Trasporti attraverso le Alpi, vecchia storia

Vedo molti sapientoni in azione sul dossier traforo del Monte Bianco e degli altri valichi con la Francia. Sono contento che se ne parli e sono triste che siano in pochi a farlo con cognizione di causa e sono stizzito che alcuni lo facciano seguendo solo l’emotività per cavalcare il problema, pur mancando degli elementi fondamentali per poterne discutere seriamente. Ma speriamo di cavarcela, aspettando scenari sul breve e lungo periodo. Resta un sorriso mesto leggendo comunicato di chi si ascrive meriti che non hanno.!
Ma veniamo a cose serie. Quando ero deputato, precorrendo una discussione che ora si fa calda per le difficoltà emergenti dalla fragilità del sistema viario, sia sul nostro asse che verso il Brennero (con gli austriaci che contingentano i Tir, che così stazionano sull’Autobrennero in quelle lunghe code che occupano l’autostrada), avevo predisposto con i colleghi sudtirolesi una leggina semplice semplice, che riguarda una logica per evitare troppi camion nelle diverse direttrici presenti e future. Ciò avvenne alla luce del tragico rogo nel traforo del Bianco e dunque la proposta di regolamentazione venne presentata nel 1999 e mantiene una sua freschezza. Scrivevo nella relazione: “Ormai da molti anni si lamenta, in Italia, una cattiva distribuzione dei trasporti fra gomma e rotaia. Stenta, purtroppo, ad avviarsi il necessario riequilibrio fra queste due tipologie di trasporto in buona parte antagoniste e che, dati alla mano, vedono la strada palesemente in testa. Le conseguenze del fenomeno descritto sono visibili nel numero impressionante di mezzi pesanti (noti come TIR) lungo tutta la rete viabile e ciò si manifesta in particolare attraverso gli assi nord-sud di attraversamento delle Alpi. Sono ben note le "punte" che rendono ormai quasi ordinario il formarsi di ingorghi lungo le strade di accesso ai trafori stradali alpini e ad alcune frontiere e l'attuale rallentamento nell'avvio di nuove direttrici ferroviarie, sommato all'enorme aumento previsto nel traffico merci, pone il problema di una compatibilità fra protezione dell'ambiente e sicurezza stradale e il rischio di un moltiplicarsi selvaggio del traffico nel nome della libera circolazione delle merci. Un'esigenza, quella della mobilità delle merci in Europa, condivisibile, che va però armonizzata pur nella logica importante dell'integrazione europea con la tutela di zone "sensibili" e tutelate quali sono le Alpi. Il dramma del traforo del Monte Bianco del 24 marzo 1999, con il suo tragico bilancio di vittime, ha scosso l'opinione pubblica e riproposto il tema del trasporto in zona alpina anche per il livello di insostenibile saturazione che oggi si registra al traforo del Frejus. Si manifesta in questo caso una forte mobilitazione delle popolazioni locali contro il traffico pesante, cui non si può non dare risposta nel nome di elementari princìpi democratici. Da questa esigenza, che tiene in considerazione anche casi di incrementi impressionanti di traffico come avviene al Brennero, nasce la presente proposta di legge, che va considerata come un contributo al dibattito in corso, perfettibile e modificabile nel suo iter parlamentare. Si tratta del primo tentativo di trovare una soluzione legislativa all'esigenza di ridurre e, in prospettiva, di azzerare il trasporto delle merci su gomma su lunghe distanze, sapendo come questo sia un risultato da raggiungere nel tempo e con ragionevolezza in connessione con i necessari investimenti ferroviari”.
In quegli anni si riteneva che le direttrici ferroviarie, quella del Brennero e quella fra Torino e Lione, sarebbero state realizzate in fretta, mentre così non è stato, anche se la prima sta avanzando abbasta celermente, mentre la seconda – evocata come panacea che verrà – ha spostato la sua apertura a metà degli anni Trenta e dunque abbiamo molti anni di attesa di cui tenere conto. Tra l’altro e purtroppo il trasporto merci su treno è stato mitizzato, perché lo spostamento da Tir a rotaia non appare più così sicuro e automatico, persino nel rigido modello svizzero.
Questo è, invece, il testo della proposta di legge in un solo articolo:
“1. Per motivi di protezione ambientale, di sicurezza stradale, nonché difficoltà del traffico, il Governo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, d'intesa con le regioni e con le province autonome interessate, propone ai singoli Stati contraenti la modifica di ciascuna delle convenzioni alla base dell'esercizio dei trafori stradali alpini e predispone apposite misure, con le stesse modalità di cui al presente comma, alle frontiere di terra in zona alpina a traffico pesante intenso.
2.Nelle modifiche e nelle misure di cui al comma 1 deve essere prevista la predisposizione, per ciascun traforo o frontiera di terra, di un piano del traffico e dei transiti che contenga espliciti divieti per i mezzi o per le merci trasportate ritenuti pericolosi o inquinanti e deve essere altresì fissato, con il criterio di una progressiva riduzione del trasporto su gomma su lunghe distanze, sino al suo completo trasferimento su rotaia, un contingentamento giornaliero a scalare del numero dei mezzi pesanti nelle 24 ore, secondo le stagioni e nel rispetto di maggiori limitazioni già esistenti. Riduzioni ulteriori del numero massimo dei mezzi pesanti ovvero il blocco totale del traffico pesante possono essere decisi temporaneamente, con apposito atto amministrativo del presidente della giunta regionale o provinciale interessata, in caso di necessità ed urgenza.
3.Con decreti del Ministro dei trasporti e della navigazione, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, d'intesa con le regioni e con le province autonome interessate, sono previste misure analoghe a quelle di cui al comma 2 in territorio italiano lungo le direttrici stradali di accesso ai medesimi trafori o alle frontiere di terra anche a integrazione o modificazione delle concessioni”.
Certo il testo andrebbe aggiornato, ma credo che i ragionamento sottesi siano ancora tutti utili.

