February 2023

Sanremo e la Costituzione

Leggo diversi commenti sulla performance sanremese di Roberto Benigni sulla Costituzione italiana. Quanto già fece in passato con apposita trasmissione televisiva, che si chiamava con enfasi “La più bella del mondo”. Introdotta da l’Inno di Mameli, la cui bruttezza specie del testo è ormai manifesta, cantata da Gianni Morandi (sic!), l’occasione era ghiotta per la presenza in una sorta di tribuna d’onore in velluto nel cinema-teatro Ariston del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che assomigliava purtroppo alla tribunetta con i vecchietti terribili del Muppet show.
Cito un pezzo di un Tweet di Marco Cantamessa, professore universitario che stimo anche per il suo ruolo di Presidente di CVA: “Fatico a ritrovarmi nel tentativo di rappresentare la Costituzione come forma d’arte, o come testo sacro. E’ la legge fondamentale del nostro Paese, e ne definisce le Istituzioni e il perimetro delle norme, il che è tanto, ma nulla più”.
Le norme giuridiche servono a questo e quel che è bello della Costituzione italiana, almeno nelle parti originali e non in certe norme successivamente inserite, è l’antiretorica presente nel suo articolato con frasi tacitiane, scritte in un italiano inappuntabile. Per questo l’ampollosità sul testo stride, specie se a commentarla – diciamoci la verità – è un comico, pur intelligente e sensibile come Benigni, che incomincia ad avvertire il rischio di ripetitività. Ed anche - spiace aggiungerlo - che ha una scarsa attenzione al fatto che i tempi televisivi si sono fatti più corti e cala facilmente la palpebra.
Tornerò al tema, ma intanto fatemi dire che a Sanremo (dove l’unica digressione accettabile sarebbe stato il video di Zalensky) delle volte bisognerebbe ricordarsi che siamo al Festival della canzone e di conseguenza certi monologhi, come quello imbarazzante di Chiara Ferragni che ha scritto a se stessa bambina, sarebbero meritevoli di spazi altrove.
Dicevo della Costituzione e del suo uso “sanremese”. Evito un excursus storico sul significato profondo delle Costituzioni, quel che conta, senza svolazzi e eccessi, è che le carte fondamentali indicano la strada. Per questo la vecchia educazione civica - oggi riproposta sotto nuova forma - si dovrebbe occupare di un tema cruciale come questo, al posto spesso di spaziare in terreni troppo diversi. Vale a dire della necessità, cominciando appunto dalla scuola ma non ritenendola esaustiva, di avere cittadini che capiscano le fondamenta della Repubblica. Per ottenere la necessaria conoscenza della Costituzione anche i messaggi di Benigni sono utili, ma la spettacolarizzazione non basta, perché poi a seguire ci vuole la sostanza, che non si esaurisce sul palco di Sanremo.
Ci penso sempre rispetto anche al nostro Statuto, che alla fine sono pochi a conoscere davvero e ci vogliono sforzi per far capire come l’Autonomia debba avere una base giuridica, senza la quale ci sarebbe il nulla.
Da un certo punto di vista, proprio in maniera esemplare, ricordo quanto scritto nel decreto luogotenenziale del 1945 all’inizio dell’articolo 1: “La Valle d'Aosta, in considerazione delle sue condizioni geografiche, economiche e linguistiche del tutto particolari, è costituita in circoscrizione autonoma…”.
C’è tutto un mondo in quei tre termini. Geografico è condensato in un solo aggettivo la Montagna nella sua essenza più forte e questo ha a che fare con l’economia e le sue conseguenti particolarità, ma anche con l’aspetto linguistico che non è frutto del caso ma della naturale logica di appartenga a una medesima area con Francia e Svizzera.
Una sorta di triangolo - i luoghi, le attività umane e le lingue parlate - che fonda le ragioni del nostro ordinamento e che sono da tenere a mente in ogni circostanza. Ciò non riguarda solo la storia contemporanea ma un lunghissimo fil rouge che iniziò già in un lontano passato, di cui noi bene o male siamo l’attuale espressione e dovremmo esserne fieri e pure degni.

