Betlemme senza cristiani

Noi cattolici o forse dovremmo dire noi cristiani, famiglia ben più larga e litigiosa nei secoli dei secoli, siamo ben strani.
In questi giorni, chi più chi meno rispetto al proprio approccio alla religione e alle Chiese, ricordiamo la nascita di Gesù.
Nella mia infanzia il simbolo era il presepe. Ci pensavo ieri sera, percorrendo a piedi il borgo di Bard, che è stato allestito, come ormai da anni, con presepi molto diversi, che danno il senso della ricchezza iconica del simbolo della natività. Ad Assisi, dove la Valle d’Aosta ha quest’anno ha donato ai frati francescani l’olio per la lampada votiva, rivendicano giustamente l’inventore del presepe sia stato San Francesco d’Assisi, che per primo lo avrebbe realizzato nel 1223.
Tommaso da Celano, il frate che raccontò la vita del santo, narra che Francesco nel Natale del 1222 si recò a Betlemme e qui prese parte alle funzioni liturgiche della nascita di Gesù, rimanendo profondamente colpito da queste rappresentazioni sacre.
Tornato in Italia, chiese a Papa Onorio III di poterle ripetere per il Natale successivo, nel 1223.
Il Papa però non glielo permise (a quell’epoca la rappresentazione dei drammi sacri era vietata). consentendogli però di celebrare la messa in una grotta naturale, a Greccio, anziché in chiesa.
La notte e la celebrazione liturgica furono illuminate da fiaccole e dentro la grotta fu posta una greppia (mangiatoia) riempita di paglia, con accanto un asino e un bue. In realtà non si trattò di un presepe vero e proprio, quanto piuttosto di una messa celebrata in una logica evocativa.
Il primo presepe con le statuette risale invece al 1283 ed è opera di Arnolfo di Cambio. Il celebre scultore scolpì un presepe con otto statuette in marmo rappresentanti i personaggi della Natività e i re Magi.
Ma perché, come da incipit, noi cristiani siamo strani?
Perché - e questo è certo un bene - almeno in questa fase della Storia non siamo per nulla bellicosi, anche se nel passato lo siamo stati e anche in modo feroce. Ma certo rispetto a chi nel mondo mostra fedeli di religioni dal volto feroce contro di noi - e lo sono in molte circostanze islamici e indù - noi arretriamo e non sempre per ragioni evangeliche.
Leggo su Vatican News: “Sono oltre 360 milioni i cristiani che sperimentano un livello alto di persecuzione e discriminazione a causa della propria fede, in pratica 1 cristiano ogni 7. Lo rivela la trentesima edizione della World Watch List (WWList), la lista dei primi 50 Paesi dove gli aderenti al cristianesimo sono più perseguitati curata da Porte Aperte Onlus/Open Doors”.
Cito per capirci un altro passaggio: “Paese con il più elevato numero di cristiani perseguitati è la Corea del Nord, dove l’aumento degli arresti e la chiusura di un maggior numero di chiese, spiega Porte Aperte, si deve, anche, alla nuova ondata di persecuzione promossa dalla “Legge contro il pensiero reazionario” che, tra l’altro, considera reato la pubblicazione di qualsiasi materiale di origine straniera, inclusa la Bibbia. Seguono Somalia, Yemen, Eritrea, Libia. Nazioni, in gran parte, fortemente islamiche e più intolleranti verso i cristiani, dove, precisa Porte Aperte, le persecuzioni sono dovute a società islamiche tribali radicalizzate, all’estremismo attivo e all’instabilità endemica. Qui la fede cristiana va vissuta nel segreto e se scoperti (specie se ex-musulmani) si rischia anche la morte. I luoghi più pericolosi al mondo per i cristiani sono la Nigeria il Pakistan - dove c’è più violenza anticristiana -, l’Iran - Paese in cui i cristiani e le chiese sono percepiti come minacce al regime islamico e i convertiti al cristianesimo sono esposti a maggiori rischi-, e ancora l’Afghanistan e il Sudan. In Myanmar, invece, sono oltre 100mila le persone costrette a lasciare le proprie case, nascondersi o fuggire dal Paese, e il numero di case, negozi e proprietà di cristiani distrutti o attaccati , oltre mille, evidenzia la svolta autoritaria della giunta militare che ha preso di mira certe minoranze percepite come disturbatrici per il semplice fatto di professare la fede cristiana”.
Ma quel che appare più grottesco in questa storia di cui non si parla è proprio Betlemme, luogo di nascita di Gesù (che per la cronaca attuale andrebbe ricordato che era ebreo) gli arabi cristiani soni rimasti pochissimi e chi comanda nel paese della Cisgiordania non è altro che Hamas.
Ho trovato un’intervista su Il Messaggero, che così spiega la situazione: “ «Il fatto che i cristiani rappresentino ormai solo l'1 per cento dell'area sta diventando un problema sistemico, considerando che hanno sempre avuto un ruolo fondamentale per stabilizzare la situazione generale» analizza il frate Guardiano della basilica della Natività, padre Luis Enrique Segovia. «Io sono qui da sei anni e sono testimone di un repentino cambiamento. Il loro crollo numerico ha fatto affiorare il radicalismo di matrice islamica che purtroppo sta permeando tra la gente. Prima non era così evidente» “.
Tutto difficile, insomma, ed è in qualche modo un paradosso: una religione che dimentica di fatto un luogo simbolo e persino nativo, in una generale indifferenza.

