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03 giu 2016

Le ombre

di Luciano Caveri

Vedere la propria ombra riflessa è un momento divertente nelle scoperte dei bambini. Non che me lo ricordi su di me - capita infatti quando si è troppo piccoli per averne memoria! - mentre ricordo bene quegli attimi sui miei figli, a naso dire che dovrebbe essere avvenuto qualche mese dopo aver compiuto un anno. Quella roba scura che ti sta vicina e si sposta con te è oggetto di curiosità e pure di qualche inquietudine. Fino a che, guarda che ti riguarda, anche il bimbo mette a fuoco il meccanismo, che diventa familiare e si trasforma in occasione di gioco. Ricordo, invece, benissimo quando l'amata zia Eugénie mi fece scoprire lo straordinario mondo delle ombre cinesi nella versione casereccia, dapprima mostrandomi i personaggi sui muri e poi insegnandomi la postura delle mani e soprattutto delle dita nelle configurazioni più semplici, tipo il sempreverde coniglio.

Vista la formazione umanistica, le ombre le ho poi collegate con l'immaginifico mito della caverna di Platone. Ci sono degli uomini prigionieri in un antro oscuro, costretti a guardare solo le ombre proiettate sulla parete di fondo dalle cose reali e dagli uomini che passano davanti all'entrata, illuminati da dietro da un gran fuoco. I prigionieri non hanno altro che queste ombre e quelle voci per ragionare sulla realtà, e non hanno la minima idea di come siano fatte veramente le cose: così, legati alle apparenze, anche gli uomini si convincono che impressioni fugaci - ombre appunto come simulacro - siano il mondo. L'allegoria prosegue descrivendo un evento eccezionale: uno dei prigionieri, riuscito a liberarsi, getta lo sguardo fuori dalla caverna e vede il mondo reale, illuminato dal Sole; tornato a liberare i prigionieri delle ombre, non viene creduto e viene ucciso. Al centro della storia troviamo il cambiamento radicale di prospettiva che separa il primo tipo di conoscenza dal secondo; nel prigioniero liberato vediamo il filosofo, che giunge con il pensiero alle verità razionali, ma non riesce a comunicare con chi giudica solo attraverso quel che risulta dai suoi sensi. Un racconto pregno di simboli, sempre utilizzabili, quando la realtà diventa in fondo qualche cosa di artefatto. Ma le ombre le trovi poi, in tutto il loro sfuggente fascino, nella realtà della vita, che siano i chiaroscuri di un sottobosco, il misticismo luce-ombra della navata di una chiesa, i volti delle persone che mutano con il gioco delle ombre e molte altre situazioni. Così racconta il poeta simbolista belga Émile Verhaeren (1855-1816) nel suo "Les ombres":

Trouant de tes rayons sans nombre Le feuillage léger, Soleil, Tu promènes, comme un berger, Le tranquille troupeau des ombres Dans les jardins et les vergers. Dès le matin, par bandes, Sitôt que le ciel est vermeil, Elles s'étendent Des enclos recueillis et des humbles maisons. Leur masse lente et mobile Ornent les toits de tuiles Et les pignons; Les angélus des petites chapelles D'une voix grêle les rappellent ; Midi les serre en rond Autour des troncs. En petits tas, elles prolongent leur sieste Jusqu'au moment où s'animent les champs: L'heure sonnant alors joyeuse et preste Les disperse sur le penchant Des talus verts et des collines. Déjà les brouillards fins tissent leurs mousselines Fines, Mais les ombres se ravivent encor Et s'allongent et s'étalent dans le décor Et le faste sanglant des fleurs et des fruits rouges, Et ne rentrent qu'au soir où plus ni vent ni bruit Ne bougent, Toutes ensemble, au bercail de la nuit".