Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
30 gen 2014

All inclusive

di Luciano Caveri

Prendo per buoni tutti i discorsi sugli eccessi del consumismo, tranne certe derive pauperistiche intrise di ideologia, quando penso basterebbe il buonsenso. Certo che, in certe occasioni, uccide più il ridicolo dei sermoni. Ci pensavo rispetto a questa storia delle vacanze "all inclusive", termine anglosassone per "tutto compreso", di cui non sono riuscito a trovare la paternità applicata ai villaggi vacanze. Emerge nel linguaggio turistico negli anni Novanta e si afferma come formula vincente, oggi declinata in vari modi, ma la cui sostanza è "mangiare e bere gratis", durante il soggiorno, a qualunque ora. A conti fatti, questa sorta di "liberi tutti" piace al consumatore e non rovina l'imprenditore, segno che evidentemente che ci guadagna ancora, mentre il cliente è convinto di guadagnarci lui. Pari patta, moralmente. Confesso che non ricordo quando fu la mia prima volta. Qualcosa del genere si delineava già alla fine degli anni Settanta nel "Club Med", dove andavo con i primi soldi guadagnati. Era ancora una vacanza un pizzico alternativa e i pasti a buffet offrivano già una varietà di cibo e di bevande senza limiti, nel solco della soluzione più vasta che poi arriverà. Ma il bar, appunto, si pagava con palline di plastica, che avevano un corrispettivo in denaro, ma girare con queste collane colorate faceva tendenza e - astuzia del Club - dava un senso di libertà un po' da hippie, non fosse che in realtà pagavi anticipatamente! Poi, appunto, spunta l'"all inclusive" e - lo vedo in questi giorni in un club - ormai non ci sono limiti e si manifestano forme selvagge di consumismo, che infastidiscono anche chi, come me, considera che ognuno, se proprio non mi cammina sui piedi, possa fare quel che vuole. Emerge, però, in tutta la sua virulenza una voracità insaziabile, che ha declinazioni personalizzabili dal famelico al goloso. Naturalmente la versione liquida, il famoso "open bar", è il trionfo dell'alcolista o dello sprecone, cui poi corrispondono altrettante, possibili categorizzazioni. Sarò démodé, ma ognuno si porta dietro quel che gli è stato insegnato. Per cui stranisce vedere persone con piatti debordanti, lasciati lì sul tavolo in buona parte o ingollati come farebbe un collaudatore di "Alka Selzer". Si notano poi bimbi a cui si propone, facendo incetta nel banchetto, tutto e il contrario di tutto, alla ricerca della pietanza che finalmente gli piaccia. Questo fa a pugni con quella logica educativa, cui sono stato cresciuto, del «finisci tutto quello che hai nel piatto», compresa la "cervella", degna di una chiamata a "Telefono Azzurro". Un insegnamento, cui non vengo mai meno e che ho cercato di trasferire ai miei figli questo del rispetto per il mangiare, che arriva da distante e che è - me lo dico da solo - un segno di civiltà. Sulla bevanda resta quanto già detto, cui aggiungerei solo che finisco persino per ammirare chi, con una forma di malattia o nevrosi, si piazza al bar in modo sistematico e senza complessi, assorbito - fino al bicchiere della staffa - dalla logica della gratuità. Se il locale non chiudesse, sarebbe pure disponibile a bersi la sciacquatura dei piatti. Prosit!