Il mondo attraverso il cinema

Scriveva Albert Camus: “Senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla. Ecco perché ogni autentica creazione è in realtà un regalo per il futuro”.
Capita di pensarci ogni volta che si acquisisce un nuovo pezzettino di cultura e lo inserisci nel puzzle delle conoscenze.
Il cinema oggi aiuta a farlo, certo non tutto, ma almeno lo è quella parte che ti arricchisce e ti spinge a saperne di più.
Mi aveva incuriosito il recente film di Marco Bellocchio, regista che ho sempre seguito con curiosità, intitolato “Rapito”. Narra la storia tragica di Edgardo Mortara, il bambino ebreo di soli 6 anni che nel 1858 venne sottratto alla famiglia per ordine dell’inquisitore di Bologna secondo le leggi dell’allora Stato pontificio di cui la città faceva parte, dopo la scoperta che il piccolo era stato nascostamente battezzato da una domestica e dunque da sottrarre ai familiari in quanto cattolico. Occasione per scavare in certi lati lati oscuri del cattolicesimo e di quel Papa Pio IX, ambiguo e retrivo, di cui Bellocchio ricostruisce con efficacia l’immagine e le responsabilità nel “caso Mortara”. Ci vorrebbe un bel coraggio - per questo e per altro - a farlo Santo, a conclusione di un percorso di beatificazione già avviato…
Per prepararmi al film, che finalmente ho visto e che non è solo il racconto di una vicenda terribile e dolorosa e profondamente ingiusta, avevo letto “Un posto sotto il cielo” di Daniele Scalise, uno dei molti libri dedicati a questa vicenda, che interessò all’epoca io mondo intero. Il già citato Pontefice non solo non mosse un dito (nel nome del “no possumus) e anzi seguì da vicino la storia e persino la formazione religiosa del bambino, che ne uscì palesemente stravolto, divenendo prete fra paranoie e confusioni. Mori novantenne in un convento in Belgio, colpevole persino del tentativo di far abiurare a membri della famiglia, tra cui la madre, la religione ebraica, ovviamente respinto.
Doveroso capire come anche la tutela delle minoranze religiose debba far parte dei fondamenti democratici e fa onore agli autonomisti valdostani - scusate la digressione - il legame storico con i valdesi delle vallate piemontesi.
Ma, in recenti lunghi viaggi aerei che sono facilitati dall’ampia scelta di film, ho visto un altro film arricchente, cui in questo caso farò seguire un libro di approfondimento già individuato. Si tratta del film, anch’esso recente, diretto da Stephen Williams, intitolato “Chevalier”, che si ispira alla vera storia di Joseph Boulogne (nato nel 1739 o nel 1745 secondo le diverse fonti e morto nel 1799), noto nella sua epoca come il ”Mozart nero”. Figlio illegittimo di una schiava africana e del proprietario di una piantagione francese, che lo condusse a Parigi, facendogli studiare musicaz
Divenne Chevalier de Saint-Georges, titolo ottenuto da Maria Antonietta, consorte di Luigi XVI, l'ultima regina di Francia dell'ancien régime, che morì ghigliottinata nel 1793 nella temperie della Rivoluzione francese che segnò la fine della Monarchia. Boulogne, per vicende personali ruppe con la regina, fu vittima di razzismo e si avvicinò al movimento rivoluzionario. Ma nella Storia resta
soprattutto come compositore e violinista di talento nel panorama musicale europeo durante il XVIII secolo.
Anche in questo caso uno spunto utile per capire da un caso singolo lo spaccato di un periodo storico e l’evoluzione avvenuta, per fortuna, nel tempo. Con i film si realizza il pensiero del regista Bernardo Bertolucci: ”Ricorderemo il mondo attraverso il cinema”.