Aeroporti

Non c’è luogo fisico che sia così esemplificativo della modernità come avviene oggi con gli aeroporti, dove si incontrano ormai - in tempi di globalizzazione - persone diverse e popolazioni le più varie, ciascuna con il proprio bagaglio. Non solo le valigie che i viaggiatori si portano dietro, ma quel bagaglio culturale e di esperienze che ciascuno di noi rappresenta con tutto ciò che ci rende singolari.
Si può star lì a guardare come assistere ad una rappresentazione e lo si può fare, stando fermi in un punto qualunque ad osservare folle in movimento o in statica attesa dell’atteso decollo.
Può essere che in passato fossero i porti marittimi qualcosa di molto simile. Ogni volta che mi capita l’occasione cito la mia viva impressione per Ellis Island: un isolotto di appena un quarto di chilometro quadrato, situato nella baia di New York. Dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, in questa macchina di accoglienza e si respingimenti passarono 12 milioni di persone.
Essere spinti dalla curiosità in certi casi non è affatto un male e lo spirito di osservazione è un elemento arricchente per chiunque. Il viaggio, corto o lungo che sia fa parte della natura umana. Viaggio viene viene dall'occitano "viatge" che deriva a sua volta da "viatĭcu(m), l'occorrente per il viaggio", legato all'aggettivo "viatĭcus, relativo alla via, al viaggio" da cui arriva anche la parola "viatico" collegato a via "strada; cammino".
Sugli aeroporti ha ragione Bill Gates: ”I fratelli Wright hanno creato la più grande forza culturale dopo l’invenzione della scrittura. L’aereo è diventato il primo World Wide Web, che avvicina persone, linguaggi, idee e valori”.
Dopo il gelo della pandemia, tutto è ripartito e sono felice di far parte di un’epoca in cui muoversi è diventato più agevole. Sarà pur vero che sembra passato quel periodo nel quale nel mondo ci sia poteva muovere di più, perché oggi molte mete sono diventate purtroppo off-limits. Prima di partire per certi Paesi sono sempre andato a vedere quel Sito della Farnesina con cui i attraverso la rete diplomatica il Ministero degli Affari esteri (ma sono interessanti anche per accuratezza i consigli del servizio simile francese e di quello svizzero) indicano Paesi o zone di Paesi da evitare per pericoli vari.
Sono reduce da un tour che mi ha consentito di vedere diversi aeroporti e devo dire che, specie nei grandi hub, ormai il gigantismo è di casa.
Non solo si dilatano a dismisura, ma cresce in modo impressionante lo spazio commerciale da outlet e le lunghezze di percorrenza per arrivare alle “uscite” obbligano ad autentiche maratone.
Per me gli aeroporti di riferimento sono sempre stati e lo sono ancora in parte Torino Caselle, Fiumicino, Malpensa e anche Ginevra. Ho visto aeroporti monstre come Parigi, Zurigo, Monaco di Baviera, Londra, Amsterdam. Di recente sono passato a San Francisco, Denver e Newark (ero già stato a JFK di New York). Ma ho avuto la fortuna di vedere aeroporti piccoli sia nelle isole che nelle zone di montagna. Massimo dei brividi l’atterraggio nell’aeroporto delle isole Fær Øer.
Resto convinto che per il nostro aeroporto Corrado Gex di Saint-Christophe ci siano spazi di sviluppo interessanti per nicchie di mercato. Sapendo che la forza di un piccolo scalo sta nella multidisciplinarietà nel suo utilizzo e dunque i voli commerciali si aggiungono alle altre attività.

Sui transiti alpini il silenzio europeo

La tempesta perfetta si abbatte sui trafori alpini e sulle altre vie di comunicazione fra Italia e Francia. Per il Caso che spesso imperversa, a complicare questioni già intricate da sole, si blocca il Fréjus per le conseguenze del maltempo lato francese e si preannuncia la già nota chiusura di tre mesi del Monte Bianco per lavori indispensabili e dunque non frutto di chissà quale capriccio. Ma, aspettando che questo avvenga con le giuste preoccupazioni del caso che ci sia o non un rinvio della chiusura poco conta, il blocco del tunnel piemontese ha creato problemi di circolazione seri sulla rete autostradale del Nord Ovest. Era necessario regolare i flussi di camion e la conseguenza sono state intasamenti e code che hanno creato problemi seri. Questo ha comportato, per essere concreti, la deviazione del trasporto pesante anche su Ventimiglia - terzo valico con la Francia - che già ha i suoi problemi di intasamento nell’ordinarietà.
Protagonisti, come sempre, sono proprio i TIR che restano i player indiscussi della rete del trasporto merci in Italia e in Europa. Non raccontiamoci storie sul trasporto merci su rotaia, specie nella nostra area alpina, sapendo i ritardi che spostano a metà degli anni Trenta (forse ancora più in là) l’apertura della nuova ferrovia fra Torino e Lione.
Non tornerò sulle polemiche sul raddoppio del Monte Bianco e sulle altre possibilità costruttive lungo lo stesso asse. È ovvio che per ora mancano accordi con i francesi e si viaggia sul “si dice” e non ripeterò la solita solfa, perché mi pare che non serva a niente, se non a creare inutili polemiche o speciose contrapposizioni. Quel che conta è che se ne discuta e si decida,sapendo anche quali siano nella partita gli interessi - comprese le contropartite - da salvaguardare per noi valdostani.
Quel che manca è il dialogo Italia-Francia che deve avvenire ai vertici delle rispettive istituzioni nazionali per fare poi ratificare le scelte dai Parlamenti rispettivi. Questo non vuol dire che le popolazioni locali siano carta da parati e le Regioni e Comuni interessati carne da cannone. Lo scrivo perché se la vicenda TAV ha preso la piega protestataria con infiltrazioni estremistiche è perché si sono volute calare le decisioni dall’alto.
Ma chi manca nelle vicende di questi mesi, perché i problemi che oggi emergono erano ben prevedibili, è l’Unione europea, cui spetterebbe la strategia sugli assi europei e dunque il compito di riunire tutti per avere prospettive certe e scelte pianificate per uscire dai bla bla, compresi i miei.
Partendo dal presupposto che le scelte da fare sono complesse e non banalizzabili. I ritardi accumulati nelle decisioni non consentono l’uso della bacchetta magica.