I valdostani e lo sci

Per segnare il tempo che passa basta talvolta una battuta bonaria. Un vecchio amico che abita distante e con cui ci scriviamo brevi battute su Whatsapp mi scrive: ”Ma davvero scii ancora?”. La risposta è stata che ho appena affittato gli sci per la stagione e che spero che un ginocchio un po’ cigolante non faccia scherzi.
Confesso, però, che alla fine dell’inverno scorso mi sono detto che, senza aver dubbi sul fatto di sciare, mi dovrei dare una calmata sulla velocità per evitare, se mai cadessi, di trovarmi qualche acciacco serio. Lo stesso ortopedico - che per ora mi ha fatto abile e arruolato - mi ha detto che qualche sosta per non forzare troppo non mi farebbe male.
Ci pensavo a questo mio desiderio di non mollare lo sci attorno a certa polemica nata sulle dichiarazione del Presidente dei funiviari valdostani, che è pure il decano della categoria, Ferruccio Fournier.
Premetto che lo conosco da sempre e siamo stati grandi amici per molti anni, anche prima che facessi politica. Poi abbiamo avuto qualche divergenza, ma per me la stima per le sue qualità umane e professionali è sempre rimasta intatta. Devo a lui l’interessante esperienza per alcuni anni di VicePresidente dell’ANEF, associazione che raccoglie le stazioni di sci di tutta Italia.
Ferruccio con quel suo parlar chiaro che ha sempre fatto il pari con l’ intraprendenza manageriale ha detto alcune cose, che riporto con il virgolettato dell’Ansa.
”Con i sistemi informatici noi sappiamo esattamente quanti sono i valdostani che sciano, comune per comune. Perché per avere diritto a delle tariffe agevolate bisogna avere la tessera 'carte résident'. La media degli sciatori sui residenti è del 10%. Abbiamo delle percentuali più alte nelle zone dove ci sono gli impianti, scendendo in bassa Valle si arriva al 6 o 7%. Cosa vuol dire? Che i valdostani sciano poco".
E ha aggiunto con schiettezza: ”Che la Valle d'Aosta sia un paese di montagna non ci sono dubbi. Sul fatto che gli abitanti della Valle d'Aosta siano dei montanari comincio ad avere un po' di dubbi, a vedere soprattutto la frequentazione dei comprensori sciistici". Anche perché, spiega Fournier, in Valle d'Aosta "abbiamo avuto una modificazione della composizione degli abitanti estremamente fluida e variegata".
Mi pare che abbia detto delle cose su cui riflettere senza adombrarsi. I dati raccontano la verità ed è altrettanto vero che non è detto che per essere montanari o sentirsi tali si debba sciare. Basti pensare che lo sci, anche da noi, è attività sportiva che inizia in modo pionieristico poco più di un secolo fa, diventando poi attività economica che incide in profondità nel modificare l’alta montagna e gli inverni solo nel secondo dopoguerra.
Concordo, invece è del tutto, con Fournier sul fatto che ci siano abitanti della Valle d’Aosta sia di origine che di altra provenienza che non hanno interesse per la montagna in cui abitano e che la bassa pratica dello sci possa essere uno degli indicatori di questa sorta di dimenticanza.
Scrissi già anni fa del rischio, specie per molti giovani del fondovalle o di Aosta, di uno "spaesamento" nel senso di una vita tropo avulsa dai luogo dove si sta, che porta alla perdita quel piacere di conoscere e vivere la montagna in cui abitano e che li circonda.
Un fenomeno allarmante, che colpisce chi si trova a perdere certi propri riferimenti territoriali e naturali per un problema culturale, fatto di interruzione nel passaggio di testimone fra generazioni e fondato su una sorta di ignoranza dei propri luoghi di appartenenza. Come se un'educazione sentimentale, usando l'espressione di Gustave Flaubert, si fosse inceppata.
Mi è capitato spesso di annotare il paradosso del giovane autoctono che immerso in un mondo globalizzato perde di vista molti riferimenti di prossimità. Come se in prospettiva la montagna diventasse un posto dove vivono persone che riducono al minimo il contatto con il proprio luogo di appartenenza, smettendo di funzionare quel fil rouge di conoscenza delle montagne che ci attorniano, che sono un timbro forte della identità valdostana.
Immagino che questo volesse dire Fournier, in una logica di preoccupazione e non per accendere chissà quale polemica.

Come sarà il 2050?

Ne parleremo lunedì mattina al Forte di Bard in occasione della Giornata Internazionale della Montagna, ma intanto ci ragiono.
Come sarà la Valle d’Aosta nel 2050? Capisco che la data fa impressione, specie a chi come me si appresta al 65esimo compleanno. Eppure le circostanze - pensiamo solo al cambiamento climatico, al gelo demografico, alla rivoluzione digitale - ci obbligano ora e non domani a pensare a quello che sarà con raziocinio e non con emotività.
In questi giorni, per capire come gli aspetti previsionali siano una buona pratica, al Comitato delle Regioni a Bruxelles, come in tutte le Istituzioni europee, si è cominciato a discutere della nuova programmazione della politica di coesione dopo il 2027.
So bene che fra le previsioni e la realtà possono sempre mettersi di mezzo, com’è avvenuto in questi tempi,una pandemia e le guerre in corso, ma questo non significa affatto non fare oggi quanto potrà comunque risultare utile per un domani migliore.
Ho citato, come esempio e a quello ci possiamo attenere, tre temi che obbligano a capacità predittive.
Che il cambiamento climatico agisca lo hanno capito tutti e che aumenti la temperatura del pianeta è una constatazione. Ci si può fasciare la testa o si può agire su certi meccanismi e comportamenti, ma nel caso valdostano bisogna anche capire come sarà il nostro territorio senza ghiacciai e studiarne per reagire le conseguenze senza isterismi. Nel 2050 ci saranno cambiamenti già oggi legittimamente prevedibili, cui bisogna prepararsi nel nome di quella parolina, che è “adattamento”.
Idem la questione del crollo delle nascite e dei vecchi sempre più vecchi che crescono di numero (fra i quali spero ci sia il sottoscritto non rimbambito). Possiamo stracciarci le vesti per quello che sarà - e dati scientifici ne abbiamo a iosa - oppure vedere se si riesce e come a far risalire il tasso di fertilità e bisogna riflettere, senza drammatizzazione, su di una immigrazione intelligente e non casuale.
La digitalizzazione è un altro scenario con storie che vanno cavalcate, conoscendone i rischi, come un Web sempre più presente, utile o inutile che sia, nei suoi diversi aspetti e tecnologie che tra 25 anni saranno nelle vite di tutti con il Metaverso e l’Intelligenza artificiale con cui fare i conti.
Per chi ami la Valle d’Aosta c’è poi un tema capitale. Cosa ne sarà della nostra Autonomia? La democrazia partecipativa è in crisi e questo si rifletterà su di noi. La globalizzazione ucciderà le identità più piccole o le piccole comunità sapranno resistere?
Cosa ne sarà dei Comuni più piccoli che rischiano una sorta di eutanasia per svuotamento? Cosa fare per convincere chi oggi vive nella totale indifferenza alla politica, come se fosse una questione estranea alle scelte future?
Rischiamo oggi di distrarci da scelte strategiche decisive, così assorbiti come siamo dalle questioni contingenti, dalle urgenze quotidiane, da polemiche che riviste nel tempo risulteranno ridicole di fronte alle sfide che abbiamo da affrontare.
Ecco perché, molto umilmente e senza alcuna presunzione, penso che dovremmo essere pronti a fare scelte che esulano apparentemente dall’oggi, dalla vita corrente, guardando all’orizzonte non come a qualcosa di distante per i nostri anni, perché non lo è affatto se si pensa con senso di responsabilità a chi verrà.
Nel seguire con affetto le rievocazioni della Dichiarazione di Chivasso, che ho sempre celebrato, anche senza anniversari, per la sua visione sulla situazione e sulle prospettive dei popoli alpini in uno dei momenti più bui della Storia, ho pensato di come sia più facile guardare al passato che pensare al futuro, quanto invece gli autori di quella Carta fecero con lungimiranza.