L’isolamento della Meloni

Il confronto fra l’allure internazionale di Mario Draghi e l’approccio alla vaccinara con il resto del mondo di Giorgia Meloni imbarazza.
Per chiunque fosse andato a Palazzo Chigi dopo l’ex big della BCE il confronto sarebbe comunque risultato difficile. Draghi ha di certo sbagliato molte cose e mi riferisco alla totale incomprensione del regionalismo, ben visibile dal montaggio sbagliato del PNRR e dalla scelta di snobbare la democrazia locale su tanti dossier, ma la sua capacità di dialogare senza complessi, grazie allo status conquistato sul campo, con i leader mondiali è stata indiscutibile.
Fatto fuori interrompendo la Legislatura senza motivi plausibili, l’esperienza con Draghi è finita bruscamente e a furor di popolo è spuntata Meloni. La giovane donna dal passato di estrema destra di estrazione fascista (dirlo è una constatazione) è stata bravissima a sfruttare la situazione con un berlusconismo al tramonto e un salvinismo in crisi. Il centrosinistra tafazziano ci ha messo del suo e la Meloni è assurta al ruolo che ricopre legittimamente e lamentarsene sarebbe ridicolo, avendola spinta una forza elettorale.
Ma questo non significa evitare di notare che, specie nell’Unione europea ma anche nella considerazione con altri Paesi del mondo, siamo scesi di graduatoria e questa è una facile constatazione, priva di qualunque compiacimento. Altri leader italiani del passato sono state figure non particolarmente considerate e dunque non è una novità, però oggi siamo molto giù.
Forse una novità deriva da una qual certa aggressività che, benché neofita nei rapporti internazionali, la Meloni sta dimostrando. In particolare questo vale per il rapporto con la Francia, che sembrava partito bene nel primissimo incontro a Roma, dopo l’elezione della Meloni con buon faccia a faccia con Emmanuel Macron, poi degradatosi. Ultimo episodio la critica, inconsueta nei toni usati dal Presidente (Meloni gradisce il maschile) per la visita a Parigi (ma prima era stato a Londra e anche a Bruxelles) del Presidente ucraino Zelensky e contro il summit franco-tedesco con lo stesso Zalensky. Essere stata snobbata, dopo non aver avuto polso consentendo all’Ucraina di avere voce e soprattutto video al Festival di Sanremo, è bruciato sulla pelle della Meloni, che ha reagito malamente. Si direbbe: coda di paglia e isolamento politico.
Ma esiste qualcosa di profondo in questa lite con Parigi, che ci deve preoccupare. Noi valdostani, con buona pace dei fessi che guardano anche da noi Oltralpe con spirito polemico, coi francesi abbiamo tutta la necessità di mantenere rapporti stretti e di grande comunanza.
Non è solo la francofonia e neppure il confine comune, è il buonsenso tenendo conto della storia vissuta nel tempo coi territori vicini e delle molte cose - rese evidenti dai fondi comunitari - di lavori assieme in diversi settori.
Lo dimostra la questione del traforo del Monte Bianco e chi polemizza coi francesi dimentica la necessità di accordi per disegnare un futuro del tunnel. Ma il quadro è enormemente più vasto: il Trattato del Quirinale, con la cooperazione rafforzata Italia-Francia, è per la Valle uno strumento preziosissimo in molti campi e bisogna essere miopi o ignoranti ad negare la portata storica per il nostro futuro.
Ma la conditio sine qua non è che i rapporti bilaterali Italia-Francia non vengano avvelenati da logiche di un nazionalismo italiano da operetta, pernicioso se non ridicolo. Meloni capirà presto che solo con dei buoni rapporti con tutti (che non vuol dire non difendere le proprie posizioni) avrà un posto e non uno sgabellino con i Grandi del mondo e otterrà - se ne sarà capace - quel peso essenziale per avere un ruolo motore nell’Unione europea.

