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23 mar 2015

La paternità

di Luciano Caveri

Il vantaggio di avere tre figli sta nel fatto che oggi dovrebbero (e penso lo faranno) "festeggiarmi" per la "Festa del Papà". Si tratta - lo so bene e dunque prendo la festa con le pinze - di un'americanata novecentesca, festeggiata negli Stati Uniti in estate e che in Italia ha assunto una sua fisionomia del tutto particolare sul calendario. Anzitutto per il giorno prescelto, che non è per nulla banale e si richiama ovviamente al cristianesimo. E' il giorno di San Giuseppe, quello che viene definito il padre putativo di Gesù e che ci ostiniamo a chiamare "falegname", anche se si tratta di un abbaglio linguistico nella traduzione. Ma il 19 marzo ha una seconda valenza: è il giorno che precede di norma l'equinozio di primavera, cioè quando la durata del giorno e della notte si equivalgono.

Nella tradizione precristiana, questo periodo assumeva diverse coloriture: basti pensare alle Festività romana ("Bacchanalia") in onore del dio Bacco (dio del vino, ma anche degli eccessi erotici), una festa orgiastica - che alle autorità non piaceva molto proprio perché degenerava e aveva una parte iniziatica segreta, tanto che il culto venne persino vietato - legata alla rinascita della natura dopo l'inverno e al riavvio dell'attività agricola vera e propria. Per cui ancora oggi, fra falò e grandi mangiate, esistono vaste zone in Italia che hanno ereditato i rimasugli della festa che fu. Ma la verità è che, al di là di tutto, quel che conta è quanto sia difficile essere padre. Preciso subito, per evitare il solito benaltrismo, che fare la madre è ancora più difficile, ma anche la paternità ha le sue rose e le sue spine. Anzitutto perché, tranne che nella logica degli esempi che ciascuno di noi ha in casa, il mestiere di papà - in un mondo in cui ci sono corsi di formazione anche per fare la punta alle matite - non te lo insegna nessuno. Ogni volta che, dopo avere assistito al parto come d'uopo per ogni buon papà-marito contemporaneo, ti ritrovi con il pargoletto in braccio avanza, specie quando sei "primiparo", quella evidente apprensione su che cosa tu debba fare con esattezza. Poi, come capita con i miei due figli più grandi, ti domandi tanti anni dopo, con senso autocritico, se hai fatto tutte le cose come avresti dovuto e ti cade sulla schiena tutto il senso di inadeguatezza possibile e immaginabile. Credo, però, che conti, alla fine, il peso dell'amore e alla capacità di esserci - a seconda delle circostanze e dell'età - quando risulti necessario. Ha scritto Pierre Péju: «Immense, immense précarité de la paternité qui n'est jamais donnée, comme la maternité, mais conquise, réellement conquise, de jour en jour, d'instants partagésen instants partagés, de mains doucement serrées en jeux turbulents, de questions déroutantes en réponses appliquées, de paroles en silences, d'émotions en habitudes, de confiance en énigmes». Ovvio che finisca per pensare anche al mio di papà. Nell'ovvia constatazione che, anche dopo la sua morte, la sua presenza resti come un'impronta indelebile. E anche nella circostanza che, invecchiando e pensando alla mia di paternità, finisci per ripensare a lui e al suo modo di essere. Scopri così degli aspetti cui non avevi mai pensato prima e soprattutto constati come la genetica e la formazione culturale non siano una storia e così ti trovi a vedere come in te ci siano modi e comportamenti che lo ricordano da vicino, perché sei un pezzo di lui. E i miei figli - così è la vita - lo sono di me.