I ragazzini e la moda dei puff

Non ho mai fumato. Anche se ovviamente provato ho provato. Ricordo la mia prima volta, avrò avuto 12 anni. Location: cinema Ideal di Verrès. Sigarette: un pacchetto di North Pol al mentolo. Svolgimento: nel buio della sala almeno cinque, sei sigarette durante la proiezione. Conseguenze: sono stato male come un cane e ho chiuso l’esperienza con la nicotina.
I miei genitori erano tabagisti, mio padre sin da ragazzino sino alla soglia del suo ultimo giorno (me lo ricordo spesso con la cicca in bocca), mia madre fumatrice meno intensa ma altrettanto viziosa. Negli anni Sessanta e Settanta si fumava ovunque (solo nel 2003 di fu la la legge Sirchia con i suoi divieti) e noi bambini-ragazzi, fumatori passivi, non eravamo un problema.
Sul sito del Governo italiano così viene descritta la situazione attuale sul consumo nella popolazione generale (indagine ISS-Doxa):
- Fuma il 20,5% della popolazione italiana sopra i 15 anni (10,5 milioni di persone,  il 25,1%  degli uomini e il 16,3% delle donne) ma aumenta la media del numero delle sigarette fumate, 12,2 sigarette al giorno e un quarto dei fumatori supera le 20.
- Si fuma di più al sud (29,7% uomini, 18,9% donne) rispetto al centro (23,0% uomini, 12,5% donne) e l’età media dei fumatori è 46,7 anni.
- Tra i fumatori l’81,1% consuma sigarette confezionate, l’11,2% sigarette fatte a mano, il 14%  sigarette a tabacco riscaldato e il 5% e-cig.
- Il consumo negli adolescenti (indagine ISS-Explora)
Il 36,6% degli studenti nella fascia 14-17 anni e il 9,6% tra 11 e 13 consuma almeno un prodotto tra sigaretta tradizionale, e-cig o tabacco riscaldato (almeno una volta nel mese precedente la survey). Contrariamente agli adulti, tra i giovani il consumo è più diffuso tra le ragazze.
- Mortalità e morbosità in Italia
In Italia si stima che siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93.000 morti ogni anno (al Covid-19 sono attribuiti 120.000 morti nel 2020)
- Il tabacco provoca più decessi di alcol, aids, droghe, incidenti stradali, omicidi e suicidi messi insieme. Il fumo di tabacco, in particolare, è una causa nota o probabile di almeno 25 malattie, tra le quali bron­copneumopatie croniche ostruttive e altre patolo­gie polmonari croniche, cancro del polmone e altre forme di cancro, cardiopatie, vasculopatie.
- Circa il 50% dei fumatori muore in media 14 anni prima dei non fu­matori e i fumatori sono affetti per più anni da condizioni precarie di salute nel corso della vita.
Roba tosta! Con la testimonianza del mio figlio dodicenne ormai è esploso il fenomeno inquietante - con tanto di ragazzini “spacciatori” - dei puff, cioè sigarette elettroniche usa e getta, che sono sempre più diffuse come alternativa al fumo tradizionale. Si tratta di dispositivi monouso, interamente precaricati di liquido aromatizzato, spesso anche con nicotina. Non richiedono manutenzione e vanno usati e gettati una volta esaurito il liquido.
In Francia si sta affrontando l’emergenza, come racconta su Le Monde Romain Geoffroy con un articolo pieno di dati scientifici: ”Les députés vont voter un texte qui pourrait, pour une fois, faire l’unanimité dans l’Hémicycle qui vise à interdire les dispositifs électroniques de vapotage à usage unique, aussi appelés « puffs ».
Apparues sur le marché français en 2021, ces cigarettes électroniques jetables, simples d’utilisation, préremplies et non rechargeables, sont accusées de contribuer à la popularité du vapotage chez les plus jeunes. Utilisant des couleurs vives et des arômes sucrés (cola, thé glacé, barbe à papa, milk-shake…), le marketing de ces nouveaux produits de la « vape » cible les adolescents, alors même que leur vente aux mineurs reste interdite”.
Situazione italiana simile, ma per ora priva di interventi legislativi e, a dire il vero, sul divieto totale potrebbe intervenire il veto dell’Unione europea nel nome del mercato.
Ancora l’articolo: “L’usage de la cigarette électronique a explosé ces dernières années, notamment chez les adolescents. En 2022, le vapotage a dépassé pour la première fois les niveaux d’expérimentation et d’usage récent de tabac à 17 ans. Le nombre de vapoteurs quotidiens a même triplé en cinq ans dans cette classe d’âge ».
Infine una riflessione utile: ”La cigarette électronique peut être présentée comme un outil d’aide au sevrage chez les fumeurs, mais ce n’est pas le cas des puffs, assure Marc-Antoine Douchet, chargé d’études à l’OFDT : ces e-cigarettes jetables « constituent bien un risque de porte d’entrée vers la nicotine, d’autant plus que des enquêtes qualitatives montrent que leur potentiel addictif n’est pas forcément perçu ». Cette renormalisation de l’action de fumer pourrait mettre à mal l’objectif du gouvernement d’une génération sans tabac en 2032”.
Interessante porsi degli obiettivi sfidanti, ma queste “puff” rischiano di sconvolgere lo scenario.

