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15 mar 2015

La controriforma della Costituzione

di Luciano Caveri

La partita delle riforme istituzionali è un gioco di pazienza e non la si può giocare a passo da bersagliere. Le Istituzioni, per quanto malconce, sono caposaldo della Democrazia e ogni modifica della Costituzione prevede gesti misurati e l'uso di strumenti di precisione, oltreché quell'impalpabile "spirito costituente", che crea quel clima di collaborazione fra le parti che permette il miglior risultato. In queste ore, in un'atmosfera diametralmente opposta, si consuma alla Camera un pezzo di prima lettura, come previsto dall'articolo 138 della Costituzione, su quel disegno di legge costituzionale "Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione", di cui sentiremo ancora parlare a lungo e che verrà sottoposto a referendum confermativo - se i tempi lo consentiranno perché ora si torna a Palazzo Madama ancora per la prima lettura - fra un annetto. In sostanza Matteo Renzi intende giocare questa partita in una logica plebiscitaria, cioè si prescinderà dai contenuti puntuali a favore di una sorta di imprimatur popolare sulla sua persona.

Che la riforma non mi convinca è fatto noto. Il bicameralismo differenziato, con il Senato che «rappresenta le istituzioni territoriali» non ha nulla di federalistico, perché di fatto il Senato diventa una Assemblea da operetta, priva di reali funzioni. Il monocameralismo conseguente rischia di accentuare il ruolo del Governo, che si ritaglia uno spazio enorme nel procedimento legislativo, indebolendo la democrazia parlamentare. Ma il dato che è più delicato, per un'autonomia speciale come la Valle d'Aosta, è quanto contenuto nella revisione del Titolo V. Si fa nel testo un clamoroso passo indietro rispetto a qualche vagito federalista contenuto nella modifica del 2001 attualmente vigente. Per le Regioni ordinarie ci troviamo di fronte ad un cimitero di competenze, pensando alle materie che vengono riportate in capo allo Stato e il recente passaggio alla Camera ha persino peggiorato la situazione rispetto al testo del Senato. La scomparsa della competenza concorrente rafforza l'elenco delle materie statali in modo impressionante con una vera controriforma anti-regionalista mascherata dalla solita storia dei risparmi e dell'efficienza. Fantasmagorica nell'illustrare questo vento centralista è la cosiddetta "clausola di supremazia", che fa impressione sin dall'uso del termine ("supremazia" vuol dire "superiorità indiscussa, predominio, egemonia"!). La riforma costituzionale consente allo Stato di intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva, quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica o - ecco che torna una vecchia storia - la tutela dell'interesse nazionale. Una sorta di "bomba atomica" sganciabile a piacimento e anche in modo capriccioso sul regionalismo. Si dice: ma il regionalismo delle Speciali è salvo. Da un certo certo punto di vista il quadro non è negativo. La riforma costituzionale non si applicherebbe, infatti, alle Regioni a Statuto speciale e alla Province autonome, finché non ci sia stato l'adeguamento dei rispettivi Statuti (ed è quanto deve avvenire con legge costituzionale). Questo adeguamento va concretizzato - anche se non si precisa la natura del procedimento - sulla base delle intese con le Autonomie speciali. Questo principio dell'intesa - il tema va precisato - avverrebbe come "vuoto a perdere" e varrebbe una tantum per questo adeguamento e non a regime, come più volte richiesto. Naturalmente, rispetto alla Riforma del 2001, la novità sta nel fatto che mentre allora il clima era espansivo per il regionalismo, oggi siamo di fronte ad un clima restrittivo e quindi anche la riforma degli Statuti - pensiamo appunto alla terribile e già citata "clausola di supremazia" - non avverrà di certo in una logica di miglioramento della Specialità, anzi... Resta poi, come si evince da parte della discussione avvenuta nell'aula della Camera, un clima pesantuccio verso le Speciali, rimaste in vita - così temo - più per i voti indispensabili dei loro eletti al Senato - per andare avanti con la Riforma altrimenti destinata al fallimento - che per reale convinzione del loro ruolo storico e istituzionale. La "prova del nove" viene da un'intervista sul bilancio del lavoro svolto a Palazzo Chigi da Matteo Renzi, pubblicata su "L'Espresso". Chiede al Premier il giornalista Marco Damilano: «Le Regioni da tagliare e da accorpare?». Risponde con un pizzico di cinismo il presidente del Consiglio: «Non ho niente in contrario, ma il tema non è all'ordine del giorno. Non ci sono i numeri in questa legislatura, non siamo riusciti neppure a inserire nella riforma della Costituzione un emendamento sulle macro-regioni». In effetti il Governo alla Camera si era detta d'accordo su una revisione dell'articolo 132 della Costituzione per facilitare la fusione delle Regioni: modo surrettizio per superare i grandi ostacoli costituzionali per chi voglia perseguire - e sono sempre di più - questo disegno soppressivo delle Regioni più piccole. Per fortuna l'aula - e andrà anche ricordato chi a Montecitorio sul punto ha scelto di stare zitto, quando avrebbe dovuto parlare - ha respinto l'emendamento. "Vi racconto la mia Italia come una favola": così si intitola l'intervista di Renzi appena citata, ma dipende certamente da quale parte si ha nella favola e ci sono personaggi che fanno una brutta fine. Sarebbe bene capire quale parte sarebbe riservata alla Valle d'Aosta. Le prospettive certo inquietano ed è bene rifletterci sopra per avere sul futuro istituzionale un clima di "entente cordiale", serio e consapevole, per fare fronte comune in Valle d'Aosta. Sarebbe nefasto avere sul punto e in casa propria, rubando l'espressione a Thomas Hobbes, una situazione di "bellum omnium contra omnes", cioè "la guerra di tutti contro tutti". Ma sarebbe anche ipocrita chi, per ragioni di bottega, facesse finta che certi pericoli siano solo il frutto dell'immaginazione e rompesse il fronte con un'evidente e memorabile ottusità.