I dittatori e la libertà

Se uno accende il cervello e lo posizione su “ricerca dittatori” per la mia generazione c’è un bel campionario. Diamo per scontata la triade storicizzata Hitler, Mussolini, Stalin e poi basta scavare ancora e spuntano Mao, Franco, Salazar. Ci sono poi Batista raggiunto poi, vero paradosso, da Fidel Castro. Come non citare Tito, Peròn, Duvalier, Pol Pot, Ceasescu, Gheddafi, Bokassa, Amin Dada, Mubarak, Sadam Hussein, Kim Jong-Un.
Oggi spiccano Putin, Erdogan. Lukašenko, Maduro, Ortega e mi fermo qui, sapendo che li ho messi tutti alla rinfusa e potrei sentirmi dire che ho dimenticato Tizio piuttosto che Sempronio e, sul filo dell’ideologia, altri si potrebbero aggiungere.
In un articolo su Sette il direttore del Corriere, Luciano Fontana, così spiega bene, partendo dai problemi della democrazia nel mondo digitale:
“Troppo spesso sottovalutiamo quanto le libertà che consideriamo ovvie, come l’aria che respiriamo, siano conquiste lontanissime per pezzi della nostra Italia e per larghissima parte degli altri Paesi del mondo. L’elenco sterminato in cui si declina la parola “libertà” (basta dare uno sguardo veloce alla voce della Treccani) è un oggetto sconosciuto per miliardi di persone. Anzi c’è un’azione sistematica per annullarle, condizionarle, reprimerle. Dall’individuo alla coscienza, dalla parola all’espressione, dal culto all’associazione, dall’impresa al lavoro, dal sesso all’arte, le libertà sono un traguardo ancora non raggiunto, con tanti che agiscono perché non si compia. Nelle nazioni dove regnano dittature e autocrazie ma anche, in parte, nelle nostre società occidentali.
Penso, per quello che ci riguarda, che siano ancora molto attuali le parole che il filosofo inglese John Stuart Mill scrisse nel suo saggio sulla libertà: «L’individuo non deve tutelarsi solo dall’autocrazia di un despota ma anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento dominanti». E ancora: «La maggioranza dovrebbe stabilire leggi che accetterebbe se fosse minoranza». È bene ricordarlo in questi giorni in cui tutto è giustificato dalla frase: ho il consenso della maggioranza”
Qualche giorno prima sul Corriere Danilo Taino si è interrogato sulle possibilità che leader cinese Xi Jinping attacchi Taiwan, considerata con la grancassa della propaganda e delle minacce una provincia ribelle della Repubblica Popolare.
In parte dell’articolo, segnalato che razionalmente non dovrebbe avvenire questa guerra pena una tragedia, allarga poi la sua visuale: “Possiamo dunque essere certi che Xi non farà mai un passo del genere? In un saggio recente sulla rivista Foreign Affairs, due scienziate politiche della Columbia University, Keren Yarhi-Milo e Laura Resnick Samotin, sostengono che per i dittatori non vale il «modello dell’attore razionale». Ricordano che nel 1973 gli israeliani non avevano creduto che l’egiziano Anwar Sadat avrebbe osato attaccarli; che nel 1979 il presidente americano Jimmy Carter aveva escluso che il leader cinese Deng Xiaoping potesse muovere guerra al Vietnam, in quanto ciò esulava dalla sua visione del mondo; nel 1991, l’Occidente non immaginò l’aggressione dell’iracheno Saddam Hussein al Kuwait. E così via. I dittatori, insomma, non pensano come i governanti occidentali. Spesso con esiti disastrosi, come sta succedendo a Vladimir Putin in Ucraina. Sono mossi da ambizioni che nessuno limita, da sete di potere cieca, dall’illusione di risolvere una situazione con un colpo di mano, da informazioni incomplete o false filtrate dagli yes-men che li circondano. In più, spesso alzano aspettative che poi non riescono a controllare: quello che potrebbe succedere a Xi, il quale ripete a ogni curva che Taiwan tornerà cinese con le buone o con le cattive”.
La libertà va tenuta ben stretta, sperando che i dittatori paranoici, quando c’è l’hanno, non arrivino mai al peggio del peggio e cioè all’uso dell’arma nucleare.

