho sin da ragazzino, quando seguivo con simpatia il Partito Radicale, per esserne poi iscritto per molti anni senza perdere la mia totale fede autonomista, creduto nell’assoluta forza dei diritti civili e umani.
Ricordo i contributi di Norberto Bobbio, eminente filosofo e giurista, che ha dedicato buona parte del suo lavoro all'analisi di questi diritti, sostenendo come fossero fondamentali per la protezione della libertà individuale e per il corretto funzionamento di una società democratica
Due passaggi, il primo ne ricorda le origini: “Sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. [...] la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politiche e quelle sociali, della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative, ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d'istruzione contro l'analfabetismo, e via via l'assistenza per l'invalidità e la vecchiaia”.
Il secondo passaggio risale in modo preveggente al 1990: “I diritti della nuova generazione [...] nascono tutti dai pericoli alla vita, alla libertà, alla sicurezza, provenienti dall'accrescimento del progresso tecnologico. Bastino questi tre esempi che sono al centro del dibattito attuale: il diritto a vivere in un ambiente non inquinato, donde hanno preso le mosse i movimenti ecologici [...); il diritto alla privatezza, che viene messo in serio pericolo dalla possibilità che hanno i pubblici poteri di memorizzare tutti i dati riguardanti la vita di una persona [...); il diritto [...] alla integrità del proprio patrimonio genetico, che va ben oltre il diritto alla integrità fisica
Ha scritto il filosofo e politico americano Joel Feinberg : “Avere diritti, naturalmente, rende possibile la rivendicazione; ma è l'atto di rivendicare che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale. Questa caratteristica dei diritti si ricollega in qualche modo alla consueta retorica su cosa significa essere umani. Avere diritti ci rende capaci di "alzarci in piedi da uomini", di guardare gli altri negli occhi e di sentirci fondamentalmente eguali a ciascun altro. Pensarsi come titolari di diritti significa sentirsi orgogliosi - legittimamente, non indebitamente -, significa avere quel minimo rispetto di se stessi che è necessario per meritarsi l'amore e la stima degli altri [...] e ciò che viene definita "dignità umana" può essere semplicemente la capacità riconoscibile di avanzare pretese [to assert claims]. Dunque, rispettare una persona, o pensarla come titolare della [possessed of] dignità umana semplicemente è pensarla come potenziale attore di rivendicazioni [maker of claims]”.
Ciò detto e tenendo conto di come l’orientamento sessuale sia oggi in discussione torno all’inizio e alla considerazione che questa storia dei Queer è rivendicazione legittima, tuttavia ritengo che non sia condivisibile - a difesa di diritti altrettanti legittimi - ritenere che l’eterosessualità o la famiglia più o meno tradizionale sia un cascame del passato o persino un disvalore.
Ci vuole equilibrio nei diritti degli uni e degli altri che io non discuto e proprio per questo penso che il rispetto delle posizioni debba sempre nei due sensi e dunque vicendevole, altrimenti non funziona.