Ferragni, l’influencer

"Influencer”, chi diavolo sei? Questo nuovo mestiere è così riassunto dalla Treccani: ”Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
Ha scritto, più approfondendo, un esperto dei Social, Stefano Gallon: "Un influencer è un utente con migliaia (se non milioni) di seguaci sparsi sui vari social network; può essere uno YouTuber, un Instagramer, un blogger o avere semplicemente una pagina su Facebook dove condivide foto, video e contenuti vari. Fin qui è come un qualsiasi utente nella rete, ma a differenza degli altri, l’Influencer è in grado letteralmente di influenzare i suoi followers". Questo, detto brutalmente, significa commercio e soldi.
Laura Fontana su rivistastudio.com ha spiegato molto bene perché è una delle star del settore, il cui ruolo oggi pare scricchiolare. Ecco cosa ha scritto: ”Chiara Ferragni partecipa a Sanremo non all’apice del suo successo. Lo dicono le metriche social, lo dice l’engagement; la sua massa di follower è stabile sui 34,6 milioni tra Instagram e TikTok, ma Khaby Lame ne ha 234,4 milioni, ammassati in meno di due anni. Durante la prima serata di Sanremo, Chiara Ferragni viene citata in 55mila contenuti online, ma Blanco arriva agilmente a 150mila. Tra i top hashtag #chiaraferragni si ferma al decimo posto. Webboh, termometro di cosa interessa alla generazione Z, dedica la prima card del dopo-Sanremo sempre a Blanco. Chiara Ferragni ha fatto di sé stessa un content e in quanto tale vale solo quanto riesce a stare sulla cresta dell’hype. È il motivo per cui alla fine ha accettato di andare a Sanremo; a differenza di quando era ancora solo una fashion blogger, adesso la concorrenza è aumentata esponenzialmente, Instagram sta perdendo la battaglia contro TikTok, e l’algoritmo comunista di TikTok le è meno amico. Rimanere in hype è un lavorio giornaliero: gli influencer ragionano per content, frammentano le loro vite, le spezzettano e le riadattano ai formati, alle challenge, alla musica virale del momento; poi tutto viene portato in dono al dio algoritmo, che decide a chi tocca il jet privato e i viaggi pagati a Dubai, e a chi no”.
Insomma, fuori dal mito, una professione che lei ha interpretato con grande maestria e intelligenza e che la obbliga però a stare sulla cresta dell’onda: ”Chiara Ferragni è stata tra i primi in Italia a concepire la vita interamente come content, tra l’altro con grande successo avendo il dono naturale della viralità. Dono che si manifesta curiosamente molto più di frequente nei corpi di giovani fanciulle dall’aspetto virginale, meglio se bionde, con occhi azzurri e fisico longilineo. Chiara Ferragni, devota ancella dell’algoritmo, ha da sempre dato tutto di sé: la sua quotidianità, le sue relazioni, la famiglia, le sorelle, il cane, il matrimonio, i figli. Donando tutto di sé stessa, ha preteso e ricevuto in cambio moltissimo ma non ha mai accettato e neanche capito i commenti non adoranti. L’unico commento possibile è come quello che le lascia la mamma a ogni post: «Bravissima e bellissima, amore mio!». Ultimamente invece, oltre al calo dai dati, ha dovuto vedersela con critiche molto più specifiche e ragionate, queste non cucite sul vestito a differenza di «hai le tette piccole»: la beneficenza performativa, il dibattito sul diritto alla privacy dei bambini usati come leve per l’engagement.