Spunti dagli States

Racconterò nel tempo a spizzichi e a bocconi del mio viaggio nel Sud Ovest degli Stati Uniti con puntata successiva alle Havaii, che termina in queste ore. Non ne ho scritto in corso d’opera, perché ritengo di non avere le capacità di analisi e le conoscenze per essere all’altezza di chi in passato ha scritto cronache di viaggio di grande spessore su questo Paese così vario e complesso. Penso, quindi, che sia più logico da parte mia e forse interessante per chi mi legge legare alcuni pensieri a spunti provenienti dalla cronaca.
Con una sottolineatura valida per tutto quello che ho visto e cioè di come la personalità di generazioni come la mia siano state in Italia e in Europa fortemente influenzate dalla cultura, dalle tendenze, dalla tecnologia e da mille altre cose proveniente dagli States ed è un elemento forse scontato che emerge con maggior chiarezza nell’incontro con le persone e nella visita dei luoghi.
Pensavo alla Fede e cioè a questa necessità di religione, così in abbandono da noi e che invece nel crogiolo americano tiene. Penso ai discorsi drammatici in certi casi dei Presidenti americani con quel “Dio salvi l’America”, impensabile nelle democrazie europee.
Penso a Page, piccolo paese dell’Arizona, vicino a diversi canyon e dunque luogo di soggiorno per turisti, a suo tempo valorizzato come sede per i lavoratori durante la costruzione della grande diga sul fiume Colorado.
Lungo la via principale ci sono in fila ben dodici chiese, tutte cristiane, ma di diverse confessioni, con una percentuale da capogiro, pensando ai soli 7000 abitanti del paese. Ricordo che il 70% della popolazione statunitense è cristiana. Gli evangelici sono il primo gruppo religioso (25%) in un paese in cui i protestanti sono più dei cattolici (rispettivamente 46,6% e 20,8%, compreso l’1,6% dei mormoni). Gli ebrei sono appena l’1,9% della popolazione; ciascuna delle altre fedi non cristiane è professata da meno dell’1% della popolazione – nel caso dell’islam, lo 0,9%. La più famosa delle fedi riconosciute - ovviamente beffarda - è il pastafarianesimo ed è nata in Kansas per protestare contro l'insegnamento del creazionismo nelle scuole. I suoi adepti sostengono che il mondo sia stato creato dal Flying Spaghetti Monster, una divinità somigliante a un piatto di spaghetti con le polpette.
Lo spunto di cronaca, che dunque non stupisce, lo esamina sul Foglio
Matteo Matzuzzi, raccontando di “Text with Jesus”, app dell’azienda Catloaf che consente di chattare con alcuni personaggi della Bibbia, fra cui Gesù in testa, attraverso l’uso dell’Intelligenza artificiale. Così il giornalista descrive le intenzione della ditta che ha inventato l’aggeggio: ”Certo, Catloaf spiega che il tutto va preso con le molle: “L’applicazione, alimentata dall’intelligenza artificiale, non pretende di fornire reali intuizioni divine o di possedere una qualche forma di coscienza divina, ma si limita a utilizzare il suo modello linguistico per generare risposte basate su un ampio corpus di testi biblici e religiosi”. Lo scopo, insomma, è di “stimolare la riflessione, approfondire la comprensione dei testi religiosi e incoraggiare conversazioni significative sulla fede”. Cristo dunque non come vocina della coscienza o “sesto senso” che dice cosa fare e cosa no, ma a guardare le domande postegli da chi – per ora solo negli Stati Uniti – l’app l’ha scaricata, il tutto ha un sapore vagamente trash.
Lui si presenta gaudioso: “Ciao! Sono Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Come posso aiutarti oggi?”. Un po’ responsabile di un circolo (di anziani, di lettori, di alcolisti anonimi, fate voi), un po’ psicologo di fiducia, un po’ emulo di Siri, la vocina che sull’iphone ci toglie dubbi e risolve enigmi da discussione in famiglia. E se qualcuno risponde “non puoi essere tu”, Lui invita a crederci, invece: “Sono qui per offrire conforto, consiglio e risposte alle tue domande. E se hai bisogno di qualcosa, sarò felice di aiutarti”. “.
Ma non è solo, come precisa l’articolo: ”C’è Gesù, ma ci sono anche Maria e Giuseppe e pure gli apostoli e altre figure della Bibbia. “Sono in ansia per un colloquio di lavoro che devo sostenere oggi”, gli scrive uno. Gesù risponde citando san Paolo, creando un cortocircuito che se accaduto nei concili dei primi secoli avrebbe prodotto scismi, roghi e lasciato morti sul campo”.
Ma si aggiunge un elemento inquietante: “Business Insider bada alla ragione del suo essere e scrive sinteticamente: “Con 2,99 dollari al mese potete sbloccare Satana”. Sì, perché con Gesù Giuseppe e Maria si può chattare gratis (ma si fermano a otto risposte al giorno), dopo è necessario sottoscrivere la versione Premium. Come Amazon, insomma: se vuoi la consegna in un giorno, serve Prime”.
Cosa diavolo chiedere ad un diavolo c’è davvero da chiederselo, anche se - pure negli USA - il satanismo o sette di matti vanno forte.
Me lo ha ricordato - nel tour in auto delle zone VIP di Los Angeles, che ho regolarmente fatto con la guida americana metà polacco e metà messicano - quell’indirizzo a Cielo Drive di una villa situata presso il Benedict Canyon, sulle colline di Beverly Crest, nella contea di Los Angeles, California. Lì nel 1969 la "Famiglia" di Charles Manson - un pazzo visionario, che sfuggi per un pelo alla sedia elettrica - uccise l’attrice Sharon Tate,moglie del regista franco-polacco Roman Polański assieme ad altre quattro persone. Un episodio del passato che mostra uno dei volti violenti degli States.