La Cina sbanca con Tiktok

Per evitare di finire anzitempo in panchina, se non in tribuna o peggio sul pullman della squadra, è bene evitare due cose.
La prima, essenziale per non puzzare di muffa, è evitare di esaltare i tempi passati e le prodezze della propria giovinezza se rapportati ai tempi che viviamo per non creare un buco nero con chi ha la fortuna di essere giovane oggi. La seconda - e non mi stancherò mai di dirlo - è cercare di mantenere una sana curiosità per le novità per evitare - lascio il calcio e uso il ciclismo - di finire in fondo al plotone dei corridori.
Indubbiamente oggi un pozzo di novità è questa storia di Internet, che sembra nell’uso delle sue diverse applicazioni come il cappello del mago o - lo scrivo, pensando al giornalino “Topolino”, appuntamento settimanale di quando ero bambino - come le tasche di Eta Beta.
Ecco perché, nella logica di un entomologo che studia gli insetti, guardo al piccolo (si fa per dire…) di casa, che lanciato verso i 13 anni è - ahimè! - nativo digitale con tutte le conseguenze del caso, compresa una propensione addicted, cioè dipendente, dagli aggeggi elettronici o digitali, come dir si voglia.
La propensione attuale è una specie di muto (tranne qualche suono gutturale di commento) ipnotismo creato dal susseguirsi, che potrebbe essere infinito, del famoso Tiktok.
Come ben si sa questa piattaforma di condivisione video è di proprietà della società cinese Bytedance.
Il Regno Unito e la Nuova Zelanda si sono aggiunti tempo fa all’l'Unione Europea, agli Stati Uniti, alla Danimarca, al Belgio e al Canada nel vietare ai dipendenti pubblici l'uso di TikTok. Gli esperti temono che le informazioni sensibili possano essere a rischio quando l'app viene scaricata, specialmente sui dispositivi governativi.
Ma i giovanissimi non si creano problemi. Ne scrive su Il Foglio Giulio Silvano: “Era dal ping pong e dalla polvere da sparo che qualcosa di cinese non si affermava nel mondo con questa prepotenza. Tiktok, social-piattaforma di condivisione video costruita intorno agli smartphone, arrivato sette anni fa, è il social preferito della Gen Z. Sono gli zoomer, quelli nati tra il 1997 e il 2009 che oggi si laureano ed entrano nella workforce. Si parla soprattutto di Tiktok per la dipendenza che può dare, quella schiavitù dell’algoritmo che ci conosce meglio di nostra madre e che provoca la produzione di serotonina meglio di un carboidrato fritto”.
Non mi dilungo sulla generazione Z, che probabilmente si estende almeno sino al 2012, ma noto che Tiktok è già appannaggio della successiva generazione Alpha. Sbirciate i tablet dati ai pargoli anche piccolissimi per farli stare buoni, ad esempio al ristorante e vedrete che la cineseria incombe.
Silvano così prosegue: ”E poi quelle tiritere da clickbaiting, sui nuovi trend, le challenge e i balletti, soprattutto quelli mortali, che ai boomer (ma ormai anche alla Gen Y) piace tanto criticare negli editoriali. O paginate intere sui booktoker su Robinson, con commento di Corrado Augias, e via così. Il Cav. aveva proposto che si chiamasse Tiktoktak”.
Mi domando sempre quale esperto di comunicazione abbia indotto il povero Cavaliere ad esibirsi, sfidando il senso del ridicolo, su Tiktok…
Il giornalista pone poi un interrogativo: ”Perché i nostri social non sono altrettanto addictive? Si chiedono nella Silicon Valley. Per capire i meccanismi di assuefazione, e molto altro, è uscito un libro, il primo che studia il fenomeno con la lente accademica della semiotica, dei media studies e della sociolinguistica. ”Tiktok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial”, edito da Hoepli e curato da Gabriele Marino e Bruno Surace è un po’ un Tiktok for dummies highbrow, un Tiktok spiegato bene con un inquadramento teorico invece che funzionale. Tiktok “come un hamburger del fast food, è allo stesso tempo un agglomerato potente di istanze culturali, ma così ben ordito da far sì che in pochi se ne avvedano, e in molti si limitino a consumarlo avidamente”, dicono i curatori.
In uno dei saggi del libro, la semiologa Bianca Terracciano spiega come Tiktok segni il passaggio dall’immagine al video, da quelle belle foto di Instagram di tramonti alla ripresa amatoriale senza necessità di estetizzare. Perché il video, scrive, “serve a rappresentare al meglio la forma di vita di riferimento, a costruire un legame con la comunità di follower”, dato che hanno “sempre una struttura narrativa, seppur frammentata”.
Più avanti il tema cardine: ”E poi, ingrediente necessario per l’assuefazione, è la brevità. Come quel meme che dice: “Non ho tempo per un film di un’ora e mezzo, allora mi guardo sette puntate di The Office una dietro l’altra”, siamo attratti dall’illusoria stringatezza dei contenuti, che però accumulati uno dietro l’altro, come le ciliegie, riempiono ore e ore. Ecco l’infinite scrolling, buco nero della socialità sui mezzi pubblici”.
Questo, a mio avviso, non solo crea questa storia dell’infinità scorrere da un filmatino all’altro, ma nei giovani fa crollare la soglia di attenzione a una manciata di secondi e questo pesa anche sull’apprendimento scolastico.
Così conclude Silvano: ”Ma come nota la film scholar Angela Maiello, l’unicità del social cinese sta anche nell’assenza di una cornice intorno ai video, non c’è la mediazione di accesso ai contenuti data dai profili dei singoli come invece succede negli altri social. In pratica Tiktok “elimina quei segni che avevano caratterizzato prima la nascita del Web come ipertesto, e poi del Web 2.0 quale luogo di partecipazione orizzontale”. Un flusso infinito, nudo, continuo e immediato, che attira utenti per oltre un miliardo e sei, più degli abitanti dell’india, e altrettante alzate di sopracciglia da chi non lo usa”.
Attorno a chi ne diventa dipendente si crea il nulla: la vita dentro uno schermo.

Il destino del regionalismo

Mi sforzo, nella quotidianità della routine della strana figura politico-amministrativa di chi fa l’assessore regionale, di non perdere il contatto con le realtà più grandi, in cui si inquadrano i destini di una piccola Regione come la Valle d’Aosta. Giusto, infatti, occuparsi della quotidianità e dei problemi incombenti che si rincorrono, ma male sarebbe non cercare ogni tanto di volare più in alto, da dove osservare quanto sta avvenendo sul piano più propriamente istituzionale.
Risulta evidente che ci sono due discussioni preminenti che devono impegnare intellettualmente chi ritiene che alcuni capisaldi della Costituzione debbano essere la cornice indispensabile per il futuro dell’ordinamento della Repubblica. Mi pare, a questo proposito, ovvia la logica perseguita dal Governo Meloni e dalla stessa Presidente del Consiglio, che mira ad un Premierato a sua misura che rafforzi la sua attuale leadership. Un’operazione in corso che ancora non si capisce molto nei testi, talvolta contradditori, che escono e alimentano un dibattito indispensabile, perché la scelta non è banale in una democrazia purtroppo fragile come quella italiana.
Dall’altra la componente leghista del Governo, lasciato ormai da tempo il filone federalista, spinge per l’ottenimento, per chi lo voglia, di quella autonomia differenziata che farebbe fare uno scatto in avanti alle Regioni a Statuto ordinario in una serie di materie che sono circoscritte dal comma tre dell’articolo 116, così come venne modificato nell’ormai lontano 2001. Su questa possibilità, prevista dalla Costituzione, si è scatenata una bagarre davvero eccessiva rispetto agli spazi di autonomia che si prospettano.
In fondo i due elementi si contraddicono o si integrano a seconda dei punti di vista. Nel senso che c’è chi potrebbe dire che al rafforzamento del potere di Palazzo Chigi farebbe da contraltare in contemporanea una valorizzazione del regionalismo in una logica di equilibrio dei poteri. Se così fosse allora sarebbe giusta la strada su cui stanno discutendo le Regioni a Statuto speciale, quando indicano la necessità di approfittare dell’eventuale “pacchetto” Premierato e Autonomia differenziata per ridare poteri competenze alle Autonomie speciali, che si sono viste attaccate troppo spesso da una logica centralistica di varia provenienza che ha oggettivamente abbassato il loro tasso di libertà.
Personalmente credo complesso immaginare di avere la botte piena (un Premier che raccoglie in sé enormi poteri) e la moglie ubriaca (un rilancio reale del regionalismo). Può essere che sia diventato malfidente, ma ci sono segnali chiarissimi, come la concezione e gestione del PNRR, il sistematico ricorso al contenzioso costituzionale sulle leggi regionali e la palude in cui finiscono le norme di attuazione per le Speciali, che dimostrano una crisi profonda come progetto politico del regionalismo italiano. Per cui penso che si debba essere cauti ad immaginare una stagione florida per il regionalismo.
Sarebbe bene, tuttavia, che le Regioni – e le Speciali si stanno confrontando fra loro intelligentemente – uscissero da quel piagnisteo cui io stesso assisto periodicamente, quando ci si accorge della protervia dello Stato e delle periodiche invasioni di campo in materie regionali. Capita però che troppo spesso chi in un riunioni ristrette fa fuoco e fiamme diventi poi mite agnellino di fronte a Ministri “invasori di campo”. Ciò avviene in una logica cieca di schieramento politico per non disturbare il manovratore, quando invece l’adesione sincera al regionalismo e al suo sviluppo dovrebbe andare al di là di appartenenze partitiche. Perché lo si dovrebbe fare a difesa dei propri territori e delle proprie comunità come valore superiore.
Capisco che rischio di vincere un premio per la mia ingenuità, ma capita ancora di avere una sana indignazione e di non fare il callo rispetto all’imperversare di certe incoerenze. E dunque non dispero che ci possa essere qualche spiraglio e bisogna operare per questo.