La mutazione della Lega

Quando racconto che la Lega è frutto agli esordi in buona parte dell’Union Valdôtaine, mi guardano in molti straniti con la faccia da punto interrogativo. Eppure il seme venne gettato più o meno 45 anni fa e ne conservo una buona memoria (invecchiare servirà pure a qualcosa).
All’epoca il Movimento autonomista - e con lui la Valle d’Aosta intera - fallì nel tentativo, forse realizzabile in quel momento con i giusti contatti, di ottenere una reale forma di tutela per avere - parimenti con quanto avviene per il Parlamento italiano - una circoscrizione elettorale autonoma come garanzia per un eletto al Parlamento europeo in occasione del primo voto a suffragio universale.
Invece, la Valle finì - al tempo esattamente come oggi - nell’enorme circoscrizione elettorale Piemonte, Liguria, Lombardia e Valle d’Aosta con un sistema di apparentamento per un partito di minoranza linguistica costruito appositamente con numeri utili solo per l’Alto Adige-SüdTirol.
Per cui l’UV - io al tempo iniziavo i miei primi passi da giornalista a Torino, ma poi seguii già ad Aosta la campagna elettorale e il voto -scelse la strada, che in quel primo passaggio alle urne non sortì eletti, di presentarsi con vari gruppi sparsi in tutte le circoscrizioni per cercare di ottenere l’ultimo resto.
Fu allora che uno degli esponenti di spicco dell’Union arruolò in lista Umberto Bossi che con la sua Lega Lombarda iniziò la scalata che conosciamo. I primi eletti in Parlamento nel 1987 furono lo stesso leader al Senato (da cui la celebre definizione Senatùr) e alla Camera condivisi l’ufficio al Gruppo Misto con Giuseppe Leoni con cui instaurai un’amicizia.
Allora la Lega “ricopiava” gli autonomisti valdostani sul terreno del federalismo e aveva nel Nord (divenne, infatti, Lega Nord) l’epicentro del suo elettorato con mire secessioniste e slogan contro l’Italia talvolta al limite dell’ingenuità. Partecipai a qualche loro congresso e il fatto solo di essere valdostano fruttava grandi acclamazioni.
I leghisti hanno avuto negli anni Novanta, al di là di un certo movimentismo con oscillazioni da una parte e dall’altra, un ruolo storico: erano stati i soli - con noi valdostani e qualche associazione europeista - a predicare il federalismo e con oggettività è su quella spinta che il centrosinistra, come risposta più tattico-strategica che per motivi ideali (tranne rari casi), varò la riforma pseudo-federalista della Costituzione del 2001, rimasta nel cassetto in buona parte. Quasi umoristico il no allora della Lega alla autonomia differenziata di cui all’articolo 116 della Costituzione, oggi lancia in resta per Regioni ordinarie a trazione leghista, mentre il centrosinistra che ne fu fautore critica quanto esso stesso propose con discorsi da tregenda!
Poi la Lega delle origini, pian piano, cominciò a cambiare pelle e lo stesso Bossi assunse atteggiamenti protervi e ruppe anche il tabù delle origini, quando aveva scelto non schierare il leghismo in Valle d’Aosta per quel primigenio cordone ombelicale tagliato non appena le sirene romane avevano cambiato il Senatùr o forse ne avevano mostrato il vero volto.
Degli scandali finanziari della Lega tutti sappiamo, così come della leadership di Matteo Salvini, che abbandonando le logiche di partito territoriale e abiurando il federalismo oggi si pone alla destra estrema dello schieramento politico. Lo si è visto a Firenze nelle ultime ore con questo incontro con i peggiori ceffi del sovranismo e dell’antieuropeismo europeo. Una compagnia di giro che lascia attoniti, pensando al leghismo delle origini.
Credo che sia un caso di studio per i politologi di come si possa cambiare posizione con una inversione ad U, tutta elettoralistica e ormai, su certi terreni, persino più estremista di Fratelli d’Italia, che è tutto dire…
Cambiare idea è sempre possibile, ma in questo caso la scelta è stata di un cambio molto drastico, che pesa in Italia e pure in Europa, vedendo queste nuove e a tratti sorprendenti ”amicizie”. Legami e rottura con le radici originarie che forse imbarazzano certi Presidenti di Regione leghisti e magari persino dei Ministri che tacciono per timore del Capitano..

L’ambientalismo dei NO

In Francia contro gli eccessi dell’ambientalismo e stata creata la definizione - che si capisce da sola - di “ecologisme punitive”. Non seguirò quel filone di critica, eccessivo come il suo esatto contrario, ma penso che la definizione possa avere un suo garbato utilizzo anche nel caso valdostano.
Esiste nel prevalente ambientalismo valdostano un’origine chiara nella sinistra che oggi potremmo definire antagonista, di cui si conoscono nomi e cognomi e storie personali dal passato più meno remoto con la necessità - nella scelta dell’opposizione dura e pura - di riciclarsi per mantenere spazi politici.
Quanto è, sia chiaro, del tutto legittimo in una Sinistra valdostana con molte anime (lo stesso vale anche per l’autonomismo, quindi è una garbata constatazione).
Il fatto evidente è che la logica punitiva è constellata da No cubitali. Si dà fuoco alle polveri da anni su qualunque argomento. Ricordo ospedale con sconfitta (ma non si rassegnano al referendum e neppure saprebbero dove farlo), termovalorizzatore con referendum che ne ha impedito la costruzione (ora si capiscono costi crescenti con discarica che deborda), no secco e mobilitazioni senza precedenti su Cime Bianche con un vallone diventato l’Eldorado e dubbi sui nuovi impianti di Pila, ma in generale si demonizza il turismo dello sci, infine l’aeroporto brutto e cattivo e anzi da usare solo per gli appassionati locali.
Per qualunque iniziativa di chi governa il controcanto finisce per essere la regola. Ad A si dice Z, se è Bianco si rilancia con il Nero: mai nulla di buono e i comitati protestatari si mobilitano con gli stessi che cambiano solo il cappello con una rete di amici ambientalisti che accorrono al capezzale, mobilitando giornalisti sodali e qualche alpinista in ordine sparso. Piccoli gruppi si atteggiano ad armata, animando manifestazioni, petizioni, esposti alle varie magistrature. Il troppo stroppia, ma mai per loro, che sono in servizio permanente e con il dito sul grilletto dei comunicati stampa.
In Consiglio regionale gli atti ispettivi pullulano ed è legittimo farlo, ma la ripetitività - sempre a battere gli stessi chiodi - fa davvero impressione e così i temi ritornano all’infinito: stesse domande cui seguono le stesse risposte e questo annoia per gli stessi temi che riappaiono sino allo stremo. Intanto scorre il tempo e lo dico con dispiacere da parlamentarista convinto, che trova, però, tanti valdostani che seguono attoniti stessi copioni che non finiscono mai . Questa è la punta dell’iceberg: ci sono poi gli accessi agli atti, che avvengono in modo compulsivo, facendo lavorare la macchina regionale per una marea di documenti. Certo che questo rientra nei diritti degli eletti, ma può o no esistere una misura ragionevole?
La democrazia è fatta anche da efficienza e anche la protesta e la mobilitazione continue finiscono per sfinire anche il più paziente. Mai si arriva dalla protesta alla proposta con l’ambientalismo ideologico e con un utopismo vecchio e pauperista. Intendiamoci: i temi ambientali - in parte assorbiti dall’ormai mitologica Sostenibilità - sono importanti e lo sono anche certe scelte che debbono essere assunte in tempi rapidi. Penso, con analoghi protagonisti delle proteste odierne, ai ritardi causati da chi si oppose all’autostrada del Monte Bianco. Qualcuno ha chiesto scusa per quanto avvenuto o ha dovuto mettere mano al portafoglio?
Ha scritto tempo fa il direttore Claudio Cerasa sul Foglio: “In Europa, un’ondata di realismo, sui temi ambientali, sta travolgendo la politica. E la politica, in modo trasversale, ha compreso che gli obiettivi climatici sono importanti, sono cruciali, sono essenziali ma vanno raggiunti senza isteria, senza dogmatismi, senza farsi travolgere dalla demagogia degli ambientalisti ideologici, senza mai dimenticare che un ambientalismo sano non è quello che impone i suoi princìpi a colpi di regole, divieti, proibizioni ma è quello che sceglie di scommettere sulla transizione ecologica puntando più sull’innovazione e sulla tecnologia che sul catastrofismo e sul senso di colpa e puntando anche a rimarcare il fatto che i paesi europei sul fronte della difesa del clima e del rispetto dell’ambiente stanno già facendo molto, da anni, e hanno dunque bisogno di portare avanti politiche green che siano compatibili con la difesa del benessere, della crescita e del lavoro”.
Mi sembrano ragionamenti seri e alla fine la soluzione starebbe, perché a questo serve la politica, nel ricordare che c’è una maggioranza regolarmente eletta che si deve assumere le sue responsabilità e l’opposizione deve certo fare da controcanto, come da suo altrettanto valido diritto-dovere, ma applicando il buonsenso contro la logica del NO come unica parola, che viene adoperata come un proclama di cui cambia solo il titolo a seconda delle circostanze.