Lotta agli stupratori

Leggo degli stupratori di Palermo e poi, nelle ore successive come spesso avviene nella cronaca nera, di un incatenamento di episodi simili, persino - trattengo il fiato nello scriverlo - peggiori.
Sociologi, psicologi, politici, editorialisti vari si sono detti giustamente preoccupati da questa violenza insensata e - ascoltando le conversazioni intercettate della banda di violentatori - stordisce l’ignoranza e la pusillanimità dei protagonisti del tutto consapevoli così come emerge, con buona pace degli avvocati difensori.
Leggevo in queste ore su Le Monde di un processo che si sta svolgendo in Corsica contro tre ragazzi tifosi della squadra locale, che aveva una partita importante contro il Marsiglia. Poco prima del match, questi giovani corsi avevano visto una persona con la maglia della squadra francese e questi come gesto di scherno aveva fatto loro il dito medio. Come vendetta insensata, avevano deciso di aggredire la sua famiglia in modo orrendo. Così scrive Le Monde: “Avant le coup d’envoi de l’ultime journée de Ligue 1, ils avaient pénétré dans une loge où se trouvaient Kenzo, 8 ans, souffrant d’un cancer au cerveau, et son jeune frère. Assenant deux coups de poing au visage du père, Laurent Canlay, tandis que Kenzo était violenté”.
Aggiungendo un passaggio dell’accusa: “ «Ce dossier avait connu un fort retentissement médiatique, il a ému la France entière parce que cela touchait un enfant malade», a rappelé le représentant du ministère public, soulevant que cela «mettait également en lumière la violence dans les stades, qui ne doivent pas devenir des zones de non-droit»”
La violenza sulle donne, la violenza negli stadi, la violenza nelle strade e pure nelle scuole. Possiamo stilare classifiche del peggio con tragica facilità. Sicuramente persiste in particolare un mondo maschile gravemente incapace di capire che cosa sia il rispetto per il mondo femminile e questo avviene in generazioni di giovanissimi che dovrebbero avere tutti gli strumenti per evitare la barbarie.
Leggevo quanto ha scritto il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, in una lettera inviata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: ”Come un secolo fa non c'era bisogno dell'educazione motoria perché la si faceva vivendo, prima che la società diventasse sedentaria, oggi la scuola è chiamata nei fatti ad occuparsi della dimensione psicologica dei ragazzi, perché i giovani portano tutta la loro realtà nel contesto scolastico. Credo che sia venuto il momento di rendere sistematica e strutturale l'educazione alla psiche nelle scuole, di aiutare studenti e docenti nella promozione delle risorse psicologiche, delle competenze per la vita”.
È una dichiarazione non contestabile di fronte a certe vicende che dimostrano l’esistenza di sacche di disagio mentale e di un degrado imbevuto di violenza. Per altro il periodo pandemico ha confermato come lo psicologo nelle scuola possa avere un ruolo importante.
Ma vorrei aggiungere un pensiero. Mi permetto di dire, essendomi occupato in questi ultimi anni della scuola, di un’impressione sgradevole che ha tutto un suo fondamento. Lo si vedeva dalle numerosissime richieste di tutti i generi che giungevano in Regione (la Sovrintendenza agli Studi in Valle d’Aosta è organo regionale) per poter intervenire nelle scuole per i più vari aspetti formativi ed educativi. Fare filtro non è facile e nel caso valdostano è persino nato, accanto a molte iniziative assunte nel quadro dell’autonomia scolastica, un vero e proprio catalogo riassuntivo di quanto può essere proposto a beneficio degli studenti.
Giusto, ci mancherebbe altro, ma - almeno in molti casi - questa scelta di scaricare tutto sulla scuola sembra delegittimare il ruolo capitale della famiglia, immaginando un permanente potere sostitutivo della scuola, che diventa contenitore di tutto, quando ha nell’apprendimento il suo ruolo centrale.
Ci si rende conto che il rischio è quello di creare degli alibi per molti genitori incapaci e talora persino lassi. quando i figli cadono in situazioni illegali? Esiste una responsabilità genitoriale!
Capisco che sono temi non semplici, così come bisogna - senza fare gli sceriffi- considerare come la prevenzione sia essenziale, ma non ci dev’essere paura pure degli aspetti penali opportunamente repressivi. La comprensione e la riabilitazione restano elementi cardine della giustizia, ma quando si vedono certe storie di giovani delinquenti ci si chiede come mai non siano stati fermati prima. E poi, non a caso, arrivano conseguenze già scritte da tempo.