Quanti anni sono passati…

“Il solito dubbio: se ricordare o dimenticare, rompere i ponti col passato o scaldarselo in cuore come una serpe.
Gesualdo Bufalino”
Già, è più che legittimo chiederselo e personalmente penso che sia bene scaldarsi con quella parte di memoria che vale la pena di evocare.
Ci pensavo stamattina, perché mi sono goffamente messo a fare dei calcoli, da cui risulta che 45 anni fa di questi tempi cominciai a fare il giornalista, naturalmente in erba.
Ero a Torino per l’Università e il tarlo che mi rodeva, dopo una prima esperienza selvaggia da liceale in una radio libera, era quello che mi ero messo in testa: diventare giornalista.
Mio fratello Alberto aveva organizzato un’audizione a Radio Reporter 93, frizzante radio privata del tempo, con all’ascolto del sottoscritto che si trovò al microfono un plotone di esecuzione.
Il proprietario della radio, Bruno Galetto, purtroppo morto giovane, il direttore artistico, Piero D’Amore, mancato poco tempo fa e il direttore responsabile, Gabriele Isaia e quello amministrativo, Bruno Boveri.
Pur tremebondo qual ero, passai la prova e fui arruolato in questa banda affiatata e divertente, di cui ero la mascotte, confezionando con la bella e brava Luciana Santaroni i notiziari quotidiani.
Esperienza formativa con uno stuolo di DJ di primissimo ordine e grande carriera successiva come Mixo, Maurizio Eynard, Nicola Maria Fioritti e mancai per poco un amico del Liceo, oggi a Radio Montecarlo, Maurizio Di Maggio. La chioccia era il già citato D’Amore, in più pittore artista, che con la sua voce cavernosa e l’aplomb del tombeur de femmes recitava lo slogan “Radio Reporter 93 – La musica più bella del mondo”.
Che bello ripensarci e quanto mi piacerebbe una macchina del tempo per rientrare in quegli studi pieni di vita e con quei programmi in diretta che davano il senso pulsante di una radio privata che profumava di libertà e di ingegno.
Se misuro il tempo passato mi sento vecchio come il cucco. Sono convinto, però, che è proprio il depositarsi delle esperienze, in una logica di stratificazione di conoscenze e di opportunità, che forgia la nostra personalità.
Certo bisogna avere fortuna e io l’ho avuta, vivendo quell’epoca di liberalizzazione dell’etere, che consentiva anche a noi giovanissimi di esprimerci e di fare esperienza, bruciando le tappe. Una stagione unica e irripetibile, per alcuni versi simile a certi aspetti innovativi e liberatori del Web e dei suoi possibili impieghi che ormai si affollano attraverso le loro plurime possibilità di utilizzo.
Se qualcosa ho capito e fatta salva la possibilità che ebbi di sfruttare delle chances, bisogna - quando capita l’occasione - di buttarsi a pesce, senza troppi tentennamenti e darsi da fare sino in fondo, quando arriva il momento. Ho avuto una storia simile, anni dopo, per l’ingresso in politica e anche allora il tuffo nell’avventura si prospettava molto rischioso.
Caro Luciano,
come mi piacerebbe, anche solo per una manciata di minuti, incontrare quel me stesso, chiuso nello studio, dietro il vetro con un grosso microfono direzionale di fronte a me con il cuore in tumulto di fronte ad una prova che pareva un esame. Certi momenti di strizza servono a crescere.

