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15 set 2014

Le scuole nei ricordi

di Luciano Caveri

Il ricordo del primo giorno di scuola e più in generale delle scuole frequentate nel lungo ciclo di parte essenziale della propria vita sono inversamente proporzionali all'età. Io non ho fatto l'asilo - il perché mia madre, a proposito di memoria, non sa dirmelo - per cui per me lo shock, nel lontano 1964, con l'avvio della prima elementare, fu notevolissimo. Biondino con il mio grembiule nero, pare che recitai la parte del disperato e per tutto l'anno fu guerriglia, dopo aver scoperto che il mal di pancia simulato e qualche lacrimone ad hoc mi davano la possibilità di stare a casa. Finito questo rodaggio e archiviata nei cassetti la prima immagine in bianco e nero della mia classe, sono le fotografie "Kodak" del tempo a restituire gli anni successivi, in cui risulto sempre sorridente e questo è segno che mi era passato il magone. Di allora mi appaiono fugaci immagini di quella scuola, oggi distretto Usl: quando ci entro, benché ci siano degli uffici, è sempre un colpo al cuore. Mi rivedo mentre tolgo le scarpe e mi metto le ciabatte e tornano alla memoria quei lunghi esercizi di apprendimento, maestri e maestre che si succedettero e naturalmente i compagni di classe che - in quanto coscritti di Verrès - rivedo periodicamente così come il tempo ci ha modificati. Resta, come ben sanno tutti quelli che frequentano i compagni di classe del tempo che fu, quella indicibile magia che ti fa tornare bambino nelle cene di ricordo e ho degli amici d'allora che, a differenza mia, che ho solo dei flash, ricordano per filo e per segno degli avvenimenti a me sfuggiti. Delle Medie - e ne faccio ammenda - ricordo più i "fuori onda" degli intervalli, delle gite, dei primi amori, ma dalle lezioni vere e proprie emerge la burbera professoressa Maghetti di Lettere, che poi venni incaricato - me ne vergogno ancora, in occasione della festa dei coscritti del diciotto anni - di svegliare nel cuore della notte per una burla telefonica. Altro fatto impressionante che spunta: quando - chissà per quale marachella - venni chiamato dal preside Luigi Barone, che all'epoca non sapevo fosse stato partigiano e consigliere regionale del Partito Comunista Italiano dal 1954 al 1968. Mi sgridò, come da copione, ma mi sembrava che ciò avvenisse con un guizzo di divertimento negli occhi. Le Superiori a cavallo fra Aosta ed Ivrea, dove arrivai dopo una bocciatura inaspettata perché un rimandato di due materie, che ho poi scoperto essere stata concordata con i miei genitori per "cambiare aria", visto che ad Aosta c'erano stati episodi di proteste studentesche in cui ero stato coinvolto. Se già ad Aosta, al di là della batosta presa, sempre salutare, ricordo la scuola solo intrecciata alla vita (ottenimento del motorino a quattordici anni, autentico "punto e capo"), lo stesso vale a maggior ragione per l'esperienza eporediese, in una città ancora molto viva per via della "Olivetti". Si deve, a quel tempo, l'esperienza radiofonica a Radio Saint-Vincent, che mi consentì di scegliere di fare il giornalista, prima che - anni dopo - arrivasse, inaspettata, la politica. E devo dire che mi è sempre piaciuto, specie nelle veste parlamentari, andare nelle scuole di ogni ordine e grado, perché - se riesci a spezzare il ghiaccio - hai la fortuna farti trasmettere per un attimo un po' dell'energia che la giovinezza comporta. L'Università non è già più esperienza rapportabile al "primo giorno di scuola". Si è fuori dalla disciplina, dalle dinamiche di classe, dalle ore scandite e dai professori che si succedono. Altra storia, che poi ho fatto da "studente lavoratore" e quindi senza neppure godere del cima universitario stricto sensu. La scuola non mi manca, perché il rimpianto non è un sentimento che mi appartenga, semmai può esserci un pizzico di nostalgia e una minuscola briciola di invidia per chi, avendo la vita davanti, come vedo - pur con differenza di età fra loro - con i miei figli, per i quali spero si realizzino le cose più belle. Sono le stagioni della vita, che non si fermano e non c’è trucco e non c'è inganno che lo possa fare. C'è quella bella immagine del poeta Louis Aragon, che dice: «Ouvre si tu peux sans pleurer ton vieux carnet d'adresse». Resta la constatazione che i fantasmi esistono e mi fanno tenerezza e non paura. Ogni volta che passo davanti ad una mia vecchia scuola li vedo, perché non sono niente altro che le immagini liberate da una parte della nostra memoria. Uno di questi ha la mia faccia.