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29 ago 2019

I libri fanno pensare

di Luciano Caveri

I libri, quando esprimono pensieri arricchenti di autori penetranti che ci regalano spunti interessanti con le loro parole, restano, in questi tempi difficili, un punto di riferimento. Abbiamo vissuto e forse stiamo ancora vivendo momenti di disprezzo nei confronti della cultura nel nome di una confusa idea - purtroppo non nuova - che il sapere sia un avversario del fare. Questo fastidio per gli "intellettuali" è una specie di piovra che alimenta antichi fantasmi. Come una luce, di fronte a certi momenti bui, sta appunto in chi elabora idee e non è detto che si debba per forza essere sempre d'accordo con loro, perché quel che conta è lo stimolo che deriva dal confronto. Segnalo un libro - edito da Solferino - "Osa sapere" con sottotitolo "Contro la paura e l'ignoranza" di Ivano Dionigi, presidente di "AlmaLaurea" e della "Pontificia Accademia di Latinità", già Rettore dell'Università di Bologna, che perora a fondo le ragioni della Scuola e della Cultura con questo assunto: «Servono non opinioni (dóxai) ma, direbbe Empedocle, "pensieri lunghi" che facciano da sutura tra tanta frammentazione dei saperi, da connessione tra i vari punti, da relazione tra le singole parti. I conflitti sono sempre di ignoranza, mai di cultura. La prima difesa della democrazia è la difesa dell'intelligenza».

Ma lo fa da elementi di complessità come questo: «Se poniamo mente al fatto che ogni minuto nascono cinquantasette africani, trentadue cinesi, ventinove indiani e meno di un italiano (per l'esattezza due ogni tre minuti) e che meglio di noi non se la passano anche gli altri Paesi europei, capiamo bene che tra un secolo, se e quando sarà fatta l'Europa, gli europei non ci saranno più. La sola Nigeria dagli attuali centottantaquattro milioni di abitanti passerà a quattrocento nel 2050; allora un abitante del mondo su quattordici sarà europeo: all'inizio del Novecento lo era uno su quattro. Questi numeri ci dicono che - ai fini della nostra stessa sopravvivenza - gioverà sia accantonare i nostri primati sia stipulare un'alleanza tra il vecchio Occidente e i giovani Oriente e Sud del mondo». Mi conforta in questo la sua visione europeista: «In varietate concordia ("Unità nella diversità") scelto dal Parlamento europeo il 4 maggio 2000 per segnalare l'intradiversità delle lingue (per citare solo le neolatine: francese, spagnolo, italiano, portoghese, rumeno) nell'interdiversità delle culture (mediterranea, nordica, orientale); un motto, quello europeo, ben più rispettoso e problematico del motto nazionale degli Stati Uniti d'America, "E pluribus unum" ("Da molti, uno")». Ma anche il richiamo ai comportamenti: «Una delle cause principali della volgarità attuale è l'incuria delle parole, che necessita di una ecologia linguistica non meno urgente di quella ambientale; e parlare scorrettamente, diceva Platone, oltre a essere una cosa brutta in sé "fa male anche all'anima" (Fedone)». E in questo la cultura classica e umanistica resta nei suoi ragionamenti un faro: «Già Tucidide, alla vigilia della guerra del Peloponneso, individuava nell'uso ingannevole della parola il sovvertimento della vita civile: "pretesero persino di cambiare la consueta accezione delle parole in rapporto ai fatti, sulla base di ciò che ritenevano giustificato. La temerarietà sconsiderata fu ritenuta coraggiosa solidarietà di partito; la prudente cautela, speciosa vigliaccheria; l'equilibrio, ammantata codardìa; l'assennatezza in tutto, inerzia verso tutto; l'impetuosa impulsività fu accreditata a un temperamento virile; il riflettere con calma, in nome della sicurezza, a suadente, pretestuosa riluttanza" (La guerra del Peloponneso)». E Dionigi aggiunge due pensieri che illuminano la scena. Il primo: «La tradizione intesa con Mahler come salvaguardia del fuoco, non adorazione delle ceneri; con Goethe, come eredità da conquistare e non già come un patrimonio inerte da custodire; con i classici, come sapere affidato alla "lampadoforìa", la trasmissione ininterrotta della fiaccola di generazione in generazione, e non - direbbe Bacone - alla "tremula fiaccola del singolo". La nostra preoccupazione deve essere la stessa di chi ci ha preceduto: farci carico di chi verrà dopo di noi. L'Università ci fa il dono di entrare in quello che Agostino chiamava "il palazzo della memoria", e quindi di porci in relazione con tutto ciò che siamo; con l'eredità della storia, che ci soccorre nel capire e nel cambiare, e che, mentre ci preserva dall'essere "gli uomini del momento" (Chateaubriand) o "i servitori della moda" (Nietzsche), ci consente di distendere l'arco del tempo e di guardare contemporaneamente avanti e indietro. E' questa percezione del tempo e del continuum che -oltre a farci partecipi di una grande comunità che non muore - ci permette di "pro-gettare", proiettarci in avanti e guardare al futuro, e ci preserva dall'ubriacatura del nuovismo e dall'abbaglio di credere che il presente si riduca alla novità e che la novità esaurisca la verità. Quella, la verità, non vive dell'oggi e non è alleata del presente, ma vive del domani ed è alleata del futuro: perché la verità ha sempre da essere». Il secondo: «La sfida è consegnata non solo alle Università, ma anche e ancor prima alla Scuola: palestra dei fondamenti del sapere e crocevia del futuro, se crediamo con Friedrich Nietzsche che a essa spetti il compito di formare "cittadini" e non semplicemente utili "impiegati". Il che oggi significa formare cittadini digitali consapevoli, come essa ha fatto in passato prima con i cittadini agricoli, poi con i cittadini industriali e infine con i cittadini elettronici». Applausi e un consiglio per una buona lettura.