Sorrisi per Los Angeles

In un’altra vita, ma per ora mi accontento di questa, mi sarebbe piaciuto vivere a Los Angeles, città – o meglio una matrioska di città – che mi ha molto impressionato, confermandomi alcune cose, nel solco di un pezzo della mia vacanza negli Stati Uniti.  Commentava un mio amico che ogni cinque anni bisognerebbe andare in America non solo perché precorre spesso i tempi e cavalca le novità, ma perché alla fine si apprezza molto, per contrasto, la nostra identità europea e un certo modo di vivere.
Sarà, come ho studiato nel Giurassico all’Università, che la storia degli States è stata, sin dai navigatori che la “scoprirono”, una sorta di arrembaggio a detrimento dei poveri popoli nativi, invasi dagli europei, a loro volta “invasi” da altri flussi migratori, che scorrono sempre e ancora. Per cui usare il termine “americano” sarebbe riduttivo, meglio il plurale “americani”, che rende conto della complessità di convivenze diverse in un crogiolo da cui sortisce, tuttavia, un sentimento nazionale contradditorio ma unificante.
Los Angeles – e la cosa impressiona – è di fatto un set cinematografico e televisivo. Certo ci sono gli studios, dove si girano i diversi prodotti, ma poi, nel tour della città, scopri come palazzi vari e case singole siano state lo scenario di mille prodotti che abbiamo visto sullo schermo piccolo o grande. Impressiona, parlando con l’ottima guida che ci ha accompagnato in giro, come la nostra cultura di visitatori occasionali sia impregnata di “americanite” e questo lo si vede dalla capacità di ricordare film o serie - per non dire delle canzoni! - che hanno fatto parte della nostra vita. Aggiungerei, durante il giro delle ville di Beverly Hills, il potere evocatore dei loro proprietari: attrici, attori, registi, cantanti e altri protagonisti dello star system. Lo stesso vale per l’infinito elenco di stelle sui marciapiedi di Hollywood Boulevard, da cui si vede la nota ed enorme scritta iconica.
Ma Los Angeles è anche il mare: Malibù, Santa Monica, Venise Beach con porti e spiagge talmente visti in così tanti modi da risultare luoghi familiari e farti sentire protagonista di chissà quali storie.
Ha scritto il regista David Lynch: “Amo Los Angeles. So che tantissime persone, visitandola, vedono soltanto un'immensa distesa di monotono disordine. Se ti fermi per un po', invece, ti rendi conto che ogni quartiere ha una propria atmosfera. A Los Angeles l'età d'oro del cinema è ancora viva, nel profumo notturno dei gelsomini e nel clima mite. La luce poi è una fonte di ispirazione e di energia. Perfino con l'inquinamento, possiede un non so che di vivido e di caldo, non è violenta. Mi infonde la sensazione che tutto sia possibile. Non so perché. È diversa dalla luce di altri luoghi”.
Già, la luce e questo mi fa tornare ragazzo, quando imparavo i rudimenti della televisione, e scoprivo questa ovvietà e cioè di come la luce faccia parte della magia in movimento e ne sia un elemento essenziale.
Ma ovviamente al chiaro si contrappone lo scuro e ne scrisse, con la penna straordinaria che la contraddistingueva, Oriana Fallaci: “Come tutti i luoghi nati dalla speculazione, alimentati dal troppo denaro e abitati da gente che ieri non aveva nulla e oggi ha tutto, Hollywood è dunque la più strana tra le combinazioni di contrasti. Stupida e geniale, corrotta e puritana, divertente e noiosa”.
La mia prima tappa era stata San Francisco, anch’essa con i suoi saliscendi e il profilo dell’isola di Alcatraz, luogo visto e rivisto negli anni attraverso la TV ed è, almeno nella mia esperienza epidermica, espressione di una certa decadenza. La si vede in modo fisico dagli homeless (senzatetto) che invadono, anche in modo violento il centro città. O dai racconti della nostra guida, quando evoca l’elenco delle droghe nuove, quelle sintetiche, che avvelenano le giovani generazioni.
Contraddizioni, anche in questo caso e si alternano così miseria e nobiltà tra case grigie e informi contrapposte a quei quartieri à la page con quel verde e quei fiori che fanno così California.
Ha scritto non a caso Federico Rampini sul Corriere: ”Questa è la storia di una città dove un’insegna luminosa di Elon Musk che infastidisce gli abitanti viene immediatamente rimossa dalle autorità. Ma gli spacciatori di fentanyl, i rapinatori, o gli homeless che aggrediscono i passanti e defecano davanti ai negozi godono dell’impunità più totale. La città, naturalmente, è San Francisco: una ex-perla che si avvolge in una spirale di degrado di cui non s’intravvede la fine”.
Lì non ci abiterei.