Mattarella e la montagna

Sono molto contento, nella mia veste di coordinatore della Montagna per la Conferenza delle Regioni, di aver incontrato ieri al Quirinale il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella assieme al Consigliere Gianfranco Astori, che fu mio collega alla Camera e al Segretario Generale, Ugo Zampetti, che ricordo in ruoli apicali a Montecitorio.
Ero assieme ad una rappresentanza dell'Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, guidata dal Presidente dell'UNCEM, Marco Bussone, dopo aver partecipato ad un convegno per i 70 anni dell’associazione, in cui ho fatto il punto della situazione, dalla mia visione, delle priorità più significative in Italia e in Europa sulla “questione montagna”.
Devo dire che quel che mi ha colpito è stato l’intervento del Presidente Mattarella, felice di incontrarlo per
le lunghe frequentazioni alla Camera.
Così è iniziata la prolusione del Presidente: “In Italia “vi è una regione che comprende un quinto della sua popolazione, che si estende per un terzo della sua superficie e in cui la vita di tutti i ceti e categorie si svolge in condizioni di particolare durezza e di particolare disagio in confronto col rimanente del Paese. Questa regione, che non ha contorni geografici ben definiti, ma si estende ampiamente nella cerchia alpina, si allunga sulle dorsali appenniniche e si ritrova nelle isole maggiori, risulta dall’insieme delle nostre zone montane”.
Questa è la voce di Michele Gortani, deputato all’Assemblea Costituente, eletto in Friuli, che il 13 maggio del ’47 si rivolgeva all’Assemblea con queste parole. (…) Era all’Italia che Gortani si rivolgeva, all’Italia che si rinnovava. E, quell’insigne geologo, invocava che finalmente fosse l’ora che l’Italia si rivolgesse ai montanari - come disse - “con amore”.
E proponeva, ancora una volta, la questione della montagna come “questione nazionale”.
Fu con il voto dell’Assemblea Costituente, su un emendamento presentato da Gortani come primo firmatario, che la “causa montana” trovava posto all’art.44 della nostra Costituzione”
Ricordo il testo dell’articolo, molto secco ma significativo: “La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. Era l’esito in verità di un lungo dibattito politico che già si era svolto dopo l’Unità d’Italia persino con apposite commissioni d’inchiesta.
Ma, proprio nel cuore dello storia, è entrato il Capo dello Stato: “A lungo, nella prima metà del ‘900, la montagna era stata intesa come giacimento di risorse per le pianure e le città, con l’utilizzo delle fonti energetiche, delle disponibilità idriche per l’irrigazione e l’industria, mentre la questione delle “Terre Alte” veniva ridotta a questione di gestione del patrimonio agro-silvo-pastorale.
Una visione davvero riduttiva.
Impulso che si riaffaccia periodicamente, insieme, oggi, alla tentazione di considerare la montagna un immenso parco giochi a consumo dei flussi turistici.
Ma la regione di montagna è fatta di persone.
Con la Repubblica, all’Assemblea Costituente la parola veniva restituita alle popolazioni alpine e delle nostre altre montagne.
A 75 anni da quella decisione, a 70 anni dall’istituzione della vostra preziosa Unione, è giusto riflettere sui passi compiuti e su quelli da compiere”.
Esattamente quanto è necessario fare: riflettere!
Ancora Mattarella: “La montagna non è solo l’evidente spazio di raccolta di beni del Paese, ma, con i suoi 3.850 Comuni, rappresenta un decisivo patrimonio di vita civica.
Tra pochi giorni – poc’anzi lei lo ricordava, il 19 dicembre, appunto - ricorreranno ottant’anni dalla Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine - la Carta di Chivasso - che riunì, in quella cittadina piemontese, in quel ‘43, esponenti della Resistenza che, in maniera lungimirante, optarono, anzitempo, per la scelta repubblicana.
 Lasciamo, per un attimo, la parola a quel documento che, nel pieno della lotta per l’indipendenza della Patria e la libertà dal nazifascismo,  chiedeva l’autonomia per le vallate alpine affinché potessero costituirsi in Comunità politico-amministrative; affermava il diritto di usare la lingua locale accanto a quella italiana; sollecitava un’organizzazione tributaria in grado di favorire lo sviluppo dell’economia montana e combattere, così, lo spopolamento.
Ed è a questo patrimonio di valori che occorre guardare, ai suoi abitanti che, in questi 77 anni di vita democratica, si sono battuti per affermare gli elementari principi costituzionali di eguaglianza fra i cittadini, alimentandola con l’esperienza dei Consigli di Valle, espressione dell’identità dei territori, della solidarietà tra i Comuni”.
Vale più questo passaggio del Presidente su Chivasso e la celebre dichiarazione che molti discorsi complicati sul tema!
Faccio notare, incidentalmente, quel dato impressionante dei Comuni montani. Sarà questo uno dei punti della nuova legge sulla montagna. Come dico sempre: troppa montagna, nessuna montagna! Bisognerà essere più precisi nella perimetrazione con criteri oggettivi e verificabili, affinché la montagna sia davvero montagna, pur tenendo conto delle differenze esistenti fra Alpi, Appennini e montagne delle isole.
Salto un pochino più avanti, sempre con le parole del Presidente della Repubblica: “Come è naturale, nuove sfide si aggiungono, imposte, oggi, dai mutamenti climatici, dalla struttura demografica del Paese; sfide che rilanciano la questione della tutela ambientale come centrale per la sopravvivenza e il progresso di tante parti d’Italia e dell’intero Paese. Le alluvioni continuano a rammentarcelo, con lutti e distruzioni.
A questo scopo, è lecito interrogarsi su quali debbano essere gli strumenti più opportuni per affrontarle e, insieme, per fornire risposta alle possibilità di inverare il dettato costituzionale circa la specificità riconosciuta in Costituzione alla montagna.
Una peculiarità suffragata anche da numerose recenti sentenze della Corte costituzionale, che indicano come la condizione di svantaggio della montagna italiana giustifichi ampiamente misure a suo favore.
È, dunque, auspicabile che le iniziative legislative avviate dal Governo - e da quello che lo ha preceduto - vengano prese in esame e in considerazione dal Parlamento, in attuazione della norma costituzionale.
È, del resto, dai tempi del Ministro delle finanze Ezio Vanoni – che lei, poc’anzi, ricordava, Presidente (ndr: si riferisce al già citato Bussone) - che la questione della fiscalità per le zone montane è stata affermata in linea di principio e, tuttavia, ha trovato difficoltà applicative.
Le finalità sono state individuate in modo puntuale: si tratta di fruizione di diritti; si tratta, nell’interesse nazionale, di predisporre incentivi utili a impedire un ulteriore spopolamento di aree sensibili.
È certamente una priorità nazionale rilanciare la Strategia per la Montagna Italiana.
Sono i diritti che lei, poc’anzi, ricordava, Presidente: la sanità, la scuola, il superamento del divario digitale - fondamentale per rendere operative opportunità occupazionali -, l’accessibilità ai servizi e i trasporti pubblici, a partire dalla rete ferroviaria, nelle aree interne tanto carente, quando non addirittura sottratta.
Le Regioni sono state chiamate a essere attrici in questo processo. E si tratta di far sì che i protagonisti siano i territori e le popolazioni montane, coinvolte, insieme alle loro istituzioni, nell’eliminazione degli squilibri socio-economici con il resto del territorio nazionale. Istituzioni impegnate nella missione di difesa del suolo e della protezione della natura, secondo quanto dettava l’articolo 2 della legge 1102 del ‘71 che, superando l’esperienza dei consorzi di Comuni,  istituiva le Comunità Montane, affidando loro l’elaborazione dei propri piani di sviluppo.
Nuto Revelli, il cantore del “mondo dei vinti”, riassumeva in tre parole i valori che la montagna e le sue genti proponevano: libertà; confini; solidarietà.
Spirito di libertà, che si traduceva nell’insofferenza verso ogni prepotenza e verso i confini, naturali o artificiali o sociali che fossero.
Spirito di solidarietà. Quello che ha sempre animato le genti delle Terre Alte fra di loro - fossero da un lato o dall’altro della valle o del monte - o verso l’estraneo. Perché, laddove la vita è più dura, si fanno strada maggiormente i valori più autentici della persona.
La nostra Costituzione ne è specchio fedele e, per questo, la Repubblica è riconoscente verso le genti di montagna. E vi chiedo di farvi interpreti e di trasmettere questo sentimento”.
Discorso applaudito e apprezzato. Al momento del commiato, ho espresso di persona al Presidente i miei sentimenti di stima, ricordando l’attesa dei valdostani per una sua visita ufficiale in Valle d’Aosta.
 

