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03 ott 2016

La mensa e il panino

di Luciano Caveri

Ai miei tempi - ma è una drammatica storia di capelli ormai grigi - le mense scolastiche non c'erano. La prima in cui mi sono seduto era ad Aosta, vicina alle allora Magistrali, ai tempi del Ginnasio, e dunque ero abbastanza grandicello da coglierne solo gli aspetti divertenti di socializzazione e non della qualità del cibo, che mi pare in verità non fosse male, però la cosa mi importava poco: si trattava di nutrirsi. Ma, grazie ai miei figli, ho avuto dimestichezza con questa istituzione in parte con la possibilità di fruire di cuoche interne (figure mitiche per i bimbi) che sfornavano i pasti e in parte con mense in appalto che portavano i cibi per la refezione. Situazione quest'ultima certo più tristanzuola, ma si capisce anche che la logica di appalti grandi riduce i costi, anche se sulla qualità è giusto battagliare sempre, pur trovando un pelino ridicolo porre troppa enfasi sul "chilometri zero", perché altrimenti certi alimenti non li dovresti mai prevedere e non si capisce come si possa reagire alla stagionalità che pesa su una zona di montagna.

Non ricordo casi negativi da papà, essendo per altro i miei pargoli - più per merito delle loro mamme che miei - abituati a mangiare tutto senza certe maniacalità da "piatto unico" e da rifiuto di provare altro, che invece ho visto manifestarsi in certe famiglie con bimbi fermi sempre sulla solita pietanza. A parte il recente deprecabile incidente di quattro bimbi non sfamati alla mensa scolastica di Gignod, che va archiviato fra le brutte storie chiunque risulti alla fine responsabile, seguo con curiosità questa vicenda - imposta dalla giurisprudenza dei giudici di Torino - del "panino" al posto del "cibo della mensa" da consumarsi a scuola. La sentenza, in alcuni suoi passaggi è chiarissima in merito: "La refezione deve restare un'agevolazione alle famiglie, facoltativa a domanda individuale, senza potersi larvatamente imporre come condicio sine qua non per la scelta del tempo pieno. L'unica alternativa, ragionevolmente praticabile, rispettosa dell'articolo 34 della Costituzione, consiste nel consentire agli alunni del tempo pieno che non aderiscono al servizio di refezione di consumare a scuola un pasto domestico". E ancora: "L'utilizzo dello stesso refettorio, se questa è la scelta organizzativa dell'Istituto scolastico, può rendere opportuno stabilire regole di coesistenza: regole che hanno anche e, soprattutto, la funzione di mantenere chiarezza sull'ambito entro cui la ditta appaltatrice può essere chiamata a rispondere per il cibo somministrato in mensa. Che ciò porti alla divisione in due ali del refettorio o all'avvicendamento di gruppi di utenti, si tratta comunque di coesistenza e non di reciproca esclusione". Coltivo la speranza che della questione si occupi alla fine il legislatore, perché i giudici sono chiamati a tappare i buchi e non a sostituirsi a chi deve fare le norme, necessarie per porre dei paletti certi e chiari per evitare che alla fine, nella vecchia logica italica, ci siano tanti casi diversi quando pure l'interpretazione dovrebbe essere pacificamente univoca. Ho letto, anche da dichiarazioni di avvocati e genitori che hanno cavalcato la "tigre della libertà" del pasto da casa, che ci sono due ragioni di fondo: la prima è la sfiducia verso la qualità del cibo delle mense sia per le materie prime che per i metodi di cottura e riscaldamento usati sino al consumatore finale; la seconda è che si ritiene rispetto all'offerta il prezzo della mensa troppo elevato ed una fornitura familiare farebbe risparmiare. Per carità, tutte osservazioni legittime, ma devo dire che qualche dubbio ce l'ho. Del genere: chi paga l'assistenza dei bambini che portano il pasto casalingo e lo sbarazzare della tavola? Non esiste il rischio che i bambini che "mangiano tutto" alla mensa cessino di farlo con il rassicurante pasto di mammà? Se uno si mangia il trancio di pizza domestico ed il suo vicino la minestra con il farro a chi consuma un "pasto sano" non gli girano le scatole? La mensa ha anche caratteristiche - per dove sono capaci a farlo - legate a logiche di equilibrio dietetico nel fluire delle settimane: non è questo comunque un valore aggiunto? Se il cibo dev'essere in qualche modo conservato prima della consumazione del "pasto fai da te" chi deve occuparsene e con quali strumenti? E infine: dato per assodato che si parla di panino, ma in realtà il cibo può essere altro, fin dove si può spingere la logica della "schiscetta" e cioè vale anche l'eventuale richiesta di un forno a microonde per scaldare? Qualcosina forse sarà risolvibile nei capitolati d'appalto del servizio nel prossimo futuro, ma ora? La gravità sta nel fatto che, negli interstizi della sentenza, si ideologizzi qualcosa che dovrebbe semplicemente avere certezza del Diritto e dell'ancora più difficile Buonsenso.