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04 lug 2012

I cambiamenti climatici e le montagne

di Luciano Caveri

Sono sinceramente contento che nella "Commissione ambiente" del "Comitato delle Regioni" si discuta oggi dei cambiamenti climatici nelle zone di montagna. E' una mia proposta di parere, che ha avuto qualche vicissitudine ad essere approvato dal "Bureau" del "CdR", ma poi - essendo cocciuto - è arrivato e , dopo averne discusso un prima volta mesi fa e, dopo l'adozione formale di oggi, andrà alla plenaria di ottobre in concomitanza con gli "Open Days", avendo dunque una forte visibilità. Mio esperto - e oggi passerò con lui la giornata, oltreché la seduta - il mio amico Luca Mercalli, che non ha bisogno di presentazioni. L’incipit è chiaro, dovendo fare un esame a volo d'uccello del documento: "Negli ultimi anni si è accumulata un'ampia letteratura scientifica nonché numerosi documenti politici e progetti scientifici nell'Unione europea, che evidenziano come le regioni di montagna siano altamente sensibili ai cambiamenti climatici, in quanto riuniscono in una ristretta area ambienti differenti per quota, esposizione e influenza delle circolazioni atmosferiche". Fra i punti qualificanti ricordo questi passaggi: "Le aree montane sono forzieri di biodiversità minacciati dal cambiamento rapido del clima: di tutti i siti "Natura 2000" il 43 per cento si trova nelle zone di montagna e 118 delle 1.148 specie elencate negli "Annexes II" e "IV" della "Direttiva Habitat" sono legate ad ambienti montani". E ancora: "Variazioni climatiche poco percepibili nelle zone di pianura vengono amplificate nelle aree montane e assumono un valore di diagnosi precoce dell'evoluzione climatica a macroscala, costituendo un'eccezionale fonte di osservazione per la ricerca scientifica e un banco di prova per lo sviluppo e la valutazione delle politiche di adattamento. In particolare le Alpi interessano un’area di 200.000 chilometri quadrati nel cuore d'Europa, sono abitate da 14 milioni di persone e ospitano 120 milioni di turisti all’anno". Ed ecco un passaggio che inizia a mettere i piedi nel piatto: "I cambiamenti climatici sono già in atto e causano: incremento del rischio idrogeologico (alluvioni, frane) e aumento vulnerabilità delle persone e delle infrastrutture, riduzione della disponibilità di acqua soprattutto in estate (anche nei territori adiacenti non montani), cambiamento del regime delle portate dei fiumi (nella regione alpina è attesa una maggior frequenza di piene invernali e siccità estive), riduzione dei ghiacciai (dal 1850 i ghiacciai alpini hanno perso circa due terzi del loro volume con una netta accelerazione dopo il 1985), riduzione del permafrost, riduzione della durata del manto nevoso soprattutto a quote inferiori ai 1.500 metri, cambiamento di frequenza delle valanghe, minaccia alla biodiversità e migrazioni vegetali e animali, cambiamenti nell'economia del turismo invernale ed estivo e della produzione di energia idroelettrica, incertezze nella produzione agricola e danni alla selvicoltura. La sensibilità dell'ambiente alpino a questa rapida evoluzione climatica ne fa una zona di "handicap permanente". L'aumento di temperatura rilevato negli ultimi 150 anni sulle Alpi (+1,5 °C) è doppio rispetto alla media mondiale di +0,7 °C". E venendo a un passaggio più "politico": "Le tradizioni e le culture di montagna si fondano sull'importante concetto della consapevolezza dei limiti ambientali. Le relazioni con gli stretti vincoli fisici del territorio hanno permesso di elaborare nel tempo raffinati criteri di sostenibilità e di uso razionale delle risorse, dagli antichi nuclei abitativi walser al progetto "CasaClima" della provincia autonoma di Bolzano. Questi valori di fondo possono essere integrati in una visione moderna attraverso l’aiuto delle nuove tecnologie, producendo conoscenza e modelli di sviluppo che siano utili non solo alle stesse aree di montagna, ma anche alle zone periferiche, e in molti casi possono assumere valore universale". Il valore generale del rapporto si evidenzia in quest'altro passaggio: "Il cambiamento climatico sfiderà le nostre capacità di adattamento più di ogni altro ostacolo la nostra specie abbia mai affrontato, tuttavia è solo un indicatore parziale di una più complessa crisi ambientale e dell'umanità che interessa anche: disponibilità di risorse naturali rinnovabili (foreste, risorse ittiche, prelievo di biomassa), riduzione della biodiversità, fragilità della produzione alimentare (elevato costo energetico fossile degli alimenti, riduzione del suolo coltivabile, squilibrio dei cicli di carbonio, azoto e fosforo), riduzione della disponibilità di risorse minerarie, riduzione della disponibilità di energia fossile a basso costo (picco del petrolio), inquinamento dell'aria, dell'acqua, dei suoli e accumulo di rifiuti non biodegradabili, aumento demografico e flussi migratori (anche dovuti ai cambiamenti climatici)". Mi fermo qui, perché avremo modo di parlarne più approfonditamente, specie nella parte "costruttiva", che segue alle molte premesse. L'importante, dal punto di vista scientifico, culturale e naturalmente politico era rilevare come, essendo le zone montane ormai un pezzo della coesione territoriale dei Trattati europei, i cambiamenti climatici - malgrado lo stallo derivante dal recente summit a "Rio +20" - restino uno dei problemi più grandi che la politica locale e quella europea devono saper affrontare per le modificazioni fisiche e comportamentali che ne conseguiranno. Capisco che con il rischio di collasso dell'Unione europea appaia come un'inezia, ma è con la normalità che si potrà ripartire.

P.S.: tutto quel che ho scritto resta buono, tranne che - per un guasto tecnico dell'aereo - non sono riuscito a salire in tempo a Bruxelles. Sarà per la plenaria d'ottobre, visto che il parere è passato pur in assenza mia e di Mercalli.