Todos autonomistas

Ho lavorato a Roma e lo faccio da sempre ad Aosta, così come a Bruxelles con esponenti di tutti i partiti politici, com’è giusto fare in una democrazia. Un tempo esisteva, anche nella peggior polemica pubblica o nelle baruffe della vita parlamentare, un fondo di rispetto reciproco sul piano personale, che ormai, specie nel rapporto con le ali estreme, è saltato, perché imbevuto in egual misura di populismo e di demagogia.
L’avversario è un nemico, punto e basta e si adoperano sempre più metodi extrapolitici, come ad esempio la delazione giudiziaria con esposti e denunce, anche immotivati.
Ma l’aspetto più propriamente valdostano, non nuovissimo ma sempre più esteso, è il dirsi con enfasi “anche noi siamo autonomisti!”. Straordinario tentativo mimetico: partiti nazionali, spesso nazionalisti o dell’ormai noto rossoverde ambientalista, che in ambito locale urlano il loro autonomismo come elemento del loro DNA. Scelta furbesca e contronatura rispetto alla loro vera…natura.
Ogni volta questa storia evoca l'espressione spagnola «Todos caballeros» (in italiano «Tutti cavalieri»). Sarebbe stata pronunciata da Carlo V davanti ad una folla paludente, durante una visita ad Alghero (dove ancora oggi ci sono gli eredi dei catalani giunti come coloni nel Trecento) avvenuta tra il 7 e l'8 ottobre del 1541.
L'espressione è oggi utilizzata in tono dispregiativo per descrivere quelle proposte tendenti ad estendere urbi et orbi dei particolari privilegi, annullando così di fatto la distinzione o il prestigio derivante dagli stessi; allo stesso modo viene utilizzata per connotare l'esito di una vicenda nel quale tutti si proclamino vincitori.
Sul perché avesse detto quella frase, dando per ora per buono che ci sia stata, ci sono diverse teorie: un riconoscimento alla tenuta della comunità catalana a due secoli dall'arrivo in terra sarda; un saluto ad illustri cittadini locali che avrebbero seguito il Re in una spedizione a Tunisi; un plauso per la mattanza di animali - avvenuta in una sorta di "corrida" - che sarebbero state imbarcate come provviste per il viaggio in Africa; una risposta maldestra ad una folla che reclamava per filarsela via in fretta (si dice per impellenti esigenze fisiologiche...). Già questa serie di ipotesi scricchiola.
Scrive sul tema "Sarda News" in modo tombale un autore di cui non ritrovo il nome: "Avendo constatato come sia ancora radicata, così fra i divulgatori come fra gli uomini di cultura, la convinzione che l'imperatore Carlo V, in occasione della sua visita alla Città di Alghero nel 1541, abbia elevato tutti i suoi abitanti alla dignità cavalleresca, mi sento in dovere di avvertire, come algherese, che si tratta in realtà di una frottola tendenzialmente canzonatoria della quale si ignora l'origine.
Ho letto da cima a fondo, sia nella versione originale in lingua catalana, sia nella traslazione in lingua italiana proposta tempo addietro dal nostro concittadino Mario Salvietti (vedi "Carlo Quinto in Alghero. La relazione di Johan Galeaҫo nell'originale trascritto, tradotto e commentato", Edizioni del Sole, Alghero 1991), il resoconto delle due giornate trascorse dall'imperatore del Sacro Romano Impero sul suolo algherese, e posso assicurare che in nessuna parte di quel documento storico si fa cenno ad un fatto come quello in questione.
Johan Galeaҫo era un notaio algherese che all'arrivo di Carlo Quinto ricopriva l'ufficio pubblico di consigliere civico, e come tale era stato incaricato dall'Amministrazione di stilare una relazione ufficiale da conservare nell'archivio cittadino ad eterna memoria dell'avvenimento. Egli assolse il suo compito con grande scrupolo e precisione, spesso accompagnando il sovrano nei suoi spostamenti, talvolta dando ascolto a quanto potevano riferirgli altri personaggi autorevoli. Dobbiamo a lui la conoscenza dell'espressione «Bonita y bien asentada» sfuggita al monarca mentre, attorniato dalle massime autorità locali, osservava la roccaforte dall'alto di un poggio poco distante dalla Torre dello Sperone".
Insomma: il Re non l'ha detta questa frase, ma è rimasta lo stesso nel significato poco simpatico, ma così sintetica da diventare proverbiale.
Perché ne me occupo? Per tigna ("puntigliosità" suona meno popolaresco), guardando come non mai allo schieramento politico valdostano e al «Todos autonomistas», che ormai impazza.
Per carità, non ho autorità alcuna per dispensare patenti di autonomismo, ma contano le cose fatte più che le cose dette nel link fra esponenti locali e quanto realizzato dai loro referenti nazionali. Basta poi ascoltare certi discorsi o interventi in sedi ufficiali per vedere che, tolta la pagina di superficie, manchino certi fondamentali sull’ordinamento valdostano e persino sulla storia e geografia, che mostrano vuoti che caducano l’affermarsi background autonomista. Peggiorano le cose per alcuni se si apre il capitolo federalismo, che è peculiarità ormai esclusiva delle forze autonomiste, che a breve si riuniranno in una sola entità, che è quella primigenia.
Nessuno osa più usare il termine “regionalista”, che forse andrebbe bene per chi non ha mai saluto fino in cima le scale dell’autonomismo.
Resta poi il capitolo indipendentismo, che rispetto, ma di cui al momento mi sfuggono i passaggi istituzionali proposti per arrivarci e non è cosa di poco conto.
Caso a parte è quello di chi entrò nel mondo autonomista per scelta opportunistica per poi uscirne con logica da voltagabbana senza alcun pudore.
Quel che resta, alla fine, è la speranza che i valdostani sappia distinguere le mele dalle pere e che tornino a votare, perché altrimenti saranno altri a decidere del loro futuro.