Autostrade colabrodo

Ci sono località in Italia che vanno raggiunte necessariamente con la macchina. Così è per Perugia, incantevole capoluogo di Regione dell’Umbria, dove sono stato in diverse occasioni anche in vacanza e questa volta per un fruttuoso convegno su digitalizzazione e Intelligenza Artificiale.
Per lavoro ricordo ormai moltissimi anni fa - roba da essere lapidato da certi facinorosi - di esserci andato in aereo, quando c’era un volo da Milano. Ho sempre escluso di prendere il treno, che per un valdostano è un viaggio della speranza e la famosa elettrificazione della linea fino a Chivasso ormai imminente non cambierà i tempi di percorrenza. Mi duole il fatto che sia risultato impossibile bloccare questa scelta finita nel PNRR, che un tempo sarebbe stata sensata e venne auspicata anche da me quando mi occupai dei Trasporti. Ma oggi i treni ad idrogeno, già in esercizio altrove, sarebbero stati una soluzione migliore anche sotto il profilo ambientale in barba a chi milita in quell’area e ha operato per questa scelta ormai fuori tempo per semplice ticchio ideologico. Chiudo la parentesi.
Per andare laggiù, dicevo, ho scelto l’auto con un tempo presunto di circa 7 ore, calcolando pause necessarie. Ebbene, per l’ennesima volta, mi sono trovato di fronte ad una realtà ormai inoppugnabile: il collasso del sistema autostradale italiano, già ben visibile anche nella nostra piccola Valle d’Aosta. Non parlo solo, avendolo fatto in tutte le salse, dei pedaggi ormai stellari, legati a regimi concessionari che ingrassano le società monopolistiche che gestiscono questi gangli vitali per i trasporti. Mi riferisco anche agli aspetti infrastrutturali e cioè al fatto che, specie dopo lo scossoni del Ponte Morandi con quei morti che hanno illuminato la scena con le note omissioni nelle manutenzioni, ormai si sono moltiplicati i cantieri, creando caos infiniti dovunque. Che poi spesso i cantieri non vedano nessuno al lavoro, malgrado restringimenti e cambi di corsia, meriterebbe qualche approfondimento giudiziario, perché è evidente che non si possono cominciare lavori che poi languono con code che facilmente possono sfociare in tragedie della strada su cui si verserebbero le solite lacrime di coccodrillo.
La privatizzazione delle Autostrade, un tempo in grembo alle Partecipazioni statali, fu una scelta in linea con i tempi, ma il mancato funzionamento dei meccanismi e l’assenza di controlli sulla gestione ha generato mostri. Oltretutto non si capisce niente della Governance di gran parte delle autostrade dopo l’uscita del Gruppo Benetton e la sopravvenuta Cassa Depositi e Prestiti, una delle cassaforti dello Stato. Tutto, compresa la dirigenza che conta, è rimasta la stessa e la situazione dell’impazzimento dei cantieri tale e quale. Sfuggono strategie e - lo ribadisco - chi controlla punto per punto?
Ma la percorrenza autostradale quotidiana e in caso di viaggi in auto in giro per l’Italia conferma lo strabordare del traffico pesante. I TIR sono una costante dappertutto e segnano il fallimento a occhio nudo del trasporto merci su rotaia, oggetto di viva retorica negli anni non solo in Italia, come dimostra l’esempio svizzero e la presunzione elvetica di farli sparire. Investendo cifre colossali per provarci.
Ora - e ciò vale anche per il trasporto merci attraverso le Alpi - sarebbe il caso da una parte di accelerare i tunnel in costruzione e cioè Torino-Lione e Brennero, ma anche di capire se davvero n Italia si fa davvero per agevolarne l’uso futuro in termini di linee ferroviarie, logistica, intermodalità e tutto il resto. Altrimenti sarà una beffa analoga alla cessione a privati ingordi della rete autostradale ridotta nel tempo ad un colabrodo dai costi stellari per noi utenti.

“Qui Nuova York…”