Sempre più pantere grigie

Guardare al futuro è doveroso, anche se può apparire un peso, specie quando ci si trovi a soffermarsi sulle preoccupazioni. Eppure questo esercizio indispensabile va coltivato.
Ha scritto Karl Popper: “Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.
Ci pensavo leggendo l’incipit di un articolo su Le Monde scritto da “Luc Broussy esponsable du cercle de réflexion Matières grises et copilote du Conseil national de la refondation consacré au bien-vieillir”.
Ah! La vecchiaia! Prospettiva ineluttabile, quando ci si arriva vivi e problema sociale che mi pare ancora non sufficientemente affrontato in prospettiva.
Dicevo dell’inizio dell’articolo in un parallelo interessante:”« Notre maison brûle et nous regardons ailleurs », s’exclamait Jacques Chirac au Sommet de la Terre à Johannesburg, en 2002. Vingt ans plus tard, il serait tout aussi légitime d’ajouter : « Notre maison vieillit et nous regardons ailleurs », tant la certitude du réchauffement climatique n’a d’égale que l’inéluctabilité du vieillissement de la population”.
Non vi tedierò sulle previsioni di vario genere sulla situazione valdostana, che già registra uno squilibrio fra morti e nati che evidenzia una feroce crisi demografica. I numeri sono ancora più cupi per le conseguenze di una comunità con una componente crescente di anziani da accudire più invecchiano e con problemi di copertura non solo dell’erogazione dei pensioni, ma di lavori indispensabili che saranno sempre più difficili coprire . Bisogna essere pronti.
Così semplifica in termini generali Broussy: “S’il est impossible de prévoir le niveau des taux d’intérêt à six mois ou la météo à huit jours, on connaît en revanche à la virgule près le nombre de personnes qui seront âgées de 85 ans et plus en 2050. Et pour cause : les baby-boomeurs nés entre 1945 et 1965 sont potentiellement les nonagénaires des années 2035-2055”.
Spero di far parte della partita, a condizione di stare bene e non essere un peso per nessuno, segnalando che la crescita riguarderà anche chi, in quei medesimi anni, avrà fra i 75 e gli 84 anni.
Su questo punto la prima sottolineatura è importante: ”La première consiste à permettre aux « 75-84 ans » de conserver le plus longtemps possible leur autonomie en bénéficiant d’un logement adapté, en sauvegardant des liens sociaux,,en évoluant dans un environnement urbain bienveillant (transports et mobilier urbain adaptés, voirie sécurisée, accès aux commerces, aux résidences seniors ou à un habitat inclusif…).
Figurarsi quindi che cosa bisognerà fare in paesi di montagna, dove già oggi lo spopolamento picchia duro.
Seconda considerazione: ”La seconde nécessite d’anticiper à l’horizon 2030 les solutions permettant de faire face aux défis de la dépendance : création d’établissements et de services, embauche de personnels supplémentaires, meilleure solvabilisation des bénéficiaires et des aidants…”.
Già oggi in Valle d’Aosta abbiamo carenze di medici, infermieri e soprattutto di OSS, che sta per operatore socio sanitario.
Vengo all’ultima citazione utile dall’articolo: ”Ajoutons un constat sociologique à ce constat démographique : les personnes qui auront 85 ans en 2030 avaient 23 ans en mai 1968. Autant dire que cette nouvelle génération de seniors ne s’en laissera pas conter. Elle voudra maîtriser son vieillissement et refusera qu’on lui impose des solutions standardisées”.
Insomma: saremo - per chi ci arriverà come boomer di lunga durata - vecchietti esigenti e rivendicativi.
Meglio pensarci ora per domani.

