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17 lug 2018

Non sprecare la chance di "Eusalp"

di Luciano Caveri

Ci sono segnali che indicano come le incomprensioni attorno ai problemi della montagna alpina da parte delle pianure e delle città siano persistenti, che sia Bruxelles come simbolo del centralismo comunitario, che siano le rispettive Capitali degli Stati che vedono le Alpi sempre più come frontiera da presidiare, e persino in certi casi i Capoluoghi di Regione come dimostra la situazione ridicola a noi vicina, con le vallate alpine piemontesi confinanti che dipendono dall'Area Metropolitana di Torino! Da una parte ci sono segnali che evidenziano mentalità confliggenti, come il ritorno dei grandi predatori quali orso e lupo, ma dall'altra anche problemi di sfruttamento delle risorse come l'acqua e le foreste che fanno gola a privati ingordi in barba ai diritti delle comunità locali. Le stesse Olimpiadi invernali del 2026 diventano occasione per candidature di fatto di città come Torino, Milano e Venezia con la montagna sullo sfondo che sembra solo terra di conquista.

C'è puzza di crescente colonialismo, cui bisognerebbe reagire con una riflessione alpina a tutto tondo, tenendo conto di un'opportunità che di questi tempi sembra essersi spenta a distanza dopo il via tra la fine del 2015 e l'inizio del 2016 della "Macroregione Alpina". La politica ha ceduto sul dossier il passo ai burocrati e lo si è visto anche, nel nostro piccolo, dallo scarso impegno politico sul tema, forse perché per alcuni non distilla voti, autentica ossessione che ammorba ogni scelta di respiro più ampio. Partiamo dall'acronimo, che a me non piace, "Eusalp", che sta - sarebbe meglio scegliere il latino che l'inglese! - per "EU Strategy for the Alpine region". Questa strategia macroregionale alpina è la quarta strategia macroregionale varata dall'Unione dopo quelle del Baltico, del Danubio e dell'Adriatico. E' una realtà geo-economica che - come da documenti ufficiali - poggia sul primato del manifatturiero e dell'artigianato, delle micro e delle piccole imprese, nell'ambito di un'area transfrontaliera assai vasta, che coinvolge 46 Regioni appartenenti a sette Stati: Italia (Lombardia, Liguria, Friuli e Venezia Giulia, Veneto, Provincia autonoma di Trento, Provincia autonoma di Bolzano, Valle d'Aosta e Piemonte), Austria, Svizzera, Francia, Germania, Liechtenstein, Slovenia. In termini numerici la Macroregione Alpina, che non è una nuova istituzione ma appunto un luogo di incontro e di decisione, copre un'area di 400mila chilometri quadrati ed investe una popolazione di 70 milioni di abitanti, con un "pil" di oltre tremila miliardi di euro, e punta sulla ricerca scientifica, sull'ambiente e sulle infrastrutture, che sono i tre pilastri dell'azione strategica: migliorare la competitività, la prosperità e la coesione della regione alpina; assicurare l'accessibilità e i collegamenti a tutti gli abitanti della regione alpina; rendere la regione alpina sostenibile ed attraente dal punto di vista ambientale. In fondo ci sono due movimenti che interessano. Ce n'è uno orizzontale, che guarda il massiccio alpino in tutto il suo sviluppo, usando il famoso esempio della cerniera, che non è una novità ma una costante millenaria di rapporti reciproci quando gli Stati nazionali neppure esistevano; ce n'è un altro che lavora su di una dimensione verticale corta che lega il versante Sud e quello Nord attraverso strumenti vecchi e nuovi di cooperazione. Entrambe le geometrie complementari, tenendo conto della vecchia "Convenzione Alpina" e dei suoi Protocolli, dovrebbero ragionare in termini di vera cooperazione territoriale senza quelle ingerenze statali in negativo che proprio sulla "Convenzione Alpina" hanno pesato come macigni con le Capitali degli Stati che in modo dirigistico e con lo stampino ambientalista mettevano il naso ovunque, anche laddove poteri e competenze erano solidamente su basi locale. Ma - lo ripeto - per ora si procede a rilento e con due gravi omissioni. La prima: le popolazioni alpine sembrano essere distanti dalla percezione della ricchezza possibile di questa vasta dimensione alpina e il coinvolgimento, fuori dalla politique politicienne e della fratellanza fra funzionari, risulta ancora minima a maggior ragione in un periodo in cui al posto di chiudere le frontiere le si vogliono murare e ciò anche per la goffaggine europea rispetto al tema "migranti", che hanno acceso paure e creato chiusure. La seconda: i montanari, cioè chi abita davvero nella zona alpina propriamente detta, guardano con curiosità come la Pianura sia stata coinvolta in una logica subalpina che può avere anche i suoi perché, ma questo significa che per i territori montani propriamente detti e facilmente individuabili con una serie di parametri scientifici ci devono essere politiche specifiche, altrimenti la strategia alpina rischia l'oblio sul punto: fare sviluppare le Alpi, specie in quei territorio più deboli, dove spopolamento, crisi demografica, privazione dei servizi essenziali, dominazione di capitali esterni rischia di creare una situazione di crisi irreversibile per le popolazioni locali. Non sarebbe logico, come in una preparazione omeopatica, che la presenza dei territori alpini e dei montanari annessi diventasse percentualmente irrisoria con uno strumento nato ab origine a loro tutela e per il loro sviluppo. So che per molti - nell'epoca della trippa più che dei neuroni - questi sembrano argomenti astratti e fumisterie, come se il "fare" fosse sospeso per aria senza avere un fondamento nelle idee e nei progetti. Invece la dimensione alpina, cioè capire come le comunità abbiano reagito in diverso modo ai medesimi problemi di affrontare, è un terreno fertile e indispensabile, perché ognuno nel proprio angolino - compresa la nostra Autonomia speciale che è creatura ormai molto fragilizzata - può farsi forte non solo attraverso l'interscambio di buone pratiche, ma facendo sistema assieme agli altri "alpini" nel rapporto con autorità europee e statali.