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04 mag 2018

Pensieri dal 68 al 77

di Luciano Caveri

Perché scrivi ogni giorno? Me lo chiedono e me lo chiedo anch'io, visto che costa fatica. Ho sempre spiegato, fatta salva ogni spiegazione narcisistica, che si tratta di una forma di impegno, che mi serve - con un diario pubblico di pensieri più o meno riusciti a cadenza quotidiana - per tenermi in esercizio e per dire la mia, anzitutto a me stesso, e per chi ha la bontà di leggermi. Ci pensavo rispetto anche al mantenimento - che talvolta considero io stesso inusitato - della passione per la politica, fatta anche da una militanza piccina piccina, dopo aver fatto esperienza ben più importanti. Non sono figlio del 1968 - inteso come processo di proteste di piazza e di elaborazione di idee dei giovani di allora - per ragioni anagrafiche, essendo all'epoca un bambino.

Anche se - per una ragionevole distanza generazionale - i sessantottini militanti li ho frequentati dovunque sia stato e ho avuto modo con loro di ascoltare tutta l'epopea degli avvenimenti del tempo, leggendo quanto necessario da fonti diverse per informarmi di quanto avvenne nel mondo, dagli Stati Uniti alla Francia sino alle grandi città italiane con propaggini attutite persino ad Aosta. Questo mi permetterà, a mezzo secolo da quei fatti, di subire con qualche consapevolezza la pioggia già iniziata di scritti e rievocazioni di quei tempi ormai distanti e direi del tutto sconosciuti ai giovani di oggi. Già quei precedenti non erano chiari neppure per noi che vivemmo le manifestazioni del 1977, culmine degli anni di piombo, strascico insanguinato di quel terrorismo che fu uno dei frutti del 1968. Mentre una parte dei sessantottini affondarono in quella violenza e gli altri coetanei iniziavano la scalata a posti chiave nella società spesso collocandosi su posizioni politiche ben diverse da quelle d'origine, noi ragazzini li scimmiottavamo fra assemblee e cortei in un clima ben diverso dall'originale, come avviene per ricopiature decontestualizzate. Tuttavia, essendo ormai il quarantennale di quei fatti, devo dire che entrambi i periodi storici - gli anni Sessanta e gli anni Settanta che mi hanno portato dall'infanzia all'età adulta - mi hanno lasciato la grande illusione mai sopita che la Politica possa e debba essere all'insegna della partecipazione. Tema in cui credo e che nel tempo ho approfondito sotto la visuale di quel filone del federalismo personalista, che è stato coltivato in Valle d'Aosta come fondamento ideologico dell'Autonomismo, sostituito da quel pragmatismo amministrativo privo di radici culturali che è sfociato purtroppo in una progressiva perdita di valori morali con fenomeni di malaffare e di sfaldamento identitario. Declino cui sarebbe bene porre rimedio prima che sia troppo tardi e forse questo periodo attuale è il punto più basso nell'impegno civico dei cittadini con scarso fervore in politica e con sfogo umorale al voto, che spero in qualche maniera invertirsi. Mi viene sempre in mente, ma ne cito solo la parte finale, come frutto della temperie della mia giovinezza quella canzone del 1972 di Giorgio Gaber, "La Libertà": «Vorrei essere libero, libero come un uomo. Come l'uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza con addosso l'entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà La libertà non è star sopra un albero non è neanche il volo di un moscone la libertà non è uno spazio libero libertà è partecipazione».

Parole che oggi sembrano retoriche, ma sono figlie di quegli anni, come me e per questo suonano ancora come un richiamo della foresta. Spero davvero che anche nella nostra piccola Valle ci possa essere un rinato desiderio di impegnarsi, di non cedere alla vacuità del mugugno, alla turris eburnea del disinteresse, alla mancanza di apprendimento di quanto utile per essere cittadini e alla scelta di seguire pifferai magici o personaggi ormai degradati che non mollano.