Le Breuil-Cervinia e le troppe polemiche

Vorrei tornare, a bocce ferme e facendo finta di non aver letto e sentito sul tema un sacco di scemenze talvolta offensive, sulla questione della toponomastica sul tema Breuil-Cervinia, come personalmente ho sempre chiamato - anche quando ero giornalista Rai - la frazione di Valtournenche ai piedi del Cervino.
L’epopea di questa località, che ricordo aveva ambito con apposita petizione popolare a diventare Comune autonomo, nasce come luogo di alpeggio stagionale e poi sopravviene qualche struttura alberghiera in una seconda fase ottocentesca dell’alpinismo nascente.
Quella che lo storico valdostano Marco Cuaz così descrive su Le Alpi" (editore "Il Mulino"): «Fu la fine del "playground of Europe" e l'inizio della guerra delle bandiere. Le vette di alcune montagne particolarmente significative per la loro posizione e la loro visibilità, divennero luoghi si scontro reale o simbolico fra uomini di diverse nazionalità che ne percorrevano le vie di salita per issare la propria bandiera».
Insomma, la scoperta delle vette era stato appannaggio degli scienziati cosmopoliti settecenteschi, mentre l'alpinismo sportivo diventa simbolo nazionalistico e andrà a braccetto con il turismo, che poi, con lo sfruttamento della neve attraverso lo sci, sdoganerà l'inverno. E con l’avvento dello sci, esaltato dal regime fascista (celebre la foto del duce che scia a torso nudo al Terminillo) attraverso la nascita dei primi impianti di risalita, la località viene battezzata “Cervinia”. Si tratta ormai di un brand preciso, usato anche da Emile Chanoux. quando scrive, nei lavori preparatori della celebre Dichiarazione dei popoli alpini valdovaldese del 1943, che «con l'appoggio del potere centrale sorsero le grosse speculazioni di Cervinia e del Sestriere».
Ma altrove nei suoi scritti dice altre cose che condivido sull’aspetto simbolico di Cervinia (che lui chiama "Breuil" per ovvie ragioni), quando invitava il popolo valdostano - di fronte al grande turismo emergente - a non perdere la bussola: «Il doit rester lui-même avec son caractère, sa culture, sono orgueil! Il doit rester lui-même avec ses défauts».
Questo mi sembra il punto vero. La scomparsa annunciata del termine “Cervinia” pare essere, se si è tutti in buona fede, una specie di commedia degli equivoci. Nella pulizia linguistica fatta dal Comune di Valtournenche (quanto usuale per tutti i Comuni) e sottoposta a apposita Commissione regionale, spunta “Le Breuil” e tutti - Comune in primis e Regione di fatto per ratifica - accettano. Ma c’è un però: la denominazione novellata cancella di fatto “Cervinia” e da qui le polemiche, che ho commentato a caldo con un breve post: “Breuil è il nome vero, Cervinia scelta di epoca fascista. Ovviamente andranno ripristinate entrambe le definizioni, in modo armonico, come avvenuto sino ad oggi. Eviterei tempeste in un bicchiere d’acqua”.
Invece, burrasche!
Apro parentesi: il fascismo aveva stravolto, in odio al particolarismo valdostano, le denominazioni dei Comuni valdostani con traduzioni ridicole in italiano. E, come per gli sloveni, la puntata successiva sarebbe stata modificare i cognomi francofoni con la medesima italianizzazione forzata. La logica, applicata purtroppo quasi subito dall’avvento del fascismo, aveva cancellato scuole e bandito francese e patois a dimostrazione questo sì di una “cancel culture” ante litteram.
Il ritorno della toponomastica storica fu una delle prime battaglie post Liberazione, come la soppressione della Provincia di Aosta unita al Canavese, anch’essa legata ad una logica di dilavamento della valdostanità. Ma nel tempo si è lavorato, tornati anche per i Comuni i toponimi veri, per “pulire” i nomi in una logica scientifica di ricostruzione esatta delle tradizioni passate e non per chissà quale pulizia “etnica”.
Particolare curioso alla Costituente Alcide De Gasperi (che qualcuno vorrebbe fare Santo e personalmente non ne vedrei il perché) intervenne sul nostro Statuto, immaginando sulla traccia sciagurata del caso sudtirolese con le traduzioni sceme di Tolomeo in italiano dal tedesco, di prevedere la bilinguità (questo il termine usato) per i nomi dei Comuni. A seccare la proposta fu il grande Emilio Lussu, sardista relatore in aula, che segnalò come sarebbe stato ridicolo affiancare a La Thuile la definizione fascista antifrancese Porta Littoria….
Ma torniamo a Cervinia: ormai si tratta di un marchio affermato di cui sarebbe stupido fare a meno. In quanto avvenuto per un pasticcio non c’è stata nessuna ragione xenofoba o giù di lì. Per cui neofascisti e destrorsi vari sono corsi inutilmente al capezzale di Cervinia e lo hanno fatto con evidenti note nostalgiche per il Ventennio con grida, urla e starnazzi degni di miglior causa.
Pubblicità gratuita per Le Breuil-Cervinia e meravigliosa cartina di tornasole della stupidità come caratteristica di certa politica, che apparteniene a questa stagione politica populista che spero avrà vita breve.
Ma aggiungo ancora una questione: possiamo guardare il dito e non la luna. La realtà più importante non è il nome ma lo sviluppo della località che dovrebbe interessare, pensando al passato, al presente e al futuro.
Il passato è la speculazione specie nel dopoguerra, quando l'Autonomia speciale ancora in fasce venne sconfitta - a colpi di sentenze - dal partito dei costruttori e fallì il tentativo di preservare la conca da certi scempi.
Il presente è l’abbraccio più forte con Zermatt con i nuovi impianti che rendono possibile la liaison senza sci ai piedi e questa “cuginanza” va rafforzata non facendo della Valle d’Aosta nel sistema l’anello debole, ma avanzando con il Vallese con un’azione congiunta.
Il futuro è questa direzione, tenendo in mente gli impianti di risalita e anche qualunque nuova forma di attrattività turistica. Guardando anche alla possibilità offerta dalle Cime Bianche e dai collegamenti con il Monterosa ski. So che è un tema discusso con toni eccessivi, ma questa è la logica delle ideologie estremiste, essendo ormai diventato un simbolo santificato per un ambientalismo che politicamente non sfonda e dunque si agita su qualunque dossier per dimostrare di esistere. Per alcuni di loro, sfumata l’utopia comunista, questa è la nuova religione verde con cui si mobilitano su la qualunque.
Bisognerebbe sulla località di cui parliamo avere, invece, del coraggio. La polemica sul brutto Stone, grattacielo inopportuno che si voleva costruire con il rischio di vederne altri ancora, ha avuto un senso. Ci vorrebbe, infatti, una logica complessiva e non pezzo per pezzo, immaginando una grande operazione di risanamento e riordino urbanistico, modello per tutte le Alpi. Questa sarebbe la vera scelta coraggiosa a Le Breuil, così come a…Cervinia.