La Ferragni finché ha potuto ha mutato forma come muta forma continuamente il mondo virtuale. Prima erano le giovani Millennial che la seguivano, trovando in lei un modello di ragazza che fugge dalla provincia e finisce a Los Angeles. Il periodo losangelino della Ferragni è quello che preferisce ricordare di meno: diventa più magra, scurisce i capelli, segue i consigli del fidanzato americano, fotografo bello e tenebroso, probabilmente quello che le ha fatto “violenza psicologica”, probabilmente quello che le ha fatto notare che Hollywood non è CityLife e se vuole avere successo lì, il sacrificio richiesto è ancora più alto. A Los Angeles, Chiara soffre di solitudine, non ha vicino quella rete familiare che a Milano la sostiene; i brand che ama continuano a snobbarla, le Chanel dovrà continuare a comprarsele da sola, si imbuca ai party di Louis Vuitton sognando di diventare il volto del brand, cosa che non succederà. Torna in Italia e arriva il raggio di luce alla fine del tunnel: Fedez. Si fondono e diventano entità unica, i Ferragnez, si scambiano gli anelli e uniscono l’engagement, raggiungendo il picco massimo con il matrimonio e poi con la prima gravidanza. Raggiunta la cima, inizia la discesa: la condivisione minuto per minuto della crescita del feto porta tanti follower a smettere di seguire l’influencer. La documentazione sistematica della vita del figlio mette ansia: Leone Lucia Ferragni fa parte di quei bambini online di cui puoi riavvolgere e rivedere in un attimo la sua vita scrollando all’indietro i feed dei genitori. Oggi a seguire la Ferragni sono rimaste ancora alcune ragazze di provincia alla ricerca di visibilità, ma locale più che internazionale. Le borse brandizzate Chiara Ferragni non vanno a ruba a Rodeo Drive ma da Monelli Kids. Il nuovo pubblico della Ferragni sembra fatto soprattutto di audience mature, di nonni lontani fisicamente dai propri nipotini, o desiderosi di nipotini che non avranno, che trovano un palliativo nella relazione parasociale con Leone e Vittoria. I figli diventano il perno centrale del piano editoriale. Gli unici altri momenti in cui i numeri salgono di nuovo è quando posta foto in intimo”.
Poi la Fontana - che certo innervosirà certi fans - smonta per filo e per segno l’esibizione sanremese della influencer e il flop avuto rispetto alle reali intenzioni. Personalmente penso che abbia fatto il pari con il pistolotto notturno assai dubbio sul palco sanremese del marito Fedez. Meglio le canzonette estive e, assieme alla moglie, lo spaccio di prodotti, certo in modo più elegante e tecnologico di come avveniva con le vecchie televendite, perché inserito nello storytelling familiare.

