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14 ago 2014

Quelle mucche senza alpeggio

di Luciano Caveri

Seguo sempre gli avvenimenti nel mondo agricolo, come scrivevo qualche giorno fa, perché è, oltreché un interesse ovvio, una sorta di legame per ricordare mio papà. Penso di aver già scritto di un episodio: nel maggio 1945, al ritorno dalle avventure della deportazione in Germania, Sandrino, come lo chiamavano tutti, si presentò da suo papà, ex Prefetto giubilato dal fascismo e poi amministratore dell’allora "Ospedale Mauriziano", all'epoca quasi ottantenne, per dirgli che avrebbe lasciato gli studi già avviati in Giurisprudenza. Quello che aveva visto nella vita da internato lo aveva convinto della caducità del Diritto. Papà avrebbe voluto fare il medico, ma - così diceva - costava meno fare Veterinaria e così fece. Questa scelta ha fatto sì che per oltre mezzo secolo papà abbia esercitato la professione e questo ha significato una sua full immersion quotidiana nel mondo agricolo valdostano e noi familiari con lui nel rapporto con allevatori e clienti animali. Civiltà contadina rispetto alla quale aveva un approccio molto chiaro: gli stavano grandemente "sui cosiddetti" tutti coloro che dipingevano di rosa il mondo rurale del passato. Mentre lui dava sciabolate a certa retorica e raccontava dello stato di povertà e di prostrazione di una parte significativa del mondo contadino più povero, al quale, con discrezione, non faceva mai mancare il suo appoggio materiale. Poi i tempi son cambiati. Quel mondo, con il declinare che porta l’invecchiamento anche rispetto alle novità emergenti, mi pare che non lo capisse più tanto. L’allevamento diffuso era stato via via sostituito da "megastalle" e la politica comunitaria connotata dalla "filosofia degli aiuti", incrociata anche agli interessi politici e elettorali che facevano dei contadini un importante bacino di voti, hanno portato ad una logica di contributi "a pioggia", che hanno fatto gonfiare il settore e trasformato alcuni dei protagonisti in imbattibili cacciatori di sovvenzioni. Che sia chiaro come questa responsabilità derivi da colpe collettive e da patti non scritti, che hanno tenuto il settore sotto protezione rispetto ai rischi reali della concorrenza delle pianure e hanno favorito una generale modernizzazione, ben visibile in settori di grande successo, come la viticoltura. La tutela dell’agricoltura montana - e anche di quell'eccesso di zootecnia, che ha creato una forte dipendenza dalla filiera monocolturale, per così dire, "latte-Fontina" - non è una storia, ma una realtà di tutela di un settore produttivo antico con ricadute su ambiente e territorio. Ma oggi la stretta della cinghia colpisce duro sull'agricoltura e forse chi in passato se n’è fatto paladino applaudito, guarda oggi ad altri interessi e altre fedeltà proprio per il declinare del peso politico del settore. Per cui, quando si usa la forbice per i risparmi, chi un tempo aveva sempre chiesto e ottenuto, oggi si ritrova in ribasso e questo significa sacrifici e un settore che deve obbligatoriamente cambiare, ma l'alternativa non può essere fra vivere e morire. Dunque la circostanza, che potrebbe anche avere aspetti salutari per tornare al mercato, ha anche ombre inquietanti per le conseguenze di una scelta precisa: adoperare i fondi comunitari, ma soppressione di certe risorse aggiuntive regionali nel "Piano di sviluppo rurale". Bisogna sempre leggere con attenzione la stampa specializzata e così, scorrendo le pagine del periodico di "Coldiretti", "Agriculteur Valdôtain", in un piccolo riquadrato a firma EM (che immagino sia il direttore, Ezio Mossoni), leggo quanto segue: "Con il sostegno ridotto il pericolo non è solo quello dell’abbandono delle aziende minori (le maggiori ne potrebbero recuperare parzialmente terra e animali) ma la trasformazione della nostra agricoltura. Le piccole aziende iniziano a tenersi i capi in fondo valle anche d’estate e gli alpeggiatori faticano a trovare capi per salire. Vuol dire squilibrio nella gestione dei pascoli (il foraggio viene a mancare un basso e eccede in alto) così come squilibrio nella gestione delle deiezioni (viceversa troppo letame in basso e troppo poco in alto) e prima o poi chi tiene le vacche in basso potrebbe chiedersi perché allevare una razza come la nostra - che la natura sembra abbia creato per l’alpeggio - se in alpeggio non le manda più e le altre razze mangiano uguale ma producono molto di più...". La considerazione finale va davvero soppesata: "La nostra non è semplicemente agricoltura ma è "un sistema" complessivo che, grazie ad una visione strategica lungimirante, abbiamo voluto mantenere e alimentare. Il rischio che si trasformi è rilevante. L’ho già detto e lo ripeto, spero di sbagliarmi... ai posteri l’ardua sentenza". Non c'è davvero nulla da aggiungere.