Ammirato dall’Académie francaise

Il caso talvolta consente un’esperienza inattesa, che si rivela tuttavia memorabile.
Ho sempre ammirato la capacità di valorizzare protocollo e cerimoniale dei francesi e ho sempre considerato certe regole di comportamento non come un cascame del passato, ma come un rispetto delle tradizioni, degli obblighi del comportamento, del necessario lustro per le istituzioni.
Bisogna sapersi comportare, rispettare usi e costumi, mantenere elementi che non sono solo bon ton e galateo, ma sostanziano solennità e rispetto dei ruoli.
I francesi non hanno avuto come l’Italia il grillismo sciatto, maleducato e privo dei fondamentali dei comportamenti civili o l’approssimazione nelle istituzioni di troppi parvenu che rozzamente ricoprono ruoli importanti senza attenersi a decaloghi che indicano come fare e come comportarsip grazie anche alle mani esperte di chi si deve occupare di questa materia che non è formalismo ma sostanza.
Ma veniamo al punto.
“Prix Henri Mondor: Mme Federica LOCATELLI, pour « Stéphane Mallarmé, l'homme poursuit noir sur blanc». Professeur à l'université de la Vallée d'Aoste, spécialiste de la poésie française symboliste et moderne, Mme Locatelli analyse le mouvement métaphorique qui soutient le poème mallarméen (images, échos sonores, relations syntaxiques) et qui se donne à voir comme un objet volumétrique (astre, bloc de cristal, diamant), d'où le « signe adamantin » que, selon Mme Locatelli, Mallarmé cherche d'une manière obsédante”.
Un libro su Mallarmé, celebre autore ottocentesco della cerchia dei ”poeti maledetti”, mi ha consentito, nel seguire la premiazione della professoressa appena citata, che ha onorato l’Ateneo valdostano, di entrare in uno dei templi della cultura francese, l’Académie française. Ho così testato in questo luogo straordinario il vero e proprio balletto che dall’ingresso all’uscita accompagna gli ospiti fra musiche, saluti militari, divise degli academiciéns, discorsi di elevato profilo e via di questo passo in un luogo che parla di Storia.
Siamo di fronte alla Senna.
La traggo da Wikipedia: “Nel 1661, nel suo testamento il cardinale Mazarino, grazie alle sue grandi ricchezze, dispone la fondazione di un collegio in grado di ospitare sessanta gentiluomini delle nazioni tenute all'obbedienza verso il re in conseguenza della pace di Vestfalia (1648) e del trattato dei Pirenei (1659); da questo deriva il nome di Collège des Quatre-Nations (le quali sono Artois, Alsazia, Rossiglione e Piemonte). Jean-Baptiste Colbert incarica Louis Le Vau di edificare il collegio di fronte alla Cour carrée del Louvre. La costruzione fu realizzata tra il 1662 e il 1688.
Nel 1805, su richiesta di Napoleone, l'Institut de France si installa nel collegio. L'architetto Antoine Vaudoyer trasforma la cappella nella sala destinata alle sedute”.
Qui ho preso posto con stupore per la bellezza dell’edificio stesso, accompagnato al posto con grande perizia.
Eccomi nel cuore dell’Académie française, sorta attorno nel 1629 dalle riunioni di un gruppo di letterati e organizzata regolarmente per opera di Richelieu, che nel 1635 ne divenne ‘protettore’ e le affidò il compito di preparare un dizionario, una grammatica, una retorica e una poetica. Ha assunto poi il carattere di accademia letteraria, volta in particolare a regolamentare l’uso in materia di espressione linguistica. Soppressa dalla Rivoluzione (1793) che la sostituì parzialmente con le sezioni di grammatica e poesia dell’Institut creato nel 1795, riorganizzata da Napoleone (1803) con la classe di letteratura e lingua francese dello stesso Institut, fu restaurata dalla monarchia nel 1816. Le ‘poltrone’ (fauteuils) sono 40 (i ‘quaranta immortali’: numero raggiunto per la prima volta nel 1636 e solo la morte di un membro consente un nuovo ingresso), mentre la carica più importante è quella del ‘segretario perpetuo’, definizione anch’essa che fa impressione e sembra azzerare il tempo che passa e mostra la longue durée della Académie.
C’era presente tutto il gotha della letteratura francese in una lunghissima premiazione. Con il brivido di essere a due passi dall’amato Daniel Pennac e da quel Bernard Pivot che ammiravo su Antenne 2. Incredibilmente scenica la schiera di questi “immortels” (alcuni in verità in condizioni assai precarie in barba alla poetica definizione) con la loro veste verde damascata e la spada d’ordinanza.
Emozionanti i discorsi ufficiali. Con l’unico italiano della schiera, Maurizio Serra dall’incredibile curriculum vitae, che ha parlato della “virtù” e ne cito un passaggio che sembra un ammonimento per certi politici che conosco: “Une société qui s'affadit en recherche du consensus à tout prix et au plus bas dénominateur commun perd le sens de ses valeurs. À l'affaiblissement d'une pensée fragilisée par le conformisme ambiant, se joignent d'autres facteurs d'érosion: l'incivilité des mœurs, la négation du sens de la mesure, de l'ironie et de la pudeur, qualités jadis propres à l'honnête homme, pour en arriver à la mise au rencart de cette notion de la politesse, au sens le plus ample et à la fois précis du terme, qui pour tout étranger un peu civilisé représente une richesse intrinsèquement française, un don de la France au monde”.

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