La Corte Costituzionale e la pandemia

La pandemia speriamo risulti davvero un ricordo. Verrebbe voglia di aggiungere “da dimenticare”, mentre in realtà la lezione è da ricordare bene e farne tesoro per le minacce di episodi analoghi che il mondo della scienza annuncia in futuro come eventi purtroppo certi.
Sembra passato chissà quanto tempo dalla ruvida esperienza delle restrizioni e degli isolamenti. Forse questi eventi ci hanno fatto capire l’importanza di certe libertà personali e collettive, compresse dall’emergenza sanitaria. Resto convinto che molte cose abbiamo funzionato come un generale senso di responsabilità e di civismo, ma certi meccanismi di restrizione - senza tener conto delle situazioni locali - sono stati subiti con strumenti giuridici impropri con tempi di imposizione troppo stretti e mal comunicati.
La logica di una gestione pandemica diretta in toto dallo Stato, come decisa dalla Corte Costituzionale su di una legge regionale valdostana che intendeva regolare meglio l’impatto delle misure sulla nostra Regione, non la ritengo logica ancora oggi. La flessibilità di applicazione non è lassismo, ma capacità logica di adeguarsi a situazioni particolari non generalizzabili.
Il problema più grande e l’ho vissuto con insulti e minacce è stato il sorgere del variegato fenomeno NoVax, di cui resta qualche cascame e che ha assunto un carattere assai divisivo anche da noi con bagliori complottisti e settari. Aggregazioni che meriterebbero uno studio apposito per capire il cemento che ha unito persone diverse nel destino di contestatori del “sistema” e una parte di loro è pure diventata filorussa o vive in quel perimetro di discipline spiritualiste e animiste detto un tempo “alternative”.
In questi giorni è, intanto, uscita una decisiva sentenza della Corte Costituzionale.
La commenta Ermes Antonucci sul Foglio, che ricorda come già si sapesse che erano state ritenute “legittime le norme che hanno introdotto l’obbligo vaccinale contro il Covid19 per il personale sanitario e, soprattutto, la sospensione dal lavoro dei sanitari non in regola con le dosi”.
Così spiega: “Nelle sentenze la Consulta ha evidenziato alcuni principi che vale la pena ricordare, soprattutto ai tanti No vax che ancora affollano politica, informazione e social network.
Come prima cosa, la Corte ha ritenuto che la scelta assunta dal legislatore al fine di prevenire la diffusione del virus, limitandone la circolazione, “non possa ritenersi irragionevole né sproporzionata, alla luce della situazione epidemiologica e delle risultanze scientifiche disponibili”. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, affida al legislatore il compito di bilanciare, alla luce del principio di solidarietà, il diritto dell’individuo all’autodeterminazione rispetto alla propria salute con il coesistente diritto alla salute della collettività: esistono diritti individuali, questo è vero, ma anche “doveri inderogabili, a carico di ciascuno, posti a salvaguardia e a garanzia dei diritti degli altri”.
Per bilanciare queste situazioni, il legislatore ha tenuto conto dei dati forniti dalle autorità scientificosanitarie, nazionali e sovranazionali preposte in materia (Agenzia europea del farmaco, Istituto superiore di sanità, Agenzia italiana del farmaco) circa l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, e, sulla base di questi dati scientificamente attendibili, ha operato una scelta che non appare inidonea allo scopo, né irragionevole o sproporzionata.
“Relativamente al profilo della sicurezza, l’iss attesta che ad oggi miliardi di persone nel mondo sono state vaccinate contro il Covid-19. I vaccini anti SARS-COV-2 approvati sono stati attentamente testati e continuano ad essere monitorati costantemente. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno confermato la sicurezza dei vaccini anti Covid-19”, si legge nella sentenza n. 14 del 2023. I dati, proseguono i giudici costituzionali, non solo “attestano concordemente la sicurezza dei vaccini”, ma anche “la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus, come emerge dalla diminuzione del numero dei contagi, nonché del numero di casi ricoverati, in area medica e in terapia intensiva, e dall’entità dei decessi associati al SARS-COV-2 relativi al periodo che parte dall’inizio della campagna di vaccinazione di massa risalente a marzo-aprile 2021” “.
Spiega ancora Antonucci: ”Per la Consulta, l’idoneità dell’obbligo vaccinale “vale con particolare riferimento agli esercenti le professioni sanitarie”: “E infatti, l’obbligo vaccinale per tali soggetti consente di perseguire, oltre che la tutela della salute di una delle categorie più esposte al contagio, il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività”. Non è un caso che misure simili siano state adottate anche in altri paesi, come Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti.
Anche la conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, vale a dire la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, risulta per la Consulta “non sproporzionata”: “Il sacrificio imposto agli operatori sanitari non ha ecceduto quanto indispensabile per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, ed è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria, peraltro rivelandosi idoneo a questi stessi fini”. Del resto, l’alternativa, vale a dire il ricorso a tappeto ai test antigenici ogni due o tre giorni, avrebbe comportato “costi insostenibili” e “uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia”. Per di più, il ministero della Salute ha attestato come la campagna vaccinale tra gli operatori sanitari abbia determinato un netto sviluppo dell’immunità rispetto al resto della popolazione.
Su questo aspetto c’è un passaggio della Corte costituzionale che merita di essere posto in risalto: “Il diritto fondamentale al lavoro, garantito nei principi enunciati dagli articoli 4 e 35 della Costituzione (…), non implica necessariamente il diritto di svolgere l’attività lavorativa ove la stessa costituisca fattore di rischio per la tutela della salute pubblica e per il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” “.
Mi paiono spiegazioni chiare e fanno evaporare una serie di tesi contrarie, che abbiamo sentito ripetute in questi anni.