Meloni sfugge ai giornalisti

È sempre stato interessante per me avere due cappelli. Quello del giornalista, visto che l’ho sempre considerata una passione sfociata in quello è sempre stato il mio lavoro, che ho cominciato a fare nel 1978, assunto come praticante alla Rai nel 1980 e poi diventato professionista e lo sono da più di 40 anni. E l’altro cappello è quello di politico e in questo caso gli anni, compresi quelli non elettivi, sono 35.
Per cui ho sempre trovato naturale in quest’ultima attività avere un rapporto con i miei colleghi giornalisti della massima trasparenza e non mi sono mai sottratto alle loro richieste di qualunque genere. Così come - lo state verificando anche ora - ho continuato a scrivere quel che penso su argomenti disparati ed è uno spazio di mia libertà di pensiero, che talvolta mi è valso qualche rimprovero di chi dice "ma dovevi proprio scrivere di quella cosa?”. Dovevo farlo.
Mi incuriosisce molto il fatto che sempre più esponenti politici sfuggono a domande e richieste dei giornalisti, usando direttamente i Social ed evitando le intermediazioni a discapito dei rapporti usuali con la stampa.
Ne scrive Andrea Garibaldi sul sito Professione Reporter di cui é Direttore, dopo una lunga e prestigiosa carriera, con la (il) Premier Meloni nel mirino.
Dice Garibaldi: ”Giorgia Meloni è Presidente del Consiglio in Italia da dieci mesi, e ormai si può dire: c’è un suo stile nei rapporti con l’informazione. Stile che tende al rapporto diretto con gli elettori e al ridimensionamento dei giornalisti.
Un problema, prima di tutto, per i giornalisti stessi, che dovrebbero approntare contromisure.
Meloni non inventa nulla, mette in atto ciò che si chiama “disintermediazione”, la fine del ruolo di mediazione dei giornalisti fra politici e pubblico (nell’interesse del pubblico). Avviato e facilitato dall’avvento dei social. Ma Meloni, più dei suoi predecessori, affonda i colpi”.
La diagnosi è impietosa: ”L’idea di fondo sembra essere quella di guidare l’informazione sull’opera di governo, scegliere, stabilire. Tempi e luoghi. Non un confronto serrato e paritario fra “quarto e quinto potere” -stampa e tv- e governanti, bensì una tendenza continua al controllo di questi ultimi su quelli”.
Racconta a questo proposito una modalità recente che mi era oscura, pur avendo letto le interviste. Spiega Garibaldi: ”L’ultimo episodio vede però ancora i giornalisti sulla scena. Dopo molte insistenze dei giornalisti, Palazzo Chigi cede a un format “tradizionale”. E’ il 14 agosto quando Corriere della Sera, Repubblica e Stampa pubblicano in contemporanea un’intervista a Meloni che è composta dalle stesse domande e dalle stesse risposte, riformulate nell’ordine e nello stile di ciascun intervistatore. Meloni è a Ceglie Messapica, in Puglia, in un resort che ha scelto per le sue prime vacanze da presidente del Consiglio. I tre principali quotidiani italiani hanno spedito loro inviati sul luogo, come si fa da molti anni (genere: “le vacanze del Premier”). Meloni è blindatissima. Dalle pareti del resort non escono notizie. Arriva però l’ok per l’intervista collettiva. I tre inviati (Monica Guerzoni, Emanuele Lauria e Francesco Olivo) non sono ricevuti “a palazzo”, ma si collegano via telefono, per oltre mezz’ora, con le domande concordate fra loro. Una modalità che rispetto all’incontro di persona tiene fuori ambientazione, umori, mimica, toni. Ma è pur sempre una fonte di informazioni di prima mano. E Meloni non chiede di rileggere, come ormai fanno anche politici di terza fila”.
Segue poi un’accurata ricostruzione di questa scelta meloniana dagli esordi del suo Governo sino ad oggi:
“E’ dal 4 dicembre 2022, poco più di un mese dopo la successione a Mario Draghi, che si vede il sentimento di Meloni -e dei suoi spin doctors- nei confronti dell’informazione. Su Facebook appaiono “Gli appunti di Giorgia”, conversazione -a senso unico- con gli utenti sugli atti di governo. Il 31 gennaio 2023, dopo cento giorni a Palazzo Chigi, viene prodotto e diffuso (31 gennaio 2023) sui social un video di 7 minuti intitolato “Cento azioni in cento giorni”, in cui Meloni illustra, senza contraddittorio, le sue prime realizzazioni.
Il 9 di marzo a Cutro, dove sono morti annegati 100 migranti, Meloni affronta i giornalisti per la prima volta con il suo nuovo portavoce Mario Sechi. Succede un fatto curioso. Irritata dalla domanda di un cronista, Meloni chiede: “Qualcuno pensa davvero che il governo o le istituzioni italiane non hanno fatto qualcosa che avrebbero potuto fare?”. Cioè: fa una domanda, anziché dare risposte”.
Ma non basta: “Il 1° maggio arriva il piano sequenza girato a Palazzo Chigi, con Meloni che spiega il taglio ai costi del lavoro e alla fine entra nella sala del governo riunito. Tre minuti e 34 secondi, pronto ed efficace per tv e siti.
Il 7 giugno a Tunisi Meloni vede il presidente Saied, proprio per affrontare il tema migrazioni. Alla fine parla per nove minuti e dodici secondi davanti a un microfono e a un leggìo, alcuni fogli di carta, perfino un flash, fra due portoni di legno e con due vasi di fiori in un corridoio sullo sfondo. Sembra che si rivolga agli spettatori, ma non è così, è una finta conferenza stampa, la sala è vuota, i giornalisti non ci sono. L’appuntamento con i rappresentanti dell’informazione in ambasciata è stato annullato “per il prolungarsi degli incontri con le istituzioni tunisine”. I nove minuti e dodici secondi di monologo finiscono su tutti i canali social di Meloni.
Il 16 luglio Meloni presenta a Termini (con il ministro Sangiuliano) il treno Roma-Pompei. Cinquanta giornalisti -italiani e stranieri- vengono chiusi in un vagone, non possono fare domande, fotografare, filmare. Compresi quelli televisivi, che riceveranno le immagini da Palazzo Chigi. Lo stesso giorno Meloni rivola a Tunisi con Von Der Leyen, Presidente della Commissione europea, e il Premier olandese Rutte, per firmare il memorandum Ue-Tunisia sui migranti. Per i giornalisti, nessuna possibilità di fare domande.
Il 19 luglio Meloni è a Palermo, per ricordare Borsellino. Non partecipa alla fiaccolata, ma depone una corona all’interno della caserma Lungaro, ufficio scorte. I giornalisti vengono invitati ad accreditarsi, poi ricevono un messaggio: la stampa non è ammessa alla cerimonia. E’ la prima volta, nella storia della ricorrenza”.
Garibaldi poi, in modo analitico, si occupa della seconda modalità comunicativa, che le consente di sfuggire alle domanda/risposta con i giornalisti, che definisce la “politica epistolare” e cioè le lettere inviate e poi pubblicate sui giornali, evitando il confronto che immagino sia considerato scomodo.
L’apoteosi del monologo soliloquio la su raggiunge quando: ”Il 9 agosto, gli “Appunti di Giorgia” vanno in onda per 27 minuti su Rainews24, senza interventi della redazione. Per questo il Comitato di redazione di Rainews24 protesta. Meloni parla delle scelte del governo su reddito di cittadinanza, tassa sugli extraprofitti delle banche, giustizia, salario minimo. “Una scelta inopportuna -scrive il Comitato di redazione di Rainews24- in quanto sminuisce il ruolo di verifica e di mediazione che deve svolgere una redazione giornalistica”. Lo stesso Sindacato aveva protestato a febbraio per la stessa ragione…
Insomma: strano modo di agire, sintomo in fondo della preoccupazione del faccia a faccia con i giornalisti, che è invece segno di buona salute di una democrazia.

Cremlino insanguinato

Chissà se l’ennesimo assassinio in Russia servirà come lezione agli ammiratori di Putin sinceri o prezzolati che ci sono in Italia e consentirà loro di liberarsi da certi fardelli e di dire una volta per tutte che siamo di fronte ad un dittatore e ad una dittatura.
Certo l’ultimo ucciso, Evgenij Prigožin, era indubbiamente una carogna, fondatore di quella milizia, la Wagner, che ne ha fatte di cotte e di crude, ma siamo di fronte ad un metodo e non ad un’eccezione.
Putin ha una bella carriera da killer. Lo ha ben ricordato l’agenzia AGI: ”La scia di morti di figure scomode o critiche del Cremlino inizia poco prima della salita al potere di Putin: nel 1998, subito dopo la sua nomina a capo dei servizi di sicurezza (Fsb), Galina Starovoitova, una parlamentare democratica, viene uccisa a colpi di arma da fuoco nella tromba delle scale del suo condominio a San Pietroburgo. Nel 2006, ad Anna Politkovskaya, la giornalista che aveva denunciato gli abusi dell'esercito russo nelle guerre in Cecenia, spetta la stessa sorte sul pianerottolo di casa sua a Mosca. Nel 2009, muore assassinata l'attivista della Ong Memorial, Natalia Estemirova, che si occupava di diritti umani in Caucaso. Stessa fine, lo stesso anno, anche per altre due voci scomode: l'avvocato Stanislav Markelov e la giornalista Anastasia Baburova di Novaya Gazeta.Nel 2015, Boris Nemtsov, ex vicepremier di Eltsin diventato critico della presidenza di Putin viene ucciso a pochi passi dal Cremlino mentre passeggia dopo cena con una donna”.
Si aggiunge poi molto altro: “Altri critici di Putin sono sopravvissuti per miracolo: nel 2020, l'oppositore Aleksei Navalny viene avvelenato su un volo da Tomsk a Mosca, mentre due tentativi di avvelenamento erano già toccati al giornalista e oppositore Vladimir Kara-Murza. In tutti questi casi, si tratta di oppositori espliciti di Putin, persone che denunciavano la cleptocrazia da lui stesso costruita.
Da quando è iniziata la guerra, anche tra i ranghi dell’élite imprenditoriale russa si sono verificate morti improvvise o sospette: due dirigenti dell'industria del gas sono stati trovati morti con biglietti di suicidio; tre magnati russi sono stati uccisi, insieme alle loro mogli e figli, in quelli che sembravano omicidi-suicidi. Altri sono caduti dalle finestre o dalle scale a Mosca o all'estero”. Chissà nel sommerso di un enorme Paese quante vittime e perseguitati senza nome di saranno!
La guerra all’Ucraina mostra in maniera chiara l’attuale paranoia di Putin: ricostruire in qualche modo l’Unione Sovietica con evidente nostalgia per quel comunismo dove è nato è cresciuto.
Ho assistito nella mia vita al difficile percorso dei comunisti italiani nell’aprire gli occhi - per chi lo ha fatto davvero - sul fallimento del comunismo in Russia e nei Paesi satelliti e questo è valso in tutti gli altri Paesi del mondo dove ideali teoricamente nobili si sono trasformati in regimi autocratici liberticidi e violenti. E per favore non si citi la logica, usata da alcuni anche per Putin, di elezioni che legittimano di fatto i dittatori, trattandosi di argomento poco spendibile.e non facciamo il solito benaltrismo antiamericano a giustificazione, che è un metodo ormai ridicolo.
Sui regimi “comunisti” basti pensare ai rimasugli ideologici di Paesi come Cina, Cuba,, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Nicaragua e l’elenco probabilmente è incompleto. Basta riferirsi a Paesi africani che pendono dalle labbra di Russia o Cina nei drammi delle loro classi politiche che si vendono in barba alle lotte legittime del passato per liberarsi dal colonialismo.
Che Putin piaccia ancora e non solo a fantasmi italiani del comunismo che fu, ma anche ad esponenti politici della destra persino neofascista, è la cartina di tornasole che finisce per mettere assieme ogni logica totalitaria. L’assassinio degli avversari politici, buoni o cattivi che si potessero giudicare, diventa una cartina di tornasole di mancanza di democrazia.
E che il popolo russo rimanga sotto questo giogo addolora e stupisce, purtroppo si sa che le macchine della tirannide sanno funzionare molto bene nello spegnere le coscienze, ma proprio la celebre caduta del muro di Berlino, con il suo effetto a scacchiera, dimostra che qualche speranza di liberazione esiste sempre.

Sbarchi a raffica

Un fatto certo è che sulla questione migrazioni è stata messa la sordina, anche se il fenomeno ha assunto proporzioni impressionanti.
Questo è l’incipit di un articolo di Alessandra Ziniti su Repubblica di poche ore fa:”Centomila sbarcati sulla rotta più pericolosa del Mediterraneo a fronte di appena 1.042 arrivati attraverso i cosiddetti canali di accesso legali. Trentacinquemila richieste di asilo negate e solo 2.561 rimpatri”.
Insomma: non hanno funzionato gli accordi con la Tunisia, l’Europa non riesce a trovare l’unanimità per le regole di distribuzione dei migranti, le famose ONG fanno avanti indietro per i salvataggi assieme alle navi militari schierate, i trafficanti guadagnano soldi a palate e raramente vengono condannati per questa sorta di tratta degli schiavi.
Più avanti la stessa editorialista annota: ”Certo, nei prossimi tre anni, il decreto flussi dovrebbe aprire le porte del Paese a 450.000 lavoratori stranieri ma, in assenza di una riforma della legge Bossi-Fini, tutti sanno che si tratterà per lo più di persone già presenti sul territorio e che assai difficilmente domanda e offerta di lavoro si incontrano a distanza”.
Per aggiungere: “Sarebbe decisamente meno populista ma più intelligente destinare intelligenza, programmazione e risorse alla gestione di questi 100.000 arrivati che potrebbero essere oro per l’industria, l’agricoltura, il terziario locale. Se solo fossero trattati come persone umane, innanzitutto, e poi come un enorme potenziale da integrare e formare”.
Non mi sembra una proposta facile da attuare.
Claudio Cerasa sul Foglio spiega bene la contraddizione politica in atto: ”Alcuni sindaci del Pd, lo avrete visto, nelle ultime settimane hanno scelto di esporsi, sul tema, e di criticare con una certa forza l’inazione del governo sull’immigrazione. Tesi: con questi numeri noi non ce la facciamo più. In questo caso, lo specchio del populismo professato nel passato è evidente: con quale credibilità un partito che ha sostenuto l’idea che l’immigrazione non debba essere troppo controllata può lamentarsi del fatto che l’immigrazione oggi non sia troppo controllata? Ovviamente nessuna. Il secondo specchio del populismo, più spassoso, è quello che riguarda la destra, che sul tema dell’immigrazione oggi si trova, pardon, politicamente in mutande: fa la cosa giusta, ma non sa come dirlo. E che cosa fa la destra? Fa tutto quello che ha sempre fatto la sinistra al governo. E che cosa fa la sinistra non di governo quando la destra di governo fa quello che ha fatto sempre la sinistra al governo? Fa quello che la destra faceva quando non stava al governo. Ovvero: dice che così le cose non possono più andare. E quello che fa la destra al governo è chiaro anche se nessuno può rivendicarlo. Collabora con le ong per salvare migranti in mare (persino con la ong che ha mandato a processo il vicepremier di questo governo: Open Arms). Non fa allarmismo sugli sbarchi (dal primo gennaio al primo agosto sono stati 100 mila, l’anno prima nello stesso periodo furono 48 mila). Non protesta se i tiggì della Rai non sbattono l’immigrazione in prima pagina (cosa che la destra chiedeva di fare quando gli sbarchi erano la metà di quelli di oggi). Propone di cambiare la legge Bossi-fini (Fratelli d’italia ha proposto in Parlamento di modificare la legge, cosa che il Pd chiede da anni)”.
Naturalmente il Direttore del Foglio prosegue, motivando questa sorta di paralisi politica, che sarà un tema cardine nelle elezioni europee del 2024, mentre gli sbarchi a raffica - nella loro luttuosa drammaticità e caotica gestione malavitosa - dimostrano la difficoltà di trovare il bandolo della matassa.

