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19 giu 2020

Riflettere attraverso un piccolo giornale

di Luciano Caveri

"Il Foglio" è un quotidiano di nicchia, fondato da Giuliano Ferrara e diretto oggi da Claudio Cerasa. Sulla scena da 25 anni ha seguito spesso l'umoralità del fondatore, uomo di vasta cultura che dalla Sinistra comunista finì berlusconiano con ruoli di Governo. I suoi eccessi possono dispiacere (come la clamorosa campagna antiabortista), ma nessuno può negare un'intelligenza vivissima ed interessi vari, compresa la capacità di scelta di collaboratori, proseguita dal suo successore, di diversa estrazione politica e culturale, che fa del giornale una nave corsara ricca di commenti interessanti. Un caso di queste ore viene dall'incrocio di tre articoli. Il primo è, nella sua rubrica, di Adriano Sofri, intellettuale discusso, che è stato in galera come mandante dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi.

Sofri torna su un tema interessante e cioè l'utilizzo del termine "razza", come non mai di attualità con la catena di manifestazioni causate dalla morte di un uomo di colore, George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis. Ricorda Sofri: «Le razze non esistono, i razzisti sì. Nell'attuale temperie i verdi italiani, sulla scia dei loro fratelli molto maggiori tedeschi, ripropongono di togliere la parola "razza" dalla Costituzione. Sia nella Costituzione italiana che in quella tedesca (1949), la parola figura all'articolo 3. Così nella italiana: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E nella Legge fondamentale tedesca: "Nessuno può essere svantaggiato o favorito a causa del proprio genere, provenienza, razza, lingua, patria e origine, convinzioni, opinioni religiose o politiche. Nessuno può essere svantaggiato a causa della propria disabilità". In ambedue i casi, gli estensori degli articoli sapevano bene che cosa scrivevano, e già allora c'era chi auspicava che la parola "maledetta" venisse espulsa dalla Carta, l'Unione israelitica in Italia, per esempio. La si volle tenere non per ammettere l'esistenza delle razze, ma per serbare la memoria dell'uso abominevole che ne era stato appena fatto, e che era stato l'essenza intima del nazionalsocialismo e del fascismo, regimi che si erano rivendicati razzisti. La parola "razza" sta in quelle righe propriamente come un "monumento", una memoria e un monito. Chi la vorrebbe espunta sottolinea soprattutto che le razze umane "non esistono", e che la ricerca scientifica l'ha dimostrato. Quando anche non l'avesse dimostrato, o ne fosse in futuro smentita, nessuna discriminazione fra gli esseri umani ne sarebbe giustificata, nessuna gerarchia di superiori e inferiori, di dominatori e di schiavi o annientabili. Ci sono buone ragioni, e soprattutto buoni sentimenti, in ambedue le posizioni, sulla conservazione o la cancellazione della parola. In Francia due anni fa l'Assemblea nazionale votò l'eliminazione della parola dal primo articolo della sua Costituzione. Prima di oggi, l'ultima volta se ne discusse in Italia, ancora due anni fa, quando il candidato poi eletto alla presidenza della regione Lombardia, Attilio Fontana, sentenziò tranquillamente che l'immigrazione metteva a repentaglio la razza bianca. Così: "La razza bianca". Lo avvertirono che conveniva scusarsi, lo fece, è lì. Anche Liliana Segre si pronunciò in favore della cancellazione della parola dalla Costituzione. Altri pensano che sia bene non toccare la Costituzione nella parte dei princìpi fondamentali. E che la parola "razza", pur diversa dalle altre cui è accompagnata - sesso, lingua, religione eccetera infatti esistono - sta bene dove sta, a ricordare che ci furono le guerre e le stragi e le umiliazioni colonialiste, le leggi razziste, i Manifesti della Razza, le razzie, le deportazioni, la Shoah, e che c'è ancora la tranquilla frase distratta sulle minacce alla razza bianca. Nell'Italia fascista si proclamava che "E' tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti". Oggi si cerca di ricordare, perfino per legge, il dovere di essere antirazzisti. Meglio tenerla, la parola maledetta. Un problema maggiore ce l'hanno le lingue che hanno creduto, preteso, che la parola "razza" fosse per loro innocente, non soverchiata dal peso dei trascorsi razzisti fascisti, e ne hanno fatto un alibi più losco di quello dell'"italiano brava gente". Involontariamente rafforzato dall'illusione delle minoranze discriminate di poter ricorrere al termine "race" per rivendicare la propria identità». Concordo. E sulla stessa edizione in scia con il tema, ma riguardo all'abbattimento delle statue di personalità del passato, ci sono due fulminanti articoli, di cui vorrei citarne due passaggi che mostrano la ricchezza di stimoli del piccolo quotidiano. Scrive Annalena Benini: «Se Cristoforo Colombo rappresenta il genocidio e la sua statua va incendiata e buttata nel lago per dimostrare che #blacklivesmatter, allora questa furia cieca diventa una minaccia all'intelligenza, oltre che una beffa verso chi ha fatto vere rivoluzioni contro veri dittatori. Una beffa anche a Winston Churchill, la cui statua è stata impacchettata e nascosta a Londra