Bizzarrie della comunicazione politica

Ci sono evoluzioni della comunicazione politica che stupiscono. Non si finisce davvero mai di imparare, anche dopo anni di esperienza nel settore. Questo significa mantenersi vigili e scoprire filoni nuovi e aggiornarsi in un mondo che cambia, restando poi per molti versi - e non sempre per fortuna - immutato a causa della natura umana.
Come sempre, il caso valdostano sembra utile come laboratorio di certe nuove tendenze e lo dico, per evitare ambiguità, con un pizzico di ironia. Specie in un periodo nel quale - per le continue instabilità di governo - non credo che chi fa politica in Valle d’Aosta e forse nel mondo terraqueo goda di grande popolarità e qualunque sia la sua storia personale conta poco per fare dei distinguo.
Una volta esistevano i partiti. Non che non ci siano più, ma sono diventate creature fragili, conseguenza del fatto che le granitiche appartenenze del passato non ci sono più. Lo si vede da elettori che non seguono più una linea, ma saltabeccano dagli uni agli altri, azzoppando leader dopo averli fatti salire in cima. In più mancano risorse economiche, essendoci stata a suo tempo la scelta sull’onda populista che nessun finanziamento pubblico dovesse aiutare le organizzazioni politiche.
Una volta i dibattiti su temi politici - che poi riguardano qualunque cosa! - si facevano soprattutto nelle assemblee, nel caso valdostano il Consiglio Valle, cuore della democrazia rappresentativa, almeno fino a quando il voto conterà qualche cosa. Ma l’attenzione dell’opinione pubblica, anche per colpa dei politici, non c’è più, malgrado le dirette dei lavori che stravolgono pure la dialettica interna. Molti infatti parlano solo a favore delle telecamere e non degli interlocutori in aula e dunque più che trovare sugli argomenti posizioni di compromesso si usa la benzina per appiccare i fuochi della polemica. La perenne campagna elettorale e l’idea di alcuni che la politica sia solo la ricerca del consenso per le elezioni che verranno di certo non aiutano.
Certo una parte della comunicazione passa sui Social, ma non è facile farlo perché l’attenzione alla fine è minima e si passa avanti su qualunque tema che invecchia in poco tempo e ciò avviene senza troppi approfondimenti. In più la litigiosità intrinseca in questi dibattiti virtuali stravolge tutto e butta in vacca ogni reale confronto e ci sono distributori che si divertono a peggiorare le cose.
Ma la novità più clamorosa viene da un vecchio strumento che vive ancora e anzi troneggia nella politica valdostana: il comunicato stampa. Che cosa sia lo sappiamo tutti, ma il nuovo uso - nelle mani di esponenti e di partiti - è fantastico, perché paradossale, perché offre visibilità eccessiva a chi in realtà conta poco per decisione degli elettori.
C’è infatti chi o assente in Consiglio Valle o in opposizione con piccoli numeri inonda le redazioni di prese di posizione le più eclettiche che vengono riprese senza nessun filtro e soprattutto senza alcuna proporzionalità. Chi sfrutta questo filone con logica compulsiva, che fa da contrappunto a qualunque decisone democraticamente presa da chi governa, appare così più grande di quello che è. Quel che conta è apparire e questo avviene se poi c’è chi, in uno strano concetto di democrazia, dà loro spazi non corrispondenti alla loro reale rappresentatività. Il vecchio problema fra l’essere e l’apparire…
Una situazione ridicola che falsa la comunicazione con giornalisti che spesso inconsapevolmente e talvolta consapevolmente diventano i megafoni del nulla. Mai proposte, solo proteste o critiche, verso chi le cose le cose le fa: una politica di rimessa facile e comoda.