Oppenheimer e la bomba atomica

Sono andato al cinema e ho seguito con attenzione e partecipazione emotiva le tre ore filate di “Oppenheimer”, l’ultimo film di Christopher Nolan. Questa volta mi ero documentato bene, comprando il libro da 1200 pagine di Ray Monk, intitolato “Robert Oppenheimer-l’uomo che inventò l’Atomica” e, a complemento, leggendo un’altra biografia di uno dei protagonisti di quegli anni e del progetto della bomba, scritto da David N. Schwartz su Enrico Fermi, altro tomo da 500 pagine. Fermi nel film appare in un breve passaggio, quando scherza prima della prova decisiva sul funzionamento della bomba rispetto ad un’ipotesi, rivelatasi infondata dai calcoli effettuati, che bastasse una sola esplosione per far scomparire la Terra.
Mentre il film ha, per ovvie ragioni, dovuto scegliere un fil rouge narrativo assai divulgativo e facendo scelte che non potevano essere troppo minuziose, il libro sul fisico americano – così come il libro su Fermi e sulla sua scuola romana, prima della sua scelta di andare negli Stati Uniti – non solo traccia il percorso umano e professionale dell’autore, ma ricostruisce quello scenario interessantissimo di rapporti fra scienziati di tutto il mondo negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e durante il conflitto. Una serie di personalità straordinarie, in una fitta rete di successi scientifici e di scoperte nel campo della Fisica che rivoluzionarono questa branca della conoscenza umana. Il tutto, alla fine, legato alla costruzione e all’uso sul Giappone della bomba atomica in un crescendo che il film esalta. Raccontando poi la parabola personale di Oppenheimer che da coordinatore del progetto che portò alla bomba e come tale esaltato come eroe americano si trovò poi nel dopoguerra vittima delle persecuzioni ideologiche del maccartismo con l’accusa ridicola di essere spia dei sovietici.
I libri hanno un versante assai difficile come piena comprensione per me, ripreso solo in termini suggestivi nel film, che riguarda il puzzle di ricerche che tra successi ed insuccessi porta verso la Fisica moderna ad una vera e propria rivoluzione, che ha però componenti tecniche non sempre semplici da comprendere. Tutto ciò in una logica cosmopolita che sposta ad un certo punto la ricerca mondiale dall’Europa agli Stati Uniti per via della progressiva fuga di ricercatori illustri del Vecchio Continente sulla spinta del nazismo, che aveva nel mirino le minoranze ebraiche perseguitate con le leggi razziali.
Ma torniamo ad Oppenheimer, personalità contradditoria, di grande levatura culturale, con diversi complessi che pesavano sui suoi comportamenti, che sfociano infine in questo ruolo motore a Los Alamos nel New Messico, dove sorge il laboratorio, fra scienza e forze armate, che insegue la bomba atomica in una competizione a distanza con i nazisti, popanch’essi all’opra su queta arma letale. Ce la faranno gli americani, ma la bomba verrà adoperata per chiudere la guerra con il Giappone, evitando rischi e perdite causate dell’invasione dell’isola. Ma la scoperta – e la consapevolezza emerge ancora prima del primo scoppio – scuote la coscienza di molti e fra questi dello stesso Oppenheimer, ben conscio subito e nel periodo successivo dell’equilibrio del terrore che abbiamo vissuto durante la “Guerra fredda” e che ancora oggi, a distanza di tanti anni, pesa come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità.
Interessante quando Oppenheimer incontra alla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Oppenheimer disse davvero a Truman di sentirsi «le mani sporche di sangue». Il presidente disse ai suoi collaboratori: «non portate più quel piagnone nel mio ufficio». Insomma, non serviva più e un’ombra si allungò su di lui per il rifiuto di lavorare sulla bomba ad idrogeno.
Il film ripristina il suo ruolo e lo fa senza eccessi agiografici, restituendo – specie in una scena inventata di un incontro con Albert Einstein, che avvenne invece in altre circostanze – la figura di un uomo che, grazie ad un vasto staff, ha segnato un passaggio forte nella storia dell’umanità. Da allora nulla è più stato come prima. Oppenheimer morì nel 1967 soli 62 anni per un cancro alla gola e le sue ceneri vennero disperse nel mare delle Isole Vergini. Fermi, uomo decisivo per le sue ricerche, morì nel 1954 a 53 per un cancro causato assai probabilmente delle molte manipolazioni di materiale radioattivo.
In un suo celebre discorso nel 1947 disse e indicò una strada: ”La professione del ricercatore deve tornare alla sua tradizione di ricerca per l'amore di scoprire nuove verità, dato che in tutte le direzioni siamo circondati dall'ignoto e la vocazione dell'uomo di scienza è di spostare in avanti le frontiere della nostra conoscenza in tutte le direzioni, non solo in quelle che promettono più immediati compensi o applausi”.