Oggi scrivo per le generazioni più vecchie di un personaggio misconosciuto al di sotto di una certa età e lo faccio con gioia, avendo goduto della sua conoscenza e persino - potrei dire - della sua simpatia.
“Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando”. Indimenticabile - in una tv rigorosamente in bianco e nero - spuntava questo personaggio con la sua r moscia e la sua strana postura.
Classe 1907, nato a Verona ma originario del messinese, morì a Roma nel 1994. Orlando è stato uno dei volti storici della RAI in epoca di stretto monopolio e spiccava rispetto al grigiore dei mezzibusti. In privato grande raccontatore degli Stati Uniti, curiosissimo delle vicende del mondo, evocava la breve parentesi da deputato.
Su Nuova Armonia, giornale dei Senior Rai, Renato Annunziata dà conto di un dossier rinvenuto all’Archivio di Stato di Roma. Propongo alcune parti dell’articolo su Orlando: “Un promemoria del Minculpop ci rende chiara la sua condizione dal punto di vista economico e della sua attività di giornalista che, all'età di vent'anni, sembra essere intensa: nel 1936 si propone al direttore de La Stampa Alfredo Signoretti per essere assunto come inviato in Etiopia, ricevendone risposta negativa. Stessa cosa pochi mesi dopo, con i fatti di Spagna, dove Orlando chiede al ministro Alfieri di intercedere presso il direttore de Il Messaggero di Roma Pio Perrone per diventare corrispondente e raccontare i tragici avvenimenti della guerra civile: ma anche in questo caso, non ci sarà un seguito.
Ma in quelle stesse settimane diventa collaboratore dell'EIAR, dove viene inizialmente impiegato per sostituire i redattori in vacanza e per firmare brevi note e necrologi. Tale circostanza gli consente comunque di entrare in un mondo, quello del "giornalismo parlato", che avrebbe in seguito caratterizzato buona parte della sua esperienza professionale.
La vera occasione appare nell’autunno del 1938 quando EIAR deve individuare un corrispondente da inviare in Inghilterra per sostituire il collega Carlo Franzero. Orlando conosce i pezzi grossi della nomenclatura fascista, essendo iscritto al partito dall'11 aprile del 1921 e scrive nuovamente al capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare, il prefetto Celso Luciano
- grande amico del direttore Eiar Raoul Chiodelli - proponendosi e chiedendo di occupare quel posto.
E Chiodelli assume Orlando alla radio, provvedendo anche nel giro di qualche mese ad aumentargli il rimborso spese per la sua permanenza in Inghilterra, apprezzando il suo operato.
Il 30 ottobre 1938, il giornalista si trova a Londra, in una bellissima casa vittoriana in St George' Square, nella centralissima city ed inizia la sua collaborazione con la radio italiana”.
Anche lui ammette una fascinazione del Fascismo in un brano riportato;
“ “Da ragazzo mi trovavo a mio agio nelle organizzazioni fasciste, ma poi pian piano mi seccai maledettamente. Stavo sempre più a disagio in un ambiente in cui non sapevo, e non volevo, nuotare; poi cominciai ad essere arrestato e perseguitato, per i discorsi che facevo e soprattutto per la mia collaborazione con i corrispondenti dei giornali esteri”.
Il trasferimento nel 1938 a Londra, gli da modo, oltre che di collaborare con nuove prestigiose testate (tra cui Il Messaggero e la Gazzetta del Popolo), di maturare un diverso rapporto col fascismo, poi trasformatosi in un vero e proprio distacco.
Con l'entrata in guerra dell'Italia, i giornalisti cosi come i diplomatici ricevono l'ordine di rientrare, pena la sospensione del servizio e - per i giornalisti - la cancellazione dall'albo. Orlando si oppone al rientro in patria con gli altri colleghi e viene licenziato, oltre che radiato dall'albo gestito dal sindacato fascista.
Dopo essersi iscritto alla sezione londinese del Partito socialista italiano viene assoldato dal Political intelligence department, divenendo - con lo pseudonimo Gino Calzolari - uno dei principali redattori di Radio Londra, programma radiofonico in italiano curato dalla BBC nell'ambito dell'European Service. Nel 1941, con Umberto Calosso e i fratelli Paolo e Pietro Treves, è tra i fondatori del Free Italy movement, sodalizio sostenuto dai laburisti inglesi e finanziato dallo Special operations executive per contribuire alla liberazione dell'Italia dal fascismo.
Il resto è storia: nel 1944-1945 ha l'incarico di tenere i collegamenti tra le forze alleate e la resistenza. Primo corrispondente dal'estero dell'Avanti! (dal 1945), dal 1947 al 1954 ritorna ad essere corrispondente da Londra per la RAI, di cui si ricordano i primi interventi nella radio repubblicana”.
Poi il salto negli States come corrispondente Rai dall'America nel periodo compreso tra il 1954, anno di nascita della nostra televisione,
fino al 1972”.
Personalmente ricordo il primo allunaggio e il battibecco che ne scaturì. Avvenne fra i due conduttori Tito Stagno, grande giornalista, e lo stesso Ruggero Orlando nel momento in cui il Lem si posò sul Mare della Tranquillità. Era il 20 luglio 1969, Stagno urlò «Ha toccato il suolo lunare... sono le 22,17 precise» (ora di Roma). Orlando, che era nella sala stampa di Houston e forse aveva una percezione ambientale più esatta del collega, lo interruppe dicendo che il Lem era sì allunato, ma dieci secondi dopo l’annuncio di Stagno. Aveva ragione lui…
Osserva infine Annunziata: “Dal suo osservatorio privilegiato ha saputo rivelarsi attentissimo lettore e narratore della cultura oltreoceano, riuscendo ad avvicinare alcune tra le figure di maggiore spicco e fama della realtà americana di quegli anni (Henry Kissinger, Martin Luther King, Lyndon Johnson, Neil Armstrong, Marylin Monroe, Frank Sinatra) e a proporle ai telespettatori italiani con naturalezza e spigliatezza.
Anche per via di una dizione ben lontana dalla perfezione, unita a un incedere piuttosto singolare e alla particolare formula «Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando», con cui amava aprire i suoi collegamenti televisivi, diventa in breve tempo una vera e propria star dell'informazione televisiva, capace di raccontare l'America agli italiani con uno stile originale e personalissimo e di cui oggi tutti noi abbiamo certamente memoria”.
Per chi ha vissuto quegli anni un ricordo indelebile.