Ci mancava il Generale…

Alla fine l’ho fatto: ho letto il famoso tomo di 373 pagine scritto dal Generale Roberto Vannacci. Le polemiche su questo suo libro lo hanno fatto - autore e sua opera (come lui stesso la definisce…) - uscire dall’anonimato e chi ha denunciato certi contenuti di questo suo scritto ha finito per accendere il faro su di lui e su di un libro che nessuno - tranne pochi amatori del genere - avrebbe mai letto. Così gli “accusatori” gli hanno dato un’inattesa popolarità, che probabilmente - anche se lui oggi smentisce, penso in attesa della pensione imminente - lo porterà all’attività politica.
Il libro, dicevo. È una summa di pensieri di chi milita nell’estrema destra e mi permetto di dire - senza logiche di benaltrismo - che sono speculari ad uscire altrettanto criticabili di certa sinistra estrema. Il rischio per entrambi sugli argomenti trattati nel libro è quello di inforcare reciprocamente le lenti distorsive degli ideologismi.
Non si tratta di essere “centristi” o “moderati”, ma di evitare di vedere il mondo senza ascoltare gli uni e gli altri, sfrondando i ben comprensibili eccessi. E nel libro del Generalissimo si mettono le dita negli occhi dei “nemici” con tono aulico fuori moda e con eccessi che talvolta paiono persino grotteschi e oscurano qualche rarissima considerazione condivisibile.
Vannacci si intrattiene su alcuni temi elencati nei diversi capitoli: l’ambientalismo, l’energia, la società multiculturale e multietnica, la sicurezza e la legittima difesa, la casa, la famiglia, la Patria, il pianeta lgbt, le tasse, la nuova città, l’animalismo. Tutti temi che considera di trattare, come enunciato nel capitolo uno. nel nome del “Buonsenso”. Così si esprime: “ Il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti giornalmente volto ad imporre l’estensione della normalità a ciò che è eccezionale ed a favorire l’eliminazione di ogni differenza tra uomo e donna, tra etnie (per non chiamarle razze), tra coppie eterosessuali e omosessuali, tra occupante abusivo e legittimo proprietario, tra il meritevole ed il lavativo non mira forse a mutare valori e principi che si perdono nella notte dei tempi?”
La “normalità” da lui più volte evocata con tono militaresco si inserisce in una visione piuttosto retriva. Basta un passaggio come questo per capirlo: “Non sono cittadino del mondo, non ho giurato fedeltà ai diritti, ai partiti, alle ideologie, ai popoli o a qualsiasi altra entità che esuli dal mio concetto di Patria. L’Europa non sostituirà mai la mia bella Italia che preferisco, nel bene e nel male, a qualsiasi altro paese solo per il fatto di sentirla mia e frutto, anche solo marginalmente, di quanto tutti i miei avi abbiano fatto negli anni passati”.
Eviterei di usare per definire certi passaggio con il termine “fascismo”, come ha fatto qualcuno, perché il continuo uso di questa espressione rischia di degradarne l’uso, che va sempre salvaguardato proprio perché regimi simili non si ripresentino, anche sotto nuove forme, sul palcoscenico della Storia.
Sul richiamo alla libertà di espressione di cui all’articolo 21, come fanno difensori vari del Vannacci, eviterei di evocarla in questo caso specifico, ricordando i doveri di chi ha ruoli nelle Forze Armate come il Generale, che si sbilancia in tesi che non dimostrano coraggio (come qualcuno sostiene), ma un modo di esprimersi che è privo della dovuta cautela e pone interrogativi su come si faccia ad esercitare il comando quando intrisi di così tanti pregiudizi.
L’avvocato Antonio Caputo ha così commentato, rispetto alla bussola da non perdere mai, su Huffpost: “Nel solco dei principi fondamentali della Carta costituzionale, in primis il principio di eguaglianza e non discriminazione dell'art. 3, base di una sana convivenza tra diversi. D'altronde un padre e maestro del liberalesimo come Karl Popper, nel suo fondamentale saggio sulla libertà, "La società aperta e i suoi nemici", intelligentemente affermò che le libertà trovano un limite fondamentale dato nella stessa necessità di salvaguarle impedendo ai nemici della libertà (necessariamente plurale) di poterle usare per sopprimerle”.
Chi ha applaudito alle tesi del Generale, smentendo un correttissimo Ministro della Difesa Guido Crosetto, puzza di zolfo.

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