Le scelte sul Casinò de la Vallée

Leggo con soddisfazione dei buoni risultati del Casino de la Vallée di Saint-Vincent. Carta canta e i numeri non sono, per fortuna, fantasie. Quando, a inizio della legislatura regionale attuale, ebbi la responsabilità sulle Partecipate, mi trovai nelle mani questo dossier delicato. La Casa da gioco, gallina dalle uova d’oro per decenni dal 1947, era nei guai. Nel senso, molto concreto, di un rischio fallimento in un momento nel quale la politica era scossa da un’inchiesta della Corte dei Conti sui finanziamenti regionali dati al Casinò, con riflessi anche penali, che aveva messo sulla graticola molti politici valdostani e amministratori della società. Tutte vicende, umanamente dolorose per chi ci cadde dentro, che in una esemplare sentenza della Corte Costituzionale e nelle sentenze dei Tribunali si sono sciolte come neve al sole. Con il solito meccanismo giornalistico della gogna mediatica con titoloni accusatori, che sono finiti come notiziuola al chiudersi in positivo delle diverse vicende intrecciate fra di loro.
Ma, in quei momenti, non si poteva prevedere questo esito e così il Casino era avvolto, con mia angoscia personale dovendomene occupare camminando sulle uova, da una specie di fatwa e chi aveva in mano la patata bollente era visto con una certa commiserazione e con una sua evidente solitudine, resa ancora più acuta da due problemi. Il primo: alcuni ritardi nella procedura per l’ottenimento del concordato. Il secondo: il rischio che i conti tornassero nella ripresa dell’attività, colpita in più dalle chiusure per la pandemia e sub iudice anche per i molti interrogativi sulla tenuta dei giochi e sulla loro redditività.
Alla fine, come le tempeste precedenti avevano rischiato l’affondamento della nave in un clima non bello in cui pesarono le bugie di chi governò fingendo che tutto andasse bene (venni persino indicato come la Cassandra di turno quando esprimevo le mie preoccupazioni), la ripresa ancora in atto ha creato il necessario clima di serenità. Non sempre facile, perché il Casinò è luogo di sussurri e grida con risonanze sulla Politica che amplifica le notizie interne all’azienda, creando troppo spesso inutili fibrillazioni, sapendo ovviamente che tutto in un’attività così atipica come il gioco è migliorabile e ci possono essere scelte condivisibili o meno. È legittimo ed è un bene discuterne, evitando però polemiche inutili e non sempre ascoltando pettegolezzi e malevolenze che escono, nuocendo alla necessità di remare tutti dalla stessa parte.
Ciò detto, ora bisogna guardare avanti e lo dico non avendo più responsabilità dirette sul dossier, che però per uscire definitivamente dal tunnel - ormai la scadenza del concordato è nel 2024 - va gestito in modo condiviso per assicurare il futuro ad un’attività che resta singolare (in Italia ci sono solo quattro Casinò) e foriera di vantaggi per la comunità.
Bene è stato fatto - e io lo indicai negli strumenti di programmazione - predisporre uno studio serio sul futuro della Casa da gioco che permetta ai politici di decidere bene dove andare. Il grande bivio è fra gestione pubblica o subentro dei privati, ricordando come la concessione resta pur sempre regionale e bisogna svecchiare i giochi e aiutare Saint-Vincent a diventare luogo di spettacolo e di divertimento a sostegno dell’attività di gioco.
Personalmente credo che, stabilizzata la situazione e consci della necessità di investimenti di vario genere sia - come dicevo - nella parte giochi che in quella alberghiera, l’idea di una gestione privata - solidamente controllata e regolamentata - possa essere una buona scelta. La si deve studiare in fretta, perché i tempi di realizzazione non sono brevi e sarebbe nociva una stagnazione.

L’auto senza conduttore e quella volante

Arrivo a San Francisco, prima tappa di un giro negli States, e salgo su di una navetta per il tragitto verso il centro. Il gentilissimo autista al primo semaforo ci mostra, affiancato al nostro pulmino, un taxi senza conducente a guida autonoma, ormai pienamente autorizzato proprio a partire da poche ore prima.
Poi, nel traffico, incontriamo altre auto simili, chiamate robotaxi e riconoscibili non solo perché nessuna ha un guidatore, ma anche per un insieme complesso di strumentazioni sul tetto dell’auto. Ad autorizzare è stata la Commissione dei servizi pubblici della California, che si è divisa sulla scelta con 3 membri che hanno votato a favore, uno contro, il terzo era assente. Sono due società, Waymo e Cruise, a girare per la città californiana, caricando clienti per portarli dove desiderano. Erano diversi mesi che le due società sperimentavano il servizio, in forma gratuita e con limiti su aree e orari, con 500 auto in circolazione. Ora possono operare a pagamento e senza limiti.
Da notare che nei giorni prima per protesta alcuni militanti di Safe Street Rebel, un gruppo che difende la sicurezza dei pedoni e la riduzione del numero di auto in città, avevano bloccato le vetture con
un cono spartitraffico sopra il cofano per disattivarli questo taxi senza guidatore. Luddisti…
Tra breve vedremo auto di questo genere anche in Europa e chissà cosa faranno i taxisti in Italia, dove sono una lobby potentissima e lo si è visto con le polemiche su Uber, che ha tra l’altro la propria sede centrale nella stessa San Francisco. E la
mia recente esperienza americana mi ha permesso di vedere come taxi e Uber (ma ci sono altri operatori simili) possono convivere senza le polemiche italiane.
Ma la guida autonoma (ho un amico valdobelga che con la sua Tesla non tocca il volante nella tratta Bruxelles-Aosta!) non è in verità la grande rivoluzione cui personalmente aspiravo da bambino, visto che mi avevano convinto che da grande avrei visto le attese e famose auto volanti. Per altro, già grandicello, mi beavo di fantasie con mezzi sfreccianti nel cielo da Blade Runner ad altri film di fantascienza.
Ho letto su Focus: “Il futuro dell'auto volante potrebbe essere stato definitivamente riscritto lo scorso 12 giugno, quando la Federal Aviation Administration, l'ente statunitense che regola il trasporto aereo, ha concesso il certificato speciale di idoneità al volo alla Model A, l'auto volante realizzata dalla Alef Aeronautics.
Per ora la vettura, o il velivolo, potrà volare in spazi delimitati per scopi dimostrativi o di ricerca. Insomma, il Governo degli Stati Uniti crede nel progetto e ha deciso quindi di agevolarne lo sviluppo”.
Ma la novità, anche se dubito, potrebbe emergere con le Olimpiadi di Parigi del prossimo anno. L’azienda tedesca Volocopter, infatti, si è data l’obiettivo di inaugurare entro l’inizio dei Giochi della XXXIII Olimpiade un mezzo di trasporto innovativo che da una parte promette di essere perfettamente ecologico, dall’altra si impone di liberare le strade da una parte del traffico veicolare. Insomma, uno strumento che rivoluzionerà la mobilità.
Se i piani della Volocopter verranno rispettati, nell’estate del prossimo anno si potranno raggiungere le sedi delle gare e il villaggio olimpico utilizzando velivoli elettrici a decollo verticale. La stessa azienda assicurava, tempo fa, con un test di pochi minuti il collegamento a breve fra l’aeroporto di Fiumicino e Roma.
Temo che sia una trovata pubblicitaria e lo scrivo con dispiacere, perché mi toccherà ancora aspettare affinché un sogno infantile si realizzi: volare con una vettura.

