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16 giu 2016

Lasciar perdere il Mein Kampf

di Luciano Caveri

Uno dei più grandi scoop del celebre giornalista Indro Montanelli fu, il 1° settembre del 1939, quando aveva trent'anni, la notizia per il "Corriere della Sera" dell'invasione della Polonia - triste inizio di una catena di orrori - da parte della Germania nazista. Qualche giorno dopo avrebbe potuto vantare uno scoop ancora più grande, come racconta Marcello Staglieno in un suo libro su Montanelli: "La notte del 3 settembre - quando già da otto ore Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania - viaggiando in "Mercedes" si portò in territorio polacco dove, davanti alla città di Bromberg, gli accadde d’incontrare (me lo confermarono sia Albert Speer sia Adolf Galland, che anni dopo Montanelli m'aveva inviato a intervistare) Adolf Hitler in persona".

"Il Führer, informatosi chi fosse «quel giovane alto e biondo, in borghese» che assisteva fuori dall'auto al passaggio di truppe corazzate - continua Staglieno - saputo ch'era italiano fece bloccare la propria "Mercedes-Benz", scese, gli si pose davanti e, come se avesse parlato a cinquanta milioni d'italiani, gli tuonò in faccia uno dei suoi lunghi e prolissi discorsi, per quasi dieci minuti, tutto basato sulla "guerra esterna" (…). Come Montanelli mi mostrò da un taccuino su cui aveva preso appunti che gli servirono per il libro "La lezione polacca" (1942), precisò che Hitler così aveva concluso (…): «Condurrò questa battaglia, contro chiunque, fino a quando i diritti non saranno garantiti» eccetera, eccetera. «E sai che accadde?» mi raccontava Montanelli. «Accadde che io, la notte del 5 settembre, mi fiondai a Berlino, pagai cento marchi al barista di una Stübe per chiamare il "Corriere". Borelli stava uscendo, non capì bene, ma mi disse comunque di lasciar perdere. Cadde la linea, quando richiamai non c'era più. Trovai un dittafonista, non ne rammento il nome, cui dettai a braccio una rapida corrispondenza. L'indomani, in ambasciata, mi chiama Borelli. M'aspetto da lui le più vive congratulazioni eccetera. E invece no. Mi dà del baro, del truffatore, dell'incompetente. Poi, parecchi mesi dopo, quando si convinse che avevo detto la verità, e che quel colloquio c'era stato sul serio, trasse dal cassetto tre cartelle battute a macchina, con su scritto di suo pugno con una matita rossa: "Palle!". E, pentendosene, mi chiese scusa: da allora la smise di contestarmi i pezzi. Per quello su Hitler, mi disse che la faccenda era troppo delicata per l'Italia, che in quel momento stava "in posizione neutrale" eccetera. Ma aggiunse nel suo dialetto calabrese: «Chi servi a curti mori allu pagliaru». Gliene domandai la traduzione. «Chi serve a corte muore sulla paglia». E aggiunse: «Un direttore fa i controlli e poi si trova buggerato... Che peccato per il tuo pezzo, diavolo d'un diavolo…».". Montanelli è stato un gigante del giornalismo e con il suo "Il Giornale", dal 1974 al 1994, diede - dalla sua area moderata - lezioni di stile, compreso l'abbandono del giornale contro le ambizioni politiche di Silvio Berlusconi, suo editore. Così anche a me capitava di sbirciare il suo quotidiano per leggere i suoi brucianti "Controcorrente" in prima pagina, anche se la pensavo diversamente. Condannato a morte proprio dai nazisti nel 1944, sfuggendo per un pelo alla morte, fu gambizzato dalle "Brigate Rosse" nel 1977: per dire che era un hombre vertical che sapeva sfuggire agli orrori degli estremisti. Ora, ci sarebbe davvero da chiedersi cosa direbbe Montanelli del fatto che "Il Giornale" sarà sabato edicola con, in omaggio, il "Mein Kampf" di Adolf Hitler. Scriveva ieri Matteo Sacchi nella prima parte di un articolo sul quotidiano milanese: "Un oggetto tabù, eppure un documento storico fondamentale. Un libro che fa paura e che si teme sempre possa ispirare nostalgici del totalitarismo, eppure anche un testo senza il quale diventa difficile spiegare la "Shoah" o l'attacco nazista alla Russia sovietica. Stiamo parlando del "Mein Kampf", il manifesto politico che Adolf Hitler iniziò a stendere, con l'aiuto di Rudolf Hess, in carcere, a Landsberg am Lech, dopo il velleitario (e fallito) colpo di Stato di Monaco del 9 novembre 1923. Il primo volume venne pubblicato nel 1925 (il secondo l'anno dopo) dalla casa editrice "Franz Eher" di Monaco, dopo che il direttore editoriale Max Amann pretese una riscrittura dell'elaborato, roboante e farraginoso, dell'aspirante dittatore (un autodidatta con talento per i discorsi ma scarse doti letterarie). Il testo ebbe, dopo una partenza stentata, un'enorme fortuna editoriale parallela al diffondersi del partito nazista. Giusto per fare un esempio, sino all'ascesa al potere di Hitler nel 1933 erano state vendute circa 241mila copie che superarono rapidamente il milione una volta che Hitler divenne cancelliere. E non solo in Germania". Anni fa cercai, per la medesima curiosità intellettuale, di leggere questo libro: non superai molte pagine e poi saltabeccai per farmi un'idea, considerandolo, alla Fantozzi, una boiata pazzesca. Meglio leggere altro per capire il nazismo e l'ascesa di un dittatore pazzo, come ammonimento e squarcio su di una storia collettiva che lascia ancora oggi esterrefatti. L'operazione de "Il Giornale", dunque, mi pare miope e velleitaria: più pubblicitaria che ammantata di reale spessore culturale nel pubblicare un libraccio, oggetto di culto di gente indigeribile come i neonazisti. Aveva ragione George Orwell che così si espresse sul libro in modo crudo: «Ciò che Hitler prevede, da qui a cento anni, è uno Stato da 250 milioni di tedeschi con uno grande spazio vitale (che si può estendere per esempio più o meno fino all'Afghanistan), un orribile impero senza cervelli in cui, essenzialmente, non accade nulla a parte una continua formazione di giovani uomini per la guerra e l'infinito allevamento di fresca carne da cannone».