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03 ago 2020

Lo stato di eccezione

di Luciano Caveri

Non bisogna mischiare le mele con le pere ed è quanto è avvenuto al Senato con la discussa manifestazione che criticava la scelta di prorogare l'emergenza "coronavirus" sino ad ottobre. Ha avuto il difetto terribile di apparire e purtroppo alla fine di essere nella percezione un'assise di negazionisti della gravità del virus e ben sappiamo come questa idea si stia diffondendo con molte variabili, persino di stampo complottista. Non si può mettere assieme un provocatore come Vittorio Sgarbi ed un giurista di peso come Sabino Cassese e cosa c'entrasse il cantante lirico Andrea Bocelli, che ha detto scemenze, non l'ho capito e la scelta di Matteo Salvini di non portare la mascherina è stato un messaggio sbagliato, proprio per il seguito che ha. Il tema vero - e Cassese lo ha fatto - sono i poteri che derivano dallo "stato di eccezione", mascherato dalle emergenze.

Ne scriveva ormai parecchio tempo fa - era il 2017 e l'emergenza era il pretesto della Spagna per schiacciare i catalani - il mio amico occitano Mariano Allocco, ed il "covid-19" non era neppure all'orizzonte: «Nel 1922 Carl Schmitt definì il Sovrano "colui che decide in stato di eccezione", il termine ora indica provvedimenti eccezionali presi in periodi di crisi e che vanno compresi alla luce dell'antica massima secondo cui "necessitas legem non habet". Lo "stato di eccezione" nel secolo scorso accompagnò le derive che portarono ai totalitarismi. Non è un diritto speciale, è la sospensione più o meno modulata del diritto e ora si presenta sempre più come tecnica di governo attuata con l'estensione man mano crescente dei poteri dell'esecutivo attraverso l'emanazione di decreti e provvedimenti. L'esercizio di questa prerogativa erode necessariamente la democrazia, a Roma l'attività legislativa si fa sempre meno significativa, mentre sui monti il potere decisionale dei consigli comunali è ormai un simulacro di quello che era alcuni decenni fa. Lo "stato di eccezione" sta entrando nell'ordine giuridico partendo da un principio secondo cui la necessità caratterizza una situazione singolare in cui la legge perde la sua potenza e man mano la necessità sta costituendo il fondamento e la sorgente della legge imponendo lo "stato di eccezione". Il diritto non ammette lacune e se il giudice deve emettere un giudizio anche in presenza di vuoti legislativi, per estensione quando emerge una lacuna nel diritto pubblico il potere esecutivo ha l'obbligo di porre rimedio: è lo "stato di eccezione" che sta affermandosi. Leggi non scritte, quelle del mercato, stanno prevalendo sul diritto che reagisce di conseguenza, ma è in posizione di difesa denunciando la fragilità che caratterizza l'Occidente. Nello "stato di eccezione" la decisione sospende o sorpassa norme, ritualità, tempi e procedure che in democrazia sono sostanza». Nella Storia troppo spesso è stata la premessa a svolte autoritarie più o meno gravi. Io stesso aggiungevo allora di come la crisi economica, la minaccia islamista e quella criminale, la rapidità di un mondo digitale, la partecipazione popolare calante, un crescente analfabetismo di ritorno nei cittadini ingenerino questa assuefazione alla eccezionalità fatta di decisioni d'imperio non più mediate dagli ordinari strumenti democratici. La pandemia ha fatto il resto. Scriveva a marzo, quando Giuseppe Conte agiva a Parlamento chiuso con ordinanze a raffica, Alessandro De Angelis su "Huffpost": «Non è un problema di comunicazione, c'è una rottura istituzionale sullo stato di eccezione per cui sta diventando tutto lecito: l'annuncio, senza una conferenza stampa con qualche domanda, senza un coinvolgimento di tutte le forze politiche (le opposizioni avevano chiesto proprio queste misure due settimane fa), senza mettere in conto un passaggio parlamentare in una seduta straordinaria, come invece sta facendo Emmanuel Macron in Francia. La sensazione è che si sta producendo in Italia, almeno come tendenza del momento, un "esperimento" politico e sociale non irrilevante: la democrazia come regime di un Capo, chiamato a gestire l'emergenza, in un clima in chi critica il governo è un sabotatore della patria di fronte al numero crescente dei morti, mentre è legittima la propaganda da Grande Fratello». Così rincara la dose: «E' un crinale molto delicato, su cui nutrire preoccupazioni se non ci fosse la figura del Presidente della Repubblica, e se questa figura non fosse Sergio Mattarella, che ha dato più volte prova di equilibrio, prudenza, determinazione. E che sicuramente sarà garante della necessaria determinazione nelle scelte, ma anche della tutela dell'equilibrio istituzionale, coniugando democrazia ed emergenza. Di strappi ne sono stati fatti abbastanza e solo a bocce ferme, vale a dire a emergenza superata, sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza delle misure prese, a partire dal ricorso, per la limitazione delle libertà fondamentali, al decreto della Presidenza del Consiglio, sottratto ad ogni controllo preventivo da parte dal Capo dello Stato e del Parlamento. E senza neanche una condivisione politica anche con le opposizioni». Ebbene, questo è il nocciolo della questione. Per fare le cose in fretta ci sono strumenti a disposizione diversi e il decreto legge spicca fra tutti e le ordinanze dei presidenti di Regione possono quasi sempre essere sostituite dalla rapidità della legislazione regionale. Questo soprattutto quando il virus sta dando respiro. Anche se - lo ribadisco - questo non ha nulla a che fare con l'obbligo di mantenere misure serie per evitare i rischi esistenti del ritorno della malattia, che resta pericolosissima e chi dice il contrario sbaglia. Ma le regole della democrazia devono restare il caposaldo e le emergenze sono da dosare con il contagocce. Sarà pur vero che nella proroga ad ottobre c'è qualche timida eccezione ai superpoteri del premier Conte, ma se ne poteva fare a meno.