Non sottostimare San Valentino

Che i maschi all’ascolto ne abbiano consapevolezza: San Valentino nel tempo si è trasformato in una trappola e vi spiegherò bene il perché. Una specie di manuale d’uso, che è frutto di una certa esperienza pregressa,
Intanto, ricordiamo il percorso, prima di esplicitare le conclusioni che indicano la strada percorribile, nel caso in cui - beninteso - siate nelle condizioni di condividere la festa con chi desiderate, come da copione.
L'origine di San Valentino, come spesso capita, parte dalla necessità per la Chiesa cattolica di "cristianizzare" (lo ha fatto per molto altro) il rito pagano della fertilità, praticato dagli antichi romani.
A metà febbraio, fin dal quarto secolo a.C., iniziavano infatti le celebrazioni dei "Lupercali", per tenere i lupi lontano dai campi coltivati, quanto sulle Alpi - con il moltiplicarsi dei lupi - rischia di diventare di stretta attualità, anche se i rimedi oggi non potranno essere ovviamente gli stessi…
Allora i sacerdoti di questo ordine entravano nella grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo, e qui si svolgevano sacrifici e riti propiziatori. Contemporaneamente lungo le strade di Roma veniva sparso il sangue di alcuni animali. I nomi di uomini e donne venivano inseriti in un'urna e poi mischiati; quindi un bambino estraeva i nomi di alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità, affinché il rito della fertilità fosse concluso. 
Per cui, con l’avvento del cristianesimo che certo non poteva tollerare logiche così promiscue, nel 496 d.C. Papa Gelasio annullò la festa pagana, decretando che venisse seguito il culto di San Valentino, vescovo romano che era stato martirizzato con la brutta fine purtroppo consueta agli albori della Chiesa.
Per riassumere il concetto: San Valentino ha incanalato in modo religiosamente…corretto quanto prima risultava eroticamente sfrenato. Ricordo ai tempi del Ginnasio quanto ci fosse da ragionare per capire, nello studio della antica letteratura greca, l'amore in diverse sfumature: familiare ("storge"), di amicizia ("philia"), il desiderio erotico ma anche romantico ("eros"), infine l'amore più prettamente spirituale ("agape") e ci sono molte altre sottigliezze e c'è difficoltà di trovare certi confini e fra gli uni e gli altri. Chi oggi predica il “fluido” e il “gender” potrebbe scoprire di aver inventato l’acqua calda.
La giornata di oggi si gioca molto attorno a un simbolo antico, che è quello del cuore. Cuore e Amore: un binomio di cui difficile fare a meno e che ha avuto le più varie declinazioni da livelli altissimi alla banalità più evidente da Baci Perugina. Un esempio elevato? "On ne voit bien qu'avec le cœur. L'essentiel est invisible pour les yeux" (Antoine de Saint-Exupéry).
Ma veniamo al fatto che non ci dobbiamo distrarre o prendere la data sottogamba per evitare problemi con l’altra metà del cielo.
Sarà pure vero, infatti, che ho personalmente assistito al gonfiarsi commerciale di San Valentino, che da passaggio senza troppe pretese è assurto - ecco il punto - ad occasione affinché anche il maschio più distratto comprendesse le ragioni per pensare ad un regalo, ad esplicitare un pensiero, ad organizzare una serata. Quanto non sempre ci riesce con brillantezza. Altrimenti il rischio, tipo calcio, è di passare direttamente al cartellino rosso senza passare attraverso quello giallo. Per cui bisogna stare vigili e reattivi.
Nel mio caso Mara mi aspetta a piè fermo per vedere se e come mi ricorderò di lui, San Valentino, e di conseguenza di lei. Sono già attrezzato!

Il presidenzialismo non è una bacchetta magica

Leggo con distratta curiosità dell’esito delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia. Vince il Centrodestra senza se e senza ma e non penso che ci si debba stupire perché è ancora, dopo le Politiche, sulla cresta dell’onda. Sott’acqua non tutto è così facile all’interno della coalizione, ma quando si vince tutto si aggiusta.
L’astensionismo resta il trionfatore di questa tornata elettorale e temo che questa scelta di disertare le urne non sia ancora sufficientemente compresa dal mondo politico. Ormai è una malattia della democrazia, cui bisognerebbe reagire con una spiegazione semplice e cioè che la democrazia è e resta partecipazione.
Nel caso delle Regionali la polarizzazione sulla sola figura del Presidente eletto non aiuta a difendere una democrazia diffusa con Consigli regionali al guinzaglio di un solo protagonista posto sul trono.
Ci ragioni la vasta truppa che in Valle d’Aosta predica il presidenzialismo come bacchetta magica.

