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18 mag 2015

Il savant, la politica e il futuro

di Luciano Caveri

Quando nell'Union Valdôtaine Progressiste hanno cominciato a chiamarmi - in coppia con Dino Viérin - "savant", mi è sembrata, pur ringraziando per l'attenzione, una sorta di "commenda", riconoscimento civile degno di una quiescenza ingiustificata, perché non penso di essere Matusalemme ed immodestamente ritengo di avere ancora qualche freccia nel mio arco. Poi alla definizione che sa di antico, mi ci sono affezionato, pensando all'etimologia: «de l'ancien français "savant" signifiant "sachant", participe présent de savoir, et "-ant"; du latin classique sapere, "s'y connaitre en"». Ma mi è piaciuta soprattutto la spiegazione data del termine da mio amato Claude Lévi-Strauss: «Le savant n'est pas l'homme qui fournit les vraies réponses, c'est celui qui pose les vraies questions». Certo la politica è fatta di gioia e di dolore, come molte delle espressioni della nostra vita. Penso di poterlo scrivere con la fortuna di avere avuto più contentezza che avvilimento nel complesso degli anni in cui sono stato assorbito dall'attività politica. Per altro si sa che noi esseri umani godiamo in genere di una memoria selettiva, che tende ad indorare la pillola rispetto al passato e centrare maggiormente la memoria su episodi piacevoli ed è un bel viatico per star bene e ciò vale per tutto. Per cui godo ancora oggi di ricordi bellissimi, che oscurano certe sgradevolezze, che fanno parte del gioco.

Da quando sono in una situazione di distacco dalla politica "elettiva" - e forse ho maggior possibilità di guardare alle cose con meno coinvolgimento diretto - ho trovato molto interessante, sin dalle scorse elezioni regionali e anche con queste ultime comunali, osservare le reazioni ante e post elezioni di molti candidati. Non mi riferisco ai "vecchi", quelli che hanno già fatto le loro esperienze, ma soprattutto a chi si imbarca per la prima volta nell'avventura. Prima del voto, nel relativamente breve periodo di full immersion, tranne chi si candida per caso e si astrae subito dal contesto e lo si vede subito, prevalgono l'entusiasmo e l'euforia, singola e di gruppo. Questo coinvolgimento è prevalentemente fatto di aspetti positivi, tranne forse l'idea che qualcuno matura che tutto questo gran correre per il risultato prescinda in parte dal proprio impegno personale, come se altri potessero - motu proprio - spostare masse di voti, se non addirittura quantità enormi di preferenze. Dopo il voto, gli scenari possibili sono due. Si vincono le elezioni e dunque il giubilo complessivo diventa coinvolgente, ad eccezione di chi resta fuori perché si sa che non ci sono posti per il numero di candidati, che è sempre eccedente. E forse questa dovrebbe essere la prima cosa da dire: «attenzione, anche in caso di vittoria, non tutti ce la faranno». Invece, nel caso di sconfitta, ad essere virale è la delusione e la ricerca - in parte del tutto legittima - dei perché di questo fatto. Con la tendenza, anch'essa naturale, di cercare "capri espiatori" su cui sfogare il proprio legittimo malessere: mettersi in gioco vuol dire sperare di riuscire, in barba alla logica alla De Coubertin «l'importante non è vincere, ma partecipare», che è già ipocrita nello sport, figuriamoci in politica... Forse l'approccio dovrebbe essere diverso e forse questo è davvero il frutto dell'esperienza. Le elezioni sono un momento essenziale della democrazia, ma c'è un "prima" e c'è un "dopo" e bisogna, se ci si crede davvero, valutare successi ed insuccessi in modo equilibrato e se la politica è passione arde comunque. Scriveva ad un livello elevatissimo il teologo luterano, che si oppose al nazismo, Dietrich Bonhoeffer: «L'essenza dell'ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé». E si guarda avanti.