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28 ott 2015

I rischi della convegnite

di Luciano Caveri

La gestione del tempo della propria vita è una questione sempre interessante. Genere: quanto si dorme in media, quanto tempo passiamo seduti a tavola, quanto spazio dedichiamo allo sport, quanto agli affetti familiari e via di questo passo. Mi è capitato di leggere, toccando legno e non solo, articoli in cui c'è chi ha calcolato in maniera millimetrica una ripartizione vera e propria delle nostre attività da viventi. Da defunti resta il mistero, per cui meglio non avventurarsi. Un dato interessante è capire - vittime della modernità e dei suoi usi e costumi - come si sta evolvendo una forma sempre in voga, pur con qualche dimagrimento dovuto alla crisi economica (lo si vede ad esempio dal centro congressi di Saint-Vincent dove ormai i convegni sono una rarità), del convegno. Termine che viene dal verbo ormai desueto "convenire" (che significa anche "radunarsi"), anche se la parola "convegno" nell'uso più attuale è - come dimostra "convegnista", rinvenuto in italiano a partire solo dal 1942 - una creatura abbastanza recente. Così come è recentissimo l'uso scherzoso della patologia nota come "convegnite", vale a dire il rischio reale dell'abuso da convegno.

Mi ha fatto ridere un giorno il giornalista Beppe Severgnini, che pure ha una vivace attività di partecipazione ai convegni, perché anche questo fa parte delle attività di giornalisti-scrittori di grido, quando si è lasciato scappare: «Posso dirlo? Meno convegni e più fatti». La trovo una straordinaria sintesi. Eppure il convegno "tira" ancora con formule che più o meno sono quelle ampiamente rodate. C'è un'accoglienza, c'è una sala più o meno grande, un palco allestito a seconda dei gusti e delle finanze, un insieme di oratori a rotazione. Si possono immaginare, come proiezione dei cambiamenti, l'uso chic di videoconferenze da molto distante, filmati che arricchiscono il contesto, uso di proiezioni con computer che accompagnano le parole dell'oratore, palchi spesso simili a studi televisivi e via di questo passo. C'è persino oggi la possibilità - che mischia le carte mica da ridere - di prevedere un "hashtag" (quella sorta di etichetta che riporta ad uno stesso soggetto la discussione sui "Social") che consenta a chi è fra il pubblico di interagire con la eventuale discussione, al di là dell'ordinarietà. Ma in realtà "se non è zuppa è pan bagnato". Il format, per quanto reso sofisticato ed innovatore, resta grossomodo lo stesso. C'è un palco e chi parla e conduce e c'è un pubblico con diversi gradi di passività. Ho già raccontato come a Quito, in un convegno sulla montagna, il torpore venne scosso dagli indios che distribuirono al pubblico, che poi masticò a lungo il bolo come dei bovini, foglie di coca, che tutti accettarono nel nome del relativismo culturale. Fatto certo è che io ho partecipato a centinaia di convegni di vario genere, spesso come coprotagonista dell'evento, e trovo che ci si debba sforzare di trovare qualche cosa di nuovo. Personalmente mi sono piaciuti in passato gli "atelier" dei "Gal" - costola dei fondi comunitari agricoli - che prevedevano incontri tematici con un moderatore che doveva, se capace, cercare di far partecipare alla discussione tutti i partecipanti, rompendo anche il tabù della sala divisa in chi parla e chi ascolta. I "Cinque Stelle" usano questa logica del "meetup", definizione tratta da quel servizio di "social network" che facilita l'incontro di gruppi di persone che hanno interessi in comune, e questa logica dovrebbe rendere più fertili i confronti politici. Comunque sia piango su molte ore perdute in riunioni fiume, spesso precotte, specie nei periodo in cui il tutto si svolgeva in insalubri sale dove i fumatori imperversavano. A me è capitato anche, quando avevo responsabilità politiche, di apprezzare la formula conviviale alla francese del petit déjeuner, cioè l'incontro alla piccola colazione al mattino presto, con tempi ristretti e senza la pesantezza di un pranzo e di una cena. Ne ricordo con stupore uno al Quai d'Orsay, il Ministero degli Esteri francese, quando presiedevo il "Gruppo di amicizia parlamentare Italia - Francia", fra stoviglie e posate di lusso e omelette fumanti. Non so che cosa avverrà in futuro: mi pare di poter dire che il convegno vive e lotta insieme a noi, ma puzza di muffa e toccherà ai posteri trovare nuove soluzioni.