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01 ago 2014

Il Capo, i patti e le promesse

di Luciano Caveri

«Un chef n'est pas obligé de dire tout ce qu'il va faire. Mais il est tenu de faire tout ce qu'il a promis». Così diceva lo scrittore e storico del Mali, Massa Makan Diabaté, che discendeva da un'antica stirpe di griots, i depositari della culture orale africana, piena della saggezza delle antiche popolazioni tribali. Questa sua considerazione è importante e riguarda l'aspetto più significativo della politica e cioè la necessità che i leader siano onesti nei loro propositi e naturalmente nei loro comportamenti. Il mancato rispetto di quanto detto è oggi il principale fossato che si è creato con l'opinione pubblica, che basa alla fine buona parte del castello dell'antipolitica sul mancato rispetto di quanto promesso nell'enunciazione dei programmi su cui si basa ogni avventura politica. L'attesa, se tradita, crea una situazione che, prima o poi, arriva al punto: non si sfugge alla verità, per quanto si sia bravi ad edulcorare e a strumentalizzare la realtà. Anche i giocolieri più capaci, specie se esagerano con i loro virtuosismi, pagano con l'errore e la figuraccia l'eccesso di rischio. "Pacta sunt servanda", "I patti devono essere rispettati": la celebre massima, attribuita al giurista romano Eneo Domizio Ulpiano, insegna come non ci si possa liberare unilateralmente dagli obblighi assunti per contratto. Attualmente, il brocardo si applica in particolare nel diritto internazionale, per indicare l'obbligatorietà dei trattati, ma l'ammonimento vale - eccome! - anche per il patto stipulato fra cittadini ed eletti. Matteo Renzi è stato un elemento di cambiamento: ha affrontato di petto mille dossier con forza e talvolta con atteggiamento guascone. Al suo arrivo ha annunciato un cambio di ritmo con lo slogan impegnativo di "una riforma al mese". Come tanti, benché incarognito da certe esperienze del passato, ho pensato che un credito andava aperto. Così abbiamo visto che il cronoprogramma dei "cento giorni" è poi realisticamente, ma anche disinvoltamente e facendo finta di niente, slittato ai "mille giorni". I sondaggi mostrano che queste dissonanze fra il dire e il fare per ora non scalfiscono il carisma del premier, che può sui tanti fronti aperti reggere le sfide per quella fiducia di cui gode. Ma lo slogan "molti nemici, molto onore" non portò bene al suo inventore e ancora oggi - malgrado la facilità di dialogo diretto del leader carismatico con i suoi elettori - alla fine l'apertura di troppi dossier non porta bene. Specie se si usa, alla fine, lo strumento delle elezioni anticipate come minaccia o, come in questi ultimi giorni, nell'idea che fare il pieno di consenso consentirebbe di ripartire da capo e pure - con le liste bloccate - di far fuori chi nel Partito Democratico non è "renziano". Lo spiegava bene ieri Antonio Polito nell'editoriale sul "Corriere della Sera": «Ora ci sono due strade percorribili. La prima è rimettere la testa sulle carte e ripartire dal rompicapo di sempre: le riforme di struttura. La Spagna le ha fatte e ha ripreso a crescere e a creare occupazione. Ha messo a posto le sue banche e soprattutto ha fatto una vera riforma del mercato del lavoro, più facile licenziare e più facile assumere. Noi del "jobs act" sentiamo parlare da quando Renzi faceva la "Leopolda" e ancora non sappiamo se affronterà finalmente il nodo fatidico dell'articolo 18». L'esempio può piacere o meno ma indica la necessità della "politica del fare". Ed ecco, secondo Polito, la seconda strada: «Di fronte alle difficoltà dell'economia Renzi può decidere di sfruttare la riforma elettorale e costituzionale che riuscirà a portare a casa per rinviare la resa dei conti pubblici con l'Europa, rilanciandosi con una fase 2.0 e con un Parlamento più fedele. La prima strada porta a fare un discorso di verità al Paese, la seconda ad annunciare sempre nuovi traguardi e cronoprogrammi che poi non possono essere rispettati. Per quanto entrambe legittime, la prima strada ci sembra quella più diritta». Concludo con quello che oggi - in Italia e anche in Valle d'Aosta, se al posto di scrivere PD si scrive Union Valdôtaine - il problema: il berlusconismo è stato l'apoteosi del partito personalista e abbiamo visto dove si è finiti; il PD non può permettersi di diventare un partito personalista, perché questo comporterebbe le stesse identiche fragilità. Nessuno nega le leadership, perché sappiamo che in democrazia ci vogliono dei volti anche nei ruoli di vertice, ma la vecchia idea dei "gruppi dirigenti", che uniscano alla rapidità di decisione il confronto e l'analisi sui problemi, evitano quella solitudine del Capo, che ad un certo punto rischia di perdere la tramontana, come si diceva dei navigatori che sbagliavano rotta, quando non individuavano più la stella polare. Facendo di questo fallimento un dramma collettivo e l'affondamento del proprio partito.