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17 nov 2011

Pensiero domenicale

di Luciano Caveri

Ho vinto qualche scommessa, di cui esigerò volentieri la posta in gioco, con le dimissioni di Silvio Berlusconi. Ancora nelle ultime ore, come i giapponesi rimasti a combattere nella giungla dopo la fine della seconda guerra mondiale, c'erano anche da noi berlusconiani duri e puri che mi annunciavano con aria tra il severo e lo scocciato la lunga vita del Cavaliere. Non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire e temo che a Natale mi toccherà regalare qualche apparecchio acustico ai più duri d'orecchio. Non mi stupisce che anche in Valle ci sia chi reagisce al terremoto politico che sta investendo Roma - con maremoti susseguenti - come se fossimo un Granducato e non una Regione autonoma italiana.  Invece sarebbe bene far tesoro degli avvenimenti non solo perché far finta di niente è ridicolo, ma perché la stagione di transizione che stiamo vivendo obbliga a pensare non solo al posizionamento politico ma anche  al destino politico che i valdostani vogliono avere. Forse, dopo averne tanto parlato, le rovine fumanti del post berlusconismo, simile allo scenario di una città bombardata, costringeranno, dopo mille rinvii, a discutere della riforma dello Stato. Tema complesso e pieno d'insidie, perché andrebbe toccata in profondità la Costituzione, cercando cosa unisce e non cosa divide. Nel nostro caso il sacrosanto principio dell'intesa, che fondi giuridicamente la logica politica "pattizia" del nostro Statuto e ciò va fatto ora nel "pacchetto" da stabilire con il Governo tecnico. Prendere tempo, come si è visto nel tramonto drammatico della parabola del centrodestra, non serve.  Mai come oggi l'autonomismo valdostano deve riflettere su se stesso in modo collettivo senza sbranarsi sul recente passato, ma neppure risolvendo certi fatti e misfatti con un sorriso e un'alzata di spalle. Perché "Accà niusciuno  è fesso", come dicono i napoletani.