L’intervista per svelare

Mi è sempre piaciuto, nel mio lavoro di giornalista sin dagli esordi, intervistare le persone. Naturalmente il mio terreno privilegiato all’inizio è stata la radio, quando ero un ragazzino e poi la televisione.
Intendiamoci: la tecnica dell’intervista radiotv è la rapidità e la capacità di far sparire il proprio protagonismo per far emergere la personalità e i pensieri chi si incontra. Oggi mi accorgo che in troppi nei reportage dei telegiornali usano l’intervista non per questo, ma per pigrizia e cioè l’ospite fa risparmiare la fatica di ricostruire i fatti. Così com’è insopportabile l’intervista per partito preso, in cui il giornalista vuole dimostrare una tesi precostituita. Lo ha detto bene Andy Warhol: “Mi sono reso conto che quasi tutte le interviste sono preconfezionate. Sanno già quello che vogliono scrivere su di te e sanno già quello che pensano di te prima ancora di parlarti, così vanno in cerca di frasi e di particolari per confermare quello che hanno già deciso che dovrai dire”.
Ricordo che agli esordi mi ero dato una regola: interrompere il mio interlocutore appena mi accorgevo io stesso di annoiarmi e lui di essere ripetitivo o infruttuoso. Un equilibrio spesso difficile, perché interrompere è sempre brutto e non è facile seguire il discorso senza distrarsi e infilare una domanda successiva che crei un fil rouge che interessi chi segue lo svolgimento. Chi si prepara le domande e segue un copione intoccabile rischia di passare malamente di palo in frasca, perché bisogna saper improvvisare per rendere fluido il discorso.
E in TV, un buon giornalista deve far sparire i fogli in mano e si vede lontano un miglio chi usa autori e suggeritori. Per questo vanno distinti i conduttori eterodiretti con i giornalisti in grado di intervistare per proprie capacità e conoscenze.
Assisto con sgomento e dolore al declinare della vendita dei giornali cartacei. Ma i dati sono i dati e la morte delle edicole l’aspetto finale. Così come si evidenzia nei diversi media, compresi quelli digitali, la proletarizzazione del mestiere di giornalista. Epilogo triste rispetto ad anni in cui questo lavoro era considerato haut de gamme. Già ho detto del discrimine fra chi fa questo mestiere e certe starlette e presentatori che si limitano a fare i pappagalli di pensieri altrui.
Fra i quotidiani italiani sembra resistere un pochino di più il Corriere della Sera e chissà se è un caso, al di là della qualità elevata del prodotto, che sia al momento
l’unico giornale che ha puntato moltissimo sulle interviste a personalità varissime. Ogni giorno al mattino presto, quando scorro alcuni giornali e le rassegne stampa, confesso di divertirmi a leggere gli ospiti che spuntano sul giornale milanese.
È sempre occasione per scoprire nel batti e ribattiti fra domande e risposte la parte più profonda di chi viene intervistato. E anche - va detto - è modo per far emergere la capacità del giornalista di scavare dentro il personaggio e l’onestà di intenti nel farlo. Scrisse Gaetano Salvemini, storico, politico e giornalista: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.