La guerra dei palloni

Nell’Italia pallonara, dove ormai l’unico quotidiano che tiene e persino cresce sul mercato è la Gazzetta dello Sport (135.166 copie a dicembre con un clamoroso più 41,2 per cento sul 2021), il titolo “La guerra dei palloni” farebbe pensare a chissà quale storia calcistica.
Invece tocca riferirsi a questa specie di Spy fiction della guerra dei cieli fra Stati Uniti e Cina con un reciproco palleggiarsi (mi scuso per la banalità del verbo) sul sorvolo nei cieli di palloni spioni.
Il passo indietro è intriso di nostalgico romanticismo. Su National Geographic si legge: “Era il primo dicembre del 1783. Nel giardino reale delle Tuileries, a Parigi, si riunì una grande folla; secondo alcune fonti, si sarebbero radunate addirittura 400mila persone. Tutti i presenti volevano assistere a uno spettacolo che nessuno si sarebbe immaginato fino a poco tempo prima: quello di due uomini pronti a sollevarsi fino al cielo a bordo di un pallone riempito d'idrogeno.
Da giorni in città non si parlava d’altro e l’avvenimento aveva avuto grande eco sui giornali. Gli spettatori gremivano le banchine e i ponti, le finestre e le terrazze delle case, i campi e i villaggi circostanti. Ancor prima del suo decollo, la semplice vista dell’aerostato, con un diametro di nove metri e realizzato in seta, destò meraviglia. Al di sotto dell’imboccatura del pallone era collocata una robusta cesta di vimini destinata ad accogliere i due aeronauti: il fisico Jacques Charles e il suo assistente, Nicolas-Louis Robert”.
Ma quell’anno ricorda lo stesso giornale non finì lì: “Il 4 giugno del 1783, nella piazza principale di Annonay, davanti ai notabili locali e a un’ampia folla accorsa per l’occasione, i fratelli Montgolfier diedero la prima dimostrazione pubblica del volo di un globo ad aria calda. Un aerostato con una circonferenza di 30 metri, e senza alcun equipaggio, coprì un chilometro in un quarto d’ora, tenendo un’altezza di 2000 metri, e ridiscese una volta che l’aria al suo interno si fu raffreddata”.
Naturalmente questa novità non passò inosservata già allora ai militari e il Post in questi giorni ha non a caso ricordato: “L’idea di utilizzare i palloni aerostatici per la sorveglianza in ambito militare fu messa in atto fin subito dopo l’invenzione della mongolfiera da parte dei fratelli francesi Montgolfier nel 1782–1783.
Il primo a usare in battaglia i palloni aerostatici fu l’esercito francese, che li impiegò per la prima volta nella battaglia di Fleurus del 1794, una delle prime della Francia rivoluzionaria contro le altre potenze europee. Per l’occasione, l’esercito francese creò anche un Battaglione aerostatico. Al tempo i palloni aerostatici erano usati soprattutto come mezzi di osservazione: erano riempiti di idrogeno o elio e rimanevano ancorati al suolo tramite cavi di metallo. Servivano per osservare il campo di battaglia dall’alto, gestire la sistemazione delle truppe e i colpi dell’artiglieria”.
E, venendo ad oggi, si osserva: “A favorire il ritorno dei palloni aerostatici potrebbe esserci il fatto che le fotocamere e gli altri sistemi di sorveglianza ormai hanno raggiunto un tale livello di miniaturizzazione che anche apparecchi molto sofisticati possono essere montati su un pallone, e fornire dati e immagini di ottima qualità. Un pallone aerostatico oggi può montare fotocamere e videocamere, radar, sensori di vario tipo, strumenti di comunicazione e pannelli solari per dare energia al tutto.
I satelliti sono e rimarranno ancora per molto tempo lo strumento migliore per attività di sorveglianza e spionaggio, ma i palloni aerostatici potrebbero fornire una valida alternativa in alcune circostanze”.
A me la cosa che ha divertito di più di questa disputa nei cieli è il risveglio degli ufologi, che alla notizia che americani e canadesi hanno abbattuto “oggetti non identificati” si sono eccitati, annunciando il possibile arrivo degli alieni.
In effetti in quest’epoca di tante difficoltà mancano solo loro perché interessati ad invaderci, come avvenuto in tanti film di fantascienza. Se davvero, come sostengono alcuni (da ragazzo lessi le teorie di questo tipo di Peter Kolosimo) sono ormai millenni che ci spiano, allora potremmo essere tranquilli, perché conoscendoci a fondo avrebbero già deciso da tempo di lasciarci perdere…

L’utilità della comparazione

È stato molto interessante partecipare a Bolzano/Bozen ad un incontro dedicato al plurilinguismo nelle scuole della Provincia