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15 mar 2012

Ricordarsi del Tibet

di Luciano Caveri

Sono piuttosto dubbioso, quando in Consiglio Valle si affrontano problemi di politica internazionale. Non è una scarsa considerazione per il nostro "parlamentino" regionale, ma non essendoci fra i poteri della nostra Regione la politica estera, bisogna evitare di apparire grotteschi. Talvolta, però, è necessario farlo, come avvenuto - sulla base di una mia risoluzione - per tornare, con un evidente valore simbolico, sulle vicende drammatiche del Tibet. Una storia ormai lunga, resa in questo mesi tragica per le decisione di monaci, religiose e semplici cittadini di immolarsi, dandosi fuoco. Una catena di dolore che sembra non spezzarsi. Cinquantatré anni fa come oggi, esattamente il 10 marzo 1959, Lhasa, capitale del Tibet, fu teatro di un'insurrezione popolare contro i militari cinesi che, tra il 1949 e il 1950 avevano invaso il Paese himalaiano, sotto la spinta del comunismo maoista (annessione violenta ispirata da Mao Tse-tung in persona), in evidente violazione dei trattati internazionali e con disinteresse dei Paesi occidentali. Oggi possiamo dire che è stata una tragedia lunga mezzo secolo, perpetrata con meticolosa scientificità da una Cina che ha mirato al genocidio senza cedere un millimetro verso elementari richieste di avere almeno forme autonomistiche e rispetto delle differenze culturali e religiose dei tibetani. Anzi, il dramma tibetano - popolo di montagna come noi valdostani - è diventato oggetto di un processo contraddittorio: esistono reti internazionali di supporto alla causa tibetana e poi ci sono gli interessi economici verso la Cina, che creano imbarazzo e silenzi. Ma la realpolitik non può essere un alibi buono per nascondere una terribile realtà.