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03 gen 2021

Che i giovani non abbiano paura

di Luciano Caveri

Sono stati anni bellissimi quando divenni un giovane deputato. Mi accorgevo quando incontravo «i giovani», tipo liceali od universitari, come non ci fosse ancora un profondo gap generazionale. Riuscivo con facilità a sintonizzarmi sulle loro frequenze. Ora ovviamente non ci riesco più con la stessa naturalezza, nel senso che molte cose stento a capirle, per quanto mi sforzi. E con rimpianto ci si sente come Ovidio: «Presi un pugno di sabbia e glielo porsi, scioccamente chiedendo un anno di vita per ogni granello; mi scordai di chiedere che fossero anni di giovinezza». Eppure i giovani mi sono nel cuore come non mai in questa fase della vita in cui trovo necessario sentirmi solidale con loro, perché sono di certo le maggiori vittime di questa pandemia. Perché mai come oggi sono i più frustrati da queste chiusure e da queste limitazioni e il loro tempo perduto dovrebbe invece essere pieno di cose belle e vitali.

Leggo un'intervista di Angelo Picariello su "Avvenire" con la presidente emerita della Consulta Marta Cartabia, che ama le nostre montagne ed è stata insignita ufficialmente come "Amie de la Vallée d'Aoste". Questa una sua considerazione generale: «Credo che questo sia il tempo in cui occorre fermarsi e riflettere su quali siano le priorità che si vogliono perseguire, posto che la situazione impone e imporrà comunque dei sacrifici a tutti, forse per lungo tempo». E sui giovani: «Penso soprattutto alle giovani generazioni, che mi pare siano colpite più di altri da alcuni effetti collaterali dell'emergenza, anche se stanno superando con minore difficoltà i problemi strettamente sanitari. Occorre guardare in faccia con lealtà e coraggio la situazione di fatto: c'è un'emergenza sanitaria che sta portando con sé, oltre che una crisi economica, un'emergenza esistenziale, forse anche spirituale, che non deve essere sottovalutata e alla quale sono esposte soprattutto le giovani generazioni». Più avanti approfondisce: «Se c'è una caratteristica che contraddistingue in modo evidente questo nostro tempo, è il senso di insicurezza e precarietà che la pandemia porta nella vita di ciascuno, a livello personale e nella dimensione collettiva. Viviamo nell'incertezza, esposti a variabili indipendenti dalla nostra volontà e questo genera paura, ansia. Viviamo giorno per giorno, ma gli orizzonti spazio–temporali tendono a chiudersi su se stessi e perdiamo la capacità di pensare con pensieri lunghi, rivolti a progetti che non si esauriscano nell'immediato. Il virus che si propaga in questa pandemia lascia per molto tempo nel fisico una stanchezza anomala: occorre vigilare affinché questa non prosciughi anche le energie morali. Dobbiamo prevenire un secondo spillover della malattia, che dopo aver colpito l'umanità nel corpo non ne intacchi l'animo. Ad essere esposti a questo spillover sono soprattutto i giovani. Verso di loro, che saranno chiamati alla grande ricostruzione, portiamo una enorme responsabilità». Poi si esprime sul bisogno dei giovani: «Iniziamo a dire di che cosa non hanno bisogno. In un'interessante riflessione sul mondo che vivremo, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti osservano che occorre guardarci da due reazioni tanto comuni quanto improduttive: sognare il ritorno a una situazione a rischio-zero, che coincide con una forma di diniego della realtà, o rimanere imprigionati nella paura. In un momento della storia non meno drammatico del nostro, preso nella morsa delle due guerre mondiali, segnato dalla grande depressione economica del 1929, dalla piaga della "spagnola" e dal cupo orizzonte dei totalitarismi dilaganti in Europa, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt nel suo discorso di insediamento si rivolgeva alla popolazione dicendo che "l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa". E' la paura che può bloccare, paralizzare e infine deprimere. La questione essenziale del nostro tempo è vivere i cambiamenti in atto e il futuro che non sappiamo immaginare come terre sconosciute sì, ma da esplorare, convertendo le fonti di rischio in moltiplicatori di opportunità». Mi piace molto questa prospettiva e la trovo senza età, se non ovviamente nella logica limitatezza si orizzonte di chi non sia giovane e come tale con meno tempo. E la citazione finale della Cartabia inebria: «Mi permetta di fare un riferimento alla "Divina Commedia" che sto rileggendo anche sollecitata dal 700esimo anniversario dalla morte di Dante. All'origine di quella formidabile avventura di vita e di conoscenza che ha consegnato all'intera umanità nella Commedia, troviamo un incontro decisivo: è l'arrivo inaspettato e sorprendente del maestro Virgilio a consentire a Dante di liberarsi dalla paura e dal disorientamento nel momento più oscuro della sua esistenza: è lui che lo rassicura e lo rimette in cammino. Meglio: lo accompagna nel cammino, non solo mostrandogli una strada, una direzione, una via percorribile, ma mettendosi in moto con lui. E' in un incontro inatteso - come quello che celebriamo nel Natale - che si aprono nuovi orizzonti, è lì la sorgente della motivazione che abilita al cammino, qualunque sia la condizione data. La presenza di Virgilio rende la selva oscura occasione irripetibile per una esplorazione inimmaginabile: non risolve l'avversità esterna, ma rende sicuri, vince la paura, perché sa suggerire una via percorribile per quanto ardua. Se c'è qualcosa che può contrastare lo scoramento di questa epoca è la presenza di qualcuno più avanti nel cammino che si faccia nostro compagno e nelle cui orme possiamo posare il piede, procedendo così "dietro a le poste de le care piante"». Questo è il senso profondo, in questa fase della mia vita, del mio impegno politico. La speranza di aiutare chi abbia voglia di farsi accompagnare lungo una strada di trasferimento di competenze in un periodo nel quale non bisogna avere paura.