Las Vegas>Saint-Vincent

Sono stato a Las Vegas e devo dire che non ci vuole molto a capire l’aria che tira. Ritengo, tuttavia, che aver visto con i miei occhi, quanto avevo letto su questa città del gioco e quanto avevo visto in film e documentari, mi conforta in un primo pensiero.
Anni fa, io non ero eletto all’epoca, pare che fossero venuti degli americani interessati al Casino de la Vallée di Saint-Vincent. In testa avevano - è così mi dicono si fossero presentati - l’idea di fare della Casa da gioco o meglio del paese che la ospita dal 1947 una piccola Las Vegas.
Già all’epoca qualche dubbio mi era venuto ed ora - dopo la visita - quei dubbi sono stati del tutto confermati.
Prendo a prestito una breve storia di questa capitale del gioco da un sito che si chiama scoprilasvegas: ”Las Vegas si trova nel deserto di Mojave, in un'area con delle zone umide, che l'esploratore spagnolo Antonio Armijo scoprì nel 1829, denominandola Las Vegas. La zona era abitata dagli indiani Paiutes. I primi bianchi ad insediarsi furono i mormoni nel 1855, data in cui entrò a far parte degli Stati Uniti, poiché fino ad allora apparteneva al Massico.
Nel 1864 l'esercito costruì il Forte Baker dando impulso all'insediamento della popolazione. Soltanto dal 15 maggio 1905 con la costruzione della ferrovia, nacque la città di Las Vegas.
Nel 1900, le sorgenti che bagnavano le zone umide e che avevano dato origine al suo nome permisero lo stanziamento di popolazioni intorno al Forte, fornendo l'acqua ai treni che viaggiavano fra Los Angeles e Albuquerque.
Con la legalizzazione del gioco nel 1931 ebbe inizio l'espansione di Las Vegas. Nel 1941, s'iniziarono a costruire dei grandi hotel con casinò. I primi furono "El Rancho Las Vegas" e "La Última Frontera". Si sa che alcuni dei primi investitori erano dei membri della crimitalità organizzata; El Flamingo, il primo grande hotel e uno dei più emblematici, fu fatto costruite dal gangster Bugsy Siegel”.
Da lì in poi l’incredibile espansione, trasformando una zona desertica in un’attrazione, ed oggi i suoi abitanti sono 650mila e la folla per le strade e soprattutto negli alberghi-casino è da capogiro. Il solo albergo senza casa da gioco è quello costruito da Trump, perché all’epoca aveva problemi di solvibilità…
Oggi è tutto un luccichio, uno sfarzo, un’esibizione del kitsch con monumenti farlocchi e miriadi di negozi di grandi firme e la solita panoplia del food americano. Per strada vengono dati i bigliettini da visita dei bordelli (per questo viene chiamata ”Sin City”, ”Città del peccato”) e di luoghi balzani dove ci si può sposare in vari modi, trascrivendo o no il matrimonio.
Nel tempo al solo gioco si è aggiunto un insieme ricchissimo di spettacoli. Io sono andato a vedere quello di David Copperfield, un mago - ormai non più giovanissimo - che vedevo in televisione con trucchi che ancora oggi resistono e in teatro sono ancora più impressionanti a vantaggio di un pubblico cosmopolita. Teatro situato - per capire il gigantismo - nel più grande hotel negli Stati Uniti con 5.044 camere, l’MGM Grand Las Vegas, hotel casinò e resort situato al 3799 di Las Vegas Boulevard South sulla celebre strada chiamata Las Vegas Strip, che è uno spettacolo percorrere. Anche se in verità certe ostentazioni mettono alla fine una vaga tristezza.
Ora stanno diversificando ancora, puntando sullo sport in strutture mirabolanti: dal baseball al pugilato, dall’hockey alle gare di corsa automobilistica (arriva a Novembre la Formula 1), dal calcio al football americano. Insomma: attrarre giocatori potenziali o anche semplici turisti con spettacoli sportivi di gran livello.
Ecco perché dalla breve descrizione che vi ho proposto immaginare una Las Vegas a Saint-Vincent sarebbe stato di fatto una pura fantasia. Resta, però, un insegnamento e cioè la capacità di differenziare l’offerta e di non cadere nella trappola di proporre il solo gioco d’azzardo.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri