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19 dic 2013

Quante rivoluzioni!

di Luciano Caveri

«Stai attento alle tue parole!». Può capitare, in una discussione concitata, di sentire una frase di questo genere. E' un ammonimento che dovrebbe essere sempre nella nostra mente, perché le parole - anche in condizioni di calma piatta - vanno soppesate. Mai come in questo momento noto, da troppe parti, un uso sbagliato o disattento della parola "rivoluzione". C'è una rubrica sul sito di "Rai Educational" a cura di Stefano Gensini e Giancarlo Schirru, che con grande perizia scava nelle parole. Di "rivoluzione" dicono: «Rivoluzione, formatosi dall'accusativo latino revolutionem, ha due significati prevalenti, uno fisico e l'altro politico. In fisica, il termine indica il movimento circolare di un corpo intorno a un altro corpo, mentre nel linguaggio storico-politico si riferisce al mutamento profondo e rapido di una situazione politica, sociale, economica, culturale». Ma ecco come i termini si evolvono: «Soltanto il primo dei due significati era già presente nel latino tardo revolutionem, da cui deriva, per via colta, la forma italiana. Ma già nel toscano del Trecento è possibile riscontrare un uso politico del termine, accompagnato da una sfumatura negativa, quando si allude al cambiamento violento dell'assetto istituzionale, generalmente contrassegnato da disordini e dall'esilio degli esponenti della parte sconfitta. Occorre però attendere il Diciassettesimo secolo perché l'uso del termine assuma una fisionomia simile a quella moderna. Innanzitutto in astronomia si precisa con Galileo il significato di movimento dei pianeti attorno alle stelle fisse, accompagnato dal movimento di rotazione dei corpi celesti sul proprio asse. In politica invece, soprattutto in Francia, la parola rivoluzione inizia ad indicare un processo rapido e violento di mutamento del potere provocato dalla spinta di un popolo che non si sente rappresentato dai propri governanti. Ed è con il 1789 che l'espressione rivoluzione politica assume la fisionomia attuale: quella cioè di liberazione della nazione da un politico non legittimato dal popolo, e il raggiungimento di un assetto che preveda, attraverso istituzioni liberamente scelte, la partecipazione di tutta la comunità. Questa concezione, pur essendo fondamentalmente politica, coinvolgeva già valori culturali e sociali: fu così naturale estendere nell'Ottocento il termine rivoluzione anche a mutamenti radicali avvenuti nel campo delle concezioni scientifiche, nella letteratura, nell'arte». Non è un caso se, ancora oggi, come già con l'espressione "rivoluzione industriale", adoperiamo questo termine ad esempio con "rivoluzione tecnologica" o "rivoluzione scientifica" o persino "rivoluzione sessuale". Poi sappiamo bene - tornando alla politica - che c'era stata una "rivoluzione inglese", ma anche una "rivoluzione americana" e poi - con la "rivoluzione russa" - il comunismo si è largamente imbevuto del termine. C'è stata anche una presunta "rivoluzione fascista" e vive ancora una "rivoluzione liberale". Io stesso - confesso le mie colpe - ho propugnato una "rivoluzione federalista", ma lo aveva già fatto, più autorevolmente, Altiero Spinelli. Insomma: possiamo pacificamente risolvere il caso, dicendo che ognuno, come le parole molto spesso consentono che sia, usa la parola come vuole, determinandone alla fine un'evidente usura. Sottoscrivo Simone Weil: «On pense aujourd'hui à la révolution, non comme à une solution des problèmes posés par l'actualité, mais comme à un miracle dispensant de résoudre les problèmes». Che è questione ancora più delicata, che porta a dire - se si usa la chiave federalista, in questa logica di realismo - che la prima rivoluzione parte dalla propria sfera personale e dal proprio contesto politico.