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21 giu 2013

Pensieri su un vecchio film

di Luciano Caveri

Un'amica di Cogne mi ha mandato un link di un pezzo del film del 1976 di Sidney Lumet "Quinto potere" (in inglese "Network", ma allora il termine inglese non era familiare). È una storia in cui si racconta di un noto giornalista televisivo, in calo di popolarità, che annuncia il proprio imminente suicidio in diretta televisiva. E poi diventa una sorta di predicatore. Una produttrice televisiva cerca di sfruttare con cinismo l'avvenimento, significativo degli alti e bassi degli ascolti, che condizionano il mercato televisivo. Finale tragico. Il film è ormai un classico del cinema, consigliabile per chi non lo avesse mai visto. Il monologo di Howard Beale, l'attore australiano Peter Finch, è rimasto nella storia del cinema: «Non serve dirvi che le cose vanno male, tutti quanti sanno che vanno male. Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l'ha vive con la paura di perderlo. Il potere d'acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c'è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l'aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la televisione mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati quindici omicidi e sessantatré reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male! E' la follia! È come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: "Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia televisione, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma... ma lasciatemi tranquillo!". Beh!, io non vi lascerò tranquilli. Io voglio che voi vi incazziate. Non voglio che protestiate, non voglio che vi ribelliate, non voglio che scriviate al vostro senatore, perché non saprei cosa dirvi di scrivere: io non so cosa fare per combattere la crisi e l'inflazione e i russi e la violenza per le strade. Io so soltanto che prima dovete incazzarvi. Dovete dire: "Sono un essere umano, porca puttana! La mia vita ha un valore!". Quindi io voglio che ora voi vi alziate. Voglio che tutti voi vi alziate dalle vostre sedie. Voglio che vi alziate proprio adesso, che andiate alla finestra e l'apriate e vi affacciate tutti ed urliate: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!". Voglio che vi alziate in questo istante. Alzatevi, andate alla finestra, apritela, mettete fuori la testa e urlate: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!" Le cose devono cambiare, ma prima vi dovete incazzare. Dovete dire: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!" Allora penseremo a cosa fare per combattere la crisi e l'inflazione e la crisi energetica, ma Cristo, alzatevi dalle vostre sedie, andate alla finestra, mettete fuori la testa e ditelo, gridatelo: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!"». Questo suo allucinante e straziante appello ebbe successo in un primo tempo, per poi diventare - con il suo boom immediato, che diventa poi effimero - un esempio grottesco della parodia della televisione, che crea - oggi ancora più di allora - un mondo fatto di specchi deformanti che trasformano la realtà. Ma quell'appello forte e persino volgare sembra gli strali delle meteore di certi fenomeni politici protestatari odierni, di un giornalismo militante o prezzolato che gonfia e sgonfia le notizie, di una protesta che non sfocia mai in proposta, di un movimentismo del "no" che non offre alternative ai problemi reali. Quella scena, che mi era passata di mente, mi sembra ora di una tragica e dolente attualità. Anche in Valle d'Aosta e senza occuparsi della sola cronaca giudiziaria.