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30 ago 2014

Formule magiche e riforme

di Luciano Caveri

Le formule magiche mi sono sempre piaciute. Pensa che forza c'è in «Apriti Sesamo!», o negli antichi «Sim salabim» ed «Abracadabra». Le parole hanno già normalmente una propria energia interiore, che diventa potenza nella disperata ricerca dell'uomo di poter dominare gli elementi e la propria vita con la semplice evocazione verbale. E' poi, in fondo, quel che facciamo quando ci scappa la pazienza e lanciamo sgradevoli improperi. Poi, per il mago che c'è in noi, ci ha pensato la saga di Harry Potter a dirci che con «Dissendium» possiamo aprire passaggi segreti, con «Expelliarmus» disarmiamo il nostro avversario, con «Rictussempra» facciamo il solletico e via di questo passo. Senza mischiare sacro e profano, anche nelle religioni - specie con la ripetitività della preghiera, spesso con parole misteriose, come poteva essere un tempo il latino - la parola assume un carattere ultraterreno. Ci pensavo, riferito alla politica italiana di oggi, come la formula magica sia semplice e assieme potente nella forza rievocativa: «riforma!». Come quasi sempre avviene, la parola viene dal latino "formare" e cioè "realizzando dando una forma" e ovviamente "riformare" significa tornare a modificare quanto già era stato fatto. Ma nella storia è parola impegnativa. Lo storico del cristianesimo - e non è un caso - Alberto Pincherle (omonimo dello scrittore Alberto Moravia, nom de plume) ha così scritto sulla voce della "Treccani": "Questo termine, che ha finito con acquistare larga varietà di accezioni, viene generalmente applicato a innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato e della Chiesa, e dovuti - almeno per ciò che riguarda lo Stato - all'azione legittima e regolare dei poteri costituiti, agenti gradualmente secondo un programma predeterminato: tali le "riforme" introdotte dai principi negli organismi statali nel corso del secolo XVIII e per cui si parla anche di una "età delle riforme"; onde, contrapponendo queste riforme al moto violento della rivoluzione francese, in politica il concetto di "riforma" venne per lungo tempo considerato quale antitesi a quello di rivoluzione e s'ebbe, per esempio nel partito socialista italiano una frazione "riformista", in complesso legalitaria e opposta a quella rivoluzionaria o estremista. Per quanto concerne la Chiesa, si parla di "riforma" anche a proposito delle misure che gli ordini monastici e il papato attuarono, fra vivi contrasti, nel corso del secolo XI; ma più comunemente, e quasi per eccellenza, così nei paesi in cui la maggioranza della popolazione si distaccò dalla Chiesa cattolica, come in quelli nei quali le rimase, o le ritornò ad essere, fedele, "riforma" e "riforma religiosa" è chiamato quel complesso movimento, religioso politico culturale, che produsse appunto, lungo il secolo XVI, la frattura della cristianità cattolica medievale in diverse comunità, a loro volta poi più o meno soggette a un ulteriore processo di frazionamento o differenziazione». Ecco perché questa breve spiegazione manifesta l’evidente contradditorietà nell'uso, che Matteo Renzi fa spesso ed è rinvenibile nella mail scelta per avere suggerimenti a Palazzo Chigi definita non a caso rivoluzione@governo.it, fra riforma (e moltissime riforme sono in corso o vengono annunciate a getto continuo) e rivoluzione (cui aggiunge talvolta l'aggettivo "culturale", ma "rivoluzione culturale" evoca addirittura Mao!), che stridono, per quanto adoperate in una logica, già evocata, della "formula magica". Perché formula magica? Non per sterile polemica, essendo non ancora venuta meno la speranza che il renzismo non sia una bolla di sapone, ma perché lo slogan "una riforma al mese" o l'apertura contemporanea di cantieri che toccano Costituzione, giustizia, mercato del lavoro, sanità e scuola risulta francamente irrealistica. Vien sempre buona la citazione di Massimo d'Azeglio: «Gl'Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro».