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14 set 2018

Noi, i luoghi e la paternità

di Luciano Caveri

I luoghi restano gli stessi, ma sei tu ad essere cambiato e sono diverse anche le persone con cui ti accompagni. Ci pensavo l'altro giorno nel ristorante "da Bréan" al Col de Joux - noto quando ero bambino come il locale delle «sorelle Bréan», tre signore sorridenti e dai modi teutonici, divise allora fra cucina e sala con meccanismi di servizio perfetti - che ho frequentato in tutte le età della mia vita ed il locale sembra un museo di sé stesso, come il copioso menu da cimento gastrico. Ero piccolo quando questo ristorante nel bosco era luogo di pranzi domenicali nelle belle stagioni e mi arrivano dal passato dei flash, come le corse nel prato antistante con finto cannone, le chiacchiere dei miei genitori con gli amici sulle sdraio al sole, una mia caduta rovinosa mentre "scalavo" la paretina di roccia sovrastante i parcheggi. Poi, da ragazzo, si risaliva in moto o in macchina il colle - o con metri di neve o nelle serate estive - per andare a mangiare una cena pantagruelica con gli amici della compagnia ed era tutto un ridere e scherzare ed il trionfo erano le grappe finali ai gusti più vari.

Ci sono tornato domenica con la famiglia e, con quel pizzico di spleen romantico, mi si sono riversati addosso certi pensieri collegati con i miei ricordi, ma anche - questo è il bello della vita - come oggi io possa infine immedesimarmi negli stati d'animo e nei pensieri dei miei genitori. Nasce, a distanza, una sorta di solidarietà basata sulla comprensione di quanto all'epoca - in altri panni - non capivo in quel gioco dei rapporti generazionali e dei ruoli che vi vengono assegnati a secondo di chi siamo e che cosa rappresentiamo nel pentagramma della nostra esistenza. Mi sono commosso, l'altro giorno, quando mia moglie Mara ha pubblicato sul suo profilo temporaneo di "Whatsapp" una lunga citazione tratta da "Notti in bianco, baci a colazione" (Einaudi. Stile libero extra) di Matteo Bussola, illuminante di che cosa vorrei dire, ma lo ha già fatto lui. «Essere padre è un'esperienza crudele. Tua figlia avrà otto anni una volta sola e quattro anni una volta sola e due anni una volta sola, mentre ti trovi ad assistere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto a una serie di spettacoli per i quali non sono previste repliche. Tu fra i trentacinque e i quaranta consumi nuove esperienze, fai cose, ma ti sembra nella sostanza di rimanere la stessa persona. Mentre loro tra i due e gli otto anni imparano a parlare, a scrivere, ad articolare ragionamenti, sviluppano gusti e indipendenza di giudizio. Diventano. La cosa che non sai è che non è vero che tu resti la stessa persona. Perché mentre loro imparano la vita, tu impari a essere padre, cioè impari la tua seconda vita. Che vuol dire smettere di essere e cominciare a esserci, sapere che quel che c'è passerà presto, riuscire a cogliere la fortuna di quel sorriso tutto per te anche quando sei stanco, la bellezza di quel gioco anche se sei nervoso, la meraviglia di quei sedici chili che vogliono dormire solo addosso al tuo sterno anche quando sei devastato dalla stanchezza e daresti di tutto per dormire a pancia sotto, senza una manina che ti rovista nel naso. Il fatto è che le tue narici saranno uguali anche fra cinque anni. Quella manina invece no. E pure quella voglia di dormirti addosso se ne andrà, e tu maledirai ogni giorno che non ti sarai goduto, ogni carezza non fatta a quei capelli quando ce li avevi lì a portata, e quando lo spettacolo si sarà spostato su altri palcoscenici in cui non potrai essere presente, quando non sarai più in prima fila ma fuori dalla porta, dormirai apposta sulla schiena solo per ricordare». Già, i casi della vita mi hanno "spalmato" la paternità in un lungo arco di tempo in cui io stesso sono cambiato e oggi ho due ventenni (quasi 23 anni Laurent, da poco 21 anni per Eugénie) e un settenne, Alexis. Ed è vero come, scrive Bussola, di come si abbia una percezione sempre diversa del proprio modo di essere e di comportarsi, che diventa più consapevole con il passare del tempo. E penso con partecipazione, non avendoli purtroppo mai conosciuti, a quali sentimenti potessero avere i miei nonni paterni - René Caveri (1867-1948) e Clémentine Roux (1881-1948) che di figli ne avevano avuti otto, uno dei quali - esattamente il primo - morì appena neonato per la febbre spagnola.