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03 mar 2020

"Coronavirus" e i molti problemi (turismo valdostano compreso!)

di Luciano Caveri

L'altro giorno ho fatto uno speciale radiofonico di un'oretta dedicato al "coronavirus" e già mi aveva colpito, nelle dichiarazioni del presidente degli albergatori, Filippo Gérard, il fioccare di disdette dei turisti, diventate in queste ore una vera ecatombe. Ho cercato di essere equilibrato fra il freno alle paure e l'acceleratore di comportamenti corretti. Niente di che, naturalmente, ma con la consapevolezza che tanto si parla di deontologia professionale ed invece il mondo del giornalismo e più in generale della comunicazione è costellato di pessimi esempi di fronte alle emergenze. Il peggio sono i contenitori televisivi del pomeriggio che viaggiano sul terreno minato di una miscellanea fra intrattenimento e giornalismo spicciolo, alla caccia di un sensazionalismo da rotocalco scandalistico. Sarebbe ora che si capisse chi fa che cosa, specie quando gli argomenti da trattare non sono sordide storie di cronaca nera o rutilanti vicende di cronaca rosa ma emergenze sanitarie come il virus più famoso del mondo.

Mi fa piacere che al capezzale dei rischi della cattiva informazione sia sceso in campo, chiamato dall'Ordine dei giornalisti, il decano dei divulgatori scientifici Piero Angela, che con lucidità ha inquadrato la situazione: «Faccio questo lavoro da 68 anni, ma mai mi era capitato di raccontare una situazione simile». E ha aggiunto: «Ci sono due aspetti, come sapete: il contenimento dell'infezione e le conseguenze economiche. Non invidio chi deve prendere decisioni importanti in questi momenti. Sembra che il virus sia meno virulento di come appariva inizialmente in Cina. E poi si è visto che il contagio sì, esiste, ma come è stato detto dal professor Ricciardi, il 95 per cento dei contagiati guarisce. Si tratta di una situazione allarmante, ma i dati dicono che ogni anno nel mondo ci sono da trecento a seicentomila morti per influenza». «Bisogna essere ragionevoli e avere buonsenso», ha detto il decano dei divulgatori scientifici, per osservare ancora: «credo che questa situazione che si è creata in Italia abbia spaventato le persone che sono all'estero. Si è creata una psicosi verso l'Italia, le persone cancellano le prenotazioni per i viaggi. Improvvisamente questo grande clamore che si è sollevato per questo contagio ha creato una situazione tale per cui dobbiamo essere molto responsabili. Tutti voi fate molto bene il vostro lavoro, bisogna dire tutto quello che accade. Ma certamente io non sono così allarmato, spero che l'emergenza si esaurisca e rientri con la buona stagione e che nel frattempo si trovi qualche vaccino o qualche farmaco. Il senno di poi ci dirà se queste misure intraprese erano eccessive oppure in realtà hanno preservato da un dilagare molto forte. Il mio Paese deve essere preservato anche da un altro contagio, cioè di quello di dare l'idea agli altri di un malato, di un posto di dove non si può più andare». Va aggiunto come il bombardamento di questi giorni sia un singolare mix fra storie familiari e cronache globali, esempio di quel "glocal" ormai fuori moda che dimostra come neanche l'eremo più nascosto sfugga alla mondializzazione. Ognuno di noi, di fronte a questo "covid-19" che potrebbe essere il titolo di uno di quei film di fantascienza che raccontano tragedie che minacciano l'umanità, ha ormai delle esperienze personali. L'ultima mia è quella di mia nipote Sophie, brillante studentessa a Segovia in Spagna, che si trova sotto osservazione perché un suo compagno di studi è tornato da Milano nelle scorse ore e, preso da un febbrone da cavallo, è risultato positivo al tampone ed è ora in ospedale. Penso a mio figlio Laurent con l'Università chiusa a Piacenza, perché vicina alla celebre "zona rossa" della Lombardia, epicentro di uno dei focolai della malattia e all'altra mia figlia Eugénie, che era rimasta bloccata a Bergamo, perché era sconsigliato prendere i treni per tornare a casa. Per il piccolo novenne Alexis l'impegno, assieme alla mamma, è quello di non fargli venire l'ansia, visto quanto si parla del virus e quanto anche fra bambini si parli dell'argomento. Ho letto, ad esempio, questo passaggio utile in un articolo sul sito della "Fondazione Veronesi": "Per parlarne a un figlio, lo psicoterapeuta Alberto Pellai ha messo nero su bianco quanto raccontato alla sua bambina di undici anni: «La paura non posso cancellarla, ma posso dirti che, mentre è giusto sentire l'allarme per qualcosa che ci minaccia, dobbiamo imparare a prendere le cose nella giusta misura - ha esordito il ricercatore del dipartimento di scienze biomediche dell'Università di Milano - del "coronavirus" devi sapere che è un nuovo agente di infezione che per la prima volta sta colpendo gli esseri umani, che ha contagiato migliaia di persone in Cina e ora è presente anche nel nostro Paese e che ci sono persone infettate che sono morte. Detto questo, è giusto che tu abbia ben chiaro che il contagio al momento ha colpito un numero molto ristretto di persone, che la malattia è localizzata in alcune zone precise e che, nei focolai identificati, gli esperti hanno preso tutte le precauzioni possibili per non farlo uscire da lì». Secondo Pellai, autore con Barbara Tamborini del libro "La bussola delle emozioni. Le emozioni spiegate ai ragazzi" (Mondadori) in cui affronta il tema della paura dei bambini, è efficace descrivere il "coronavirus" «come un animale in trappola: ecco perché gli abitanti di alcuni Paesi e città non possono uscire dal loro territorio. In questo modo si evita che il virus raggiunga altri luoghi». Importante è inoltre far notare ai più piccoli la loro maggiore capacità - stando a quanto osservato finora - di resistere all'attacco del virus. Dunque «per te e per tutti i tuoi coetanei, non rappresenterebbe una reale minaccia»". In fondo la più a rischio della mia famiglia è la mia coriacea mamma novantenne, che però vista l'età ormai vive in una sorta di quarantena a casa e dunque è piuttosto protetta dai rischi di un contagio. Io stesso, oltre agli impegni d'informazione di cui dicevo, leggo ogni giorno sulla posta aziendale i comunicati della "task force" creata in azienda con le regole da applicare, compresi formulari per gli ospiti da intervistare che devono dichiarare di non provenire dalle zone a rischio. Personalmente faccio tutto quello che faccio in altri periodi, cercando di non farmi condizionare da certi eccessi, tipo alcuni fissati che anche da noi si vedono in giro con la mascherina, che non sono solo il segno di paranoie individuali, ma forse di una mancanza di educazione a certe circostanze. Trovo sempre che spetti al pubblico e poi all'educazione familiare fornire alcune essenziali nozioni che ci diano consapevolezza di come affrontare certe situazioni delicate che si possono presentare non solo sotto la forma di un'epidemia.