Come giocolieri sul Web

Capisco quanto sia tristemente contraddittorio passare il tempo con i più giovani a dir loro che l’impiego delle strumentazioni digitali, dai motori di ricerca all’Intelligenza artificiale sino alla miriade variegata delle applicazioni, va fatto con misura e intelligenza. Specie se poi ci si trova noi stessi ad essere bombardati, vittime e carnefici, da mille sollecitazioni senza troppe regole e facendo saltare gli orari, assillati come siamo dalle messaggistiche le più varie.
Interessante leggere quel che scrive
François Desnoyers su Le Monde, che racconta come siamo ormai simili a dei giocolieri che si trovano a destreggiarsi fra diverse e spesso contemporanee sollecitazioni.
Ecco l’inizio dell’articolo: “C’est une gymnastique périlleuse, tant au niveau pratique qu’intellectuel. Lorsqu’elle est en télétravail, Claire, cadre dans le marketing digital, assiste parfois à deux réunions simultanément. « Je me connecte à la première depuis mon téléphone, à la seconde avec mon ordinateur, explique-t-elle. Je coupe ma caméra et mets le son en fond pour la visio qui me semble moins prioritaire, et je me concentre et interviens essentiellement sur l’autre. C’est complexe, assez fatigant, mais ça m’évite de rater une information qui pourrait ensuite me faire défaut. »
Dans le monde du travail, le don d’ubiquité développé par Claire porte un nom : le multitasking ou multitâche. Il désigne la propension de certains salariés à réaliser plusieurs tâches en même temps”.
Da un’esperienza soggettiva ma esemplare ad un approccio più scientifico: “Une étude de l’Observatoire de l’infobésité et de la collaboration numérique (OICN) souligne l’importance du phénomène : 21 % des réunions acceptées se chevaucheraient (36 % pour les seuls dirigeants). Autre illustration : les sondés enverraient 1,1 mail par heure de réunion en moyenne (1,7 pour les dirigeants).
Ces pratiques en développement apparaissent comme des révélateurs. Elles témoignent d’une intensification des échanges et des sollicitations en entreprise, portées en premier lieu par les transformations digitales et l’extension du télétravail”.
Vale ormai, sottolinea Desnoyer, per tutti i livelli: “Au quotidien, les collaborateurs sont régulièrement interrompus dans leurs missions par téléphone, mail ou chat et doivent « multitasker » en jonglant simultanément entre différents dossiers. « On assiste à un morcellement du travail, note Marc-Eric Bobillier Chaumon, professeur au Conservatoire national des arts et métiers. Cette fragmentation avait déjà été observée chez les cadres dans les années 1980. Désormais, elle peut toucher tous les salariés utilisant différentes technologies. Le phénomène s’est aussi intensifié : la durée moyenne des tâches était alors de quinze à vingt minutes en moyenne, elle n’est plus aujourd’hui que de quatre minutes trente. »
« Les salariés travaillent de manière dispersée et cela a un coût pour leur santé, poursuit-il. C’est une situation très exigeante cognitivement et très déstabilisante professionnellement. Ils ne contrôlent pas le flux des injonctions qui leur parvient mais le subissent. » ”.
Ma esistono certe difese, come mettere nei contratti di lavoro il diritto alla disconnessione e cioè al diritto dei dipendenti di disconnettersi dal lavoro e di non ricevere o rispondere a qualsiasi e-mail, chiamata, o messaggio al di fuori del normale orario di lavoro. Più difficile incidere su di un fenomeno incidente dentro l’orario di lavoro.
Il giornalista propone, però, qualche caso di scuola in positivo: “De rares entreprises y travaillent toutefois. C’est le cas de Dalkia, filiale d’EDF. Sa branche francilienne a lancé voici quatre ans une démarche pour réguler les flux de mails, tant en interne qu’avec la clientèle. « Nous avons mené une opération de sensibilisation, montrant que si nous pouvions “subir”, nous pouvions également “faire subir”, en envoyant beaucoup de courriels, parfois sans s’en rendre vraiment compte », explique Benoit Guiblin, directeur régional Ile-de-France. Prise de conscience et diffusion de bonnes pratiques (éviter les conversations par mail…) ont permis « de diminuer le volume global de courriels de 10 à 15 % selon les entités », indique-t-il.
Alan, spécialiste de l’assurance-santé, a pour sa part pris une décision radicale : bannir les réunions. « Les échanges se font uniquement à l’écrit et de manière asynchrone dans de petits forums de discussion ouverts pour quelques jours sur un sujet précis, explique son DRH Paul Sauveplane. Chacun apporte sa contribution au moment où il le souhaite. » Dans le même temps, les messageries instantanées sont soumises à des règles visant à « casser l’instantanéité. Chaque jour, une seule personne par service active ses notifications et devra être réactive face aux sollicitations ». L’objectif étant que tous les autres collaborateurs puissent bénéficier « de longues plages de concentration ».
Enfin, des initiatives visant à réduire les sollicitations sont parfois prises par les salariés eux-mêmes, de manière spontanée. C’est le cas de Kathia, formatrice dans le secteur de la vente : « Je bloque d’office chaque semaine des créneaux dans mon agenda partagé, afin de montrer que je ne suis pas disponible pour une réunion. » Une heure le mardi, une autre le jeudi et deux le vendredi durant lesquelles elle peut préciser sur les messageries qu’elle ne doit pas être dérangée. De quoi lui permettre de se concentrer, « couvrir enfin les objectifs de [son] poste sans avoir à basculer en mode “multitâche” ». Et, finalement, reprendre le contrôle de son rythme de travail”
Interessante, ma temo che sempre più bisognerà trovare modalità regolamentari per evitare stress e crescente difficoltà di concentrazione.

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