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18 ago 2013

Ferragosto = Turismo

di Luciano Caveri

Il tormentone di questi anni nel turismo è in Valle d'Aosta, più o meno, il seguente: «gli italiani abbandonano la montagna, ma arrivano più turisti stranieri». E' un mantra che viene ripetuto sia d'estate che d'inverno e che, per la stagione in corso, registra una sola novità: anche la corazzata Trentino-Alto Adige/SüdTirol si lamenta di un calo, dopo anni di incrementi. Da noi il dibattito, negli ultimi tempi, si svolge più o meno seguendo uno schema, che somiglia a certi filmoni sentimentali con il lieto fine. A inizio stagione lamentazioni generali, poi pian piano più le voci diventano ufficiali e più i problemi sembrano risolversi sino all'arrivo, settimane dopo, dei dati di presenze e arrivi, che vengono commentati con il sorriso, come fanno tutti i partiti nei commenti del post elezione. Sui titoli di coda scorrono i ringraziamenti reciproci fra autorità e associazioni di categoria. Forse le varianti più recenti sono due: l'evocazione della crisi come elemento immanente, tipo il peccato originale, cui non si può sfuggire e che cala sulla scena, come il risolutore deus ex machina della tragedia greca e che serve a sgravare tutti dalle colpe in un'assoluzione generale; la seconda è che il politico non blandisce più ma, forte di elezioni appena svolte, avverte le categorie del turismo che la fine dell'epoca delle vacche grasse coincide con un generale «tiratevi su i pantaloni» e dateci dentro, com'è giusto che sia in una società capitalistica con il welfare agonizzante. Applausi. Che è poi più o meno il tono del "tecnico del settore" che con tono muscolare e modi spicci indica la linea del futuro che verrà, usando il comunicato stampa come un machete nella giungla contro chi timidamente obietti e proponga di aprire un confronto. Il modello è già pronto e frigge nel microonde, per cui «zitti e mosca!», mangiate il piatto precotto. Non resta che godersi il Ferragosto, via dalla pazza folla, com'è capitato a me in un rifugio alpino (l'Arp sopra Estoul, a Brusson, dell'ospitale famiglia Vicquéry), dove la sera ci si ritrova con rassicuranti habitué della montagna (ormai, purtroppo, in prevalenza anzianotti), che sanno dove sono e di che cosa parlano. L'assenza del segnale del telefono consente di "staccare" per qualche ora in un mondo che vive la connessione come una droga. Mi sono perciò evitato il fervore delle dichiarazioni sul "tutto esaurito", sulla "prenotazione all'ultimo secondo", sulla santificazione dello "straniero che apprezza e l'italiano che ci ha lasciati", su "l'aumento dei posti letto" ma con percentuali di occupazione in calo, su "il progetto importante con TripAdvisor" come pannicello caldo. Mi godo, invece, il fischio delle marmotte lungo il sentiero e il richiamo delle aquile nel cielo, che mi offrono la chiave dell'unica vera soluzione: il silenzio.