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17 apr 2019

Fenomenologia di Whatsapp

di Luciano Caveri

La nostra vita digitale è ormai, per comune esperienza, fatta di gioie e dolori. Ma ogni reazione ad una presenza incessante si urta con la necessità di impiego di queste nuove tecnologie, sempre che si voglia avere una vita sociale. Si può anche giocare all'eremitaggio, ma è una scelta estrema e chi si vanta banalmente di non usare applicazioni di largo consumo ormai passa per picchiatello. Mi capita di dire che non sono su "Facebook" ad aficionados del "social network", che mi guardano con malcelato stupore. Ma oggi vorrei parlare di "Whatsapp", oggetto di uso comune, nato nel 2009 e fa parte proprio del colosso digitale "Facebook", che si occupa volentieri di noi e delle nostre vite profilate. Si tratta del sistema di messaggistica usato ormai da milioni e milioni di utenti in tutto il mondo, che si insinua sotto varie forme nella nostra quotidianità con irruzioni molto spesso sgradite. Una ragnatela in cui, per evidente abuso, si finisce per essere come imprigionati.

"WhatsApp" è un termine - è abbastanza intuitivo scoprirlo - che deriva dalla trasformazione dell'espressione inglese «What's up», che in italiano significa «Come va?», mischiata alla parolina "App" (che sta per "applicazione"). «Sentiamoci su WhatsApp» è ormai del tutto ordinario e si creano gruppi come se piovesse per qualunque necessità. Qui, sul telefonino dove scrivo finché la vista mi assiste, l'icona del sistema campeggia con il suo verde squillante con il simbolo di un fumetto con telefono in bianco. Dentro ci sono diverse tipologie della nuova schiavitù: oltre alla possibilità di scrivere ai propri contatti - e nel mio caso incominciano ad essere un numero che mi deve costringere ad una salutare potatura - esistono i già citati gruppi. Ne ho di vario genere, che riguardano me (tipo "figli", "politica", "amici simpatici", "compagni di scuola") e anche il bambino piccolo ("scuola", "sport vari", "catechismo"). Ogni presenza è contrassegnata anche da foto del protagonista o dal logo del gruppo ed anche su questo, giustamente, ognuno si sbizzarrisce. Personalmente ho optato per una mia foto con un delfino. Da messaggistica pura si è piano piano allargato ed oggi viaggiano immagini (compreso il profilo temporaneo che crea una piccola comunità nel segno del voyeurismo reciproco) e anche messaggi vocali o filmatini. I messaggi vocali sono una tragedia, perché titilla chi non ha capacità di scrittura o di sintesi e ti invia piccole omelie che fanno perdere tempo e pazienza. I filmatini come le foto appartengono spesso alla categoria "catena di Sant'Antonio", cui si aggiungono citazioni e spiritosaggini scritte, che ammorbano il sistema. Anche laddove dovrebbe essere usato solo per utili comunicazioni di servizio vige il cazzeggio ed il ringraziamento perenne. Uno scrive qualcosa e fioccano i "grazie - prego" e le faccine varie e, nel caso di risultati sportivi, inni di gioia e complimenti di tutti i generi. Cresce in questi casi una vera e propria carogna e l'istinto di intingere la tastiera nel sangue oppure la voglia di uscire sbattendo la porta virtuale. Ma non lo fai perché altrimenti, in privato, ti scrivono «perché sei uscito?». E in quel caso potresti dimostrarti maleducato e liberarti del peso con un "vaffa", che per altro puoi cancellare in tempo utile, ma lasciando la traccia della cancellazione a beneficio dei dietrologi. Insomma: ci vorrebbero un bon ton ed una disciplina condivisa, ma già viviamo in un tempo di eclisse della buona educazione quindi figurati. Mentre scrivo ho già ricevuto alcune faccine mattutine, due citazioni garrule e anche qualche «mi hanno detto di fare girare», che nel "far west" meriterebbero di mettere mano alla pistola ed invece getti lo sguardo e butti nel cestino.