per proteggerla dalle tentazioni distruttrici dei manifestanti, o per metterla in condizione di non nuocere al mondo della cancel culture e della rettitudine estrema (e così violenta): per non offendere nessuno bisogna che Churchill, che ha resistito a Hitler, e poi lo ha battuto, con i russi e con gli americani, che ha vinto il nazismo, venga cancellato dalla storia? Sì, perché "era un razzista", come hanno scritto sulla sua statua. Farebbe anche ridere, perché certo in tutta coerenza si potrebbe arrivare a pretendere prima il nascondimento e poi l'abbattimento del Colosseo, che venne costruito in condizioni di totale sfruttamento della manodopera ed è stato usato anche per l'orribile spettacolo delle lotte fra gli schiavi. La distruzione della Cappella Sistina, i cui affreschi celebrano una specie di suprematismo bianco. Farebbe ridere questa deriva scema della protesta, se non ci fossero la ferocia e l'intimidazione. E quindi anche gli intimiditi, disposti a tutto per non essere chiamati traditori. Decisi a schierarsi sempre dalla parte giusta (come tutti quelli che si sono uniti con entusiasmo all'attacco contro J.K. Rowling, al grido di "transfobica". Disposti a insultarla e augurarle la morte per difendere i diritti delle minoranze che lei non ha offeso). Farebbe ridere, se non venisse in mente anche quella volta in cui abbiamo coperto con pannelli bianchi le statue di marmo dei corpi nudi ai Musei Capitolini perché stava arrivando il presidente iraniano e non bisognava farlo arrabbiare e lui ha ringraziato dell'ospitalità, in nome della quale abbiamo rinnegato chi siamo. E per che cosa abbiamo amato, mentito, lottato, sofferto. Tutta la fatica fatta per arrivare qui, e per ricordarci da dove veniamo. Tutto il godimento, e anche un po' la noia, nel riguardare "Via col vento", e tutti i film di Woody Allen che a un certo punto non si potevano guardare più, perché lui era un mostro e quindi immediatamente mostri anche noi, se non desideravamo tirare giù la sua statua con una corda e buttarla nel lago e poi bruciare tutti i dvd. Farebbe ridere, se diventare scemi non fosse pericoloso». Ultimo stimolo sul tema di Salvatore Merlo con un intervistato: «E' non evidente che abbattere una statua è sbagliato e grottesco quando si tratta di tiranni. E' il derivato di una inconsapevolezza», dice. Ed aggiunge: «"Mi colpisce il silenzio della sinistra più senziente". Successore di Alessandro Natta alla presidenza del Pci, direttore dell'Unità", deputato ed ancora prima partigiano con il nome di battaglia "Alessio", a novantatré anni Aldo Tortorella è oggi forse l'ultimo togliattiano d'Italia. "Quando venne il 25 luglio del 1943 ricordo che partecipavo a un corteo per la cacciata di Mussolini. Eravamo in Italia, il paese di Dante, Leopardi, il paese della grande musica... eppure dalle finestre venivano giù le teste marmoree del Duce". Furia popolare, ansia di rivalsa dopo una guerra e vent'anni di dittatura, concitazione. Tutte cose ovvie, umane. "Ma noi comunisti, i dirigenti del Pci, quando la guerra di Resistenza fu vinta ci siamo guardati bene dal togliere di mezzo i simboli del passato. E qualcuno ci criticò anche. Però a quel tempo dicemmo che quei simboli rappresentavano una certa parte della storia su cui bisognava riflettere, anche per condannare gli errori". E insomma lasciando in piedi l'obelisco del Foro italico, quello su cui ancora oggi a Roma è leggibile la parola "Dux", quello stesso obelisco che oggi a distanza di settant'anni Laura Boldrini e altri vorrebbero abbattere, venne invece rifondata la nazione, sulla base di rinunce, accettazioni e compromessi non fanatici. Era la sinistra nazionale. La sinistra repubblicana. Fu Togliatti a promulgare l'amnistia, a votare il Concordato, e senza cancellare quel passato contro il quale pure aveva combattuto armi in pugno». E più avanti lo stesso Tortorella: «"Restando beninteso che la storia non è solo grandezza ma anche orrore. E che la storia dell'occidente è stata anche storia di oppressione, razzismo e colonialismo". Ma grandezza e orrore convivono, sono quello che siamo. E abbattere una statua, gettarla in mare, rimuovere il passato è più facile che ragionare su se stessi. Inginocchiarsi e chiedere scusa non significa capire, anzi, spesso è il contrario. Nelson Mandela, dopo l'Apartheid, in Sudafrica, promosse una commissione sulla "verità e la riconciliazione", perché ben sapeva, proprio come Togliatti, che il contratto sociale si basa su un chiarimento razionale intorno al passato. Non sulla sua rimozione orwelliana. E allora che fine ha fatto la sinistra? "Non ragiona", dice Tortorella. Giovedì scorso, Matteo Salvini ha irriso con una certa efficacia, il tic iconoclasta. E forse non è difficile immaginare che domani "CasaPound" possa fare un picchetto in difesa della statua di Montanelli. Appropriandosi di qualcosa che non gli appartiene. Davvero la sinistra riformista può consentirlo, lasciandosi travolgere dal fanatismo? "Lo storicismo era il Novecento", dice Tortorella. Quello di oggi è un altro mondo. "Una società che vive il momento, non sa niente del passato e non si pone il problema dell'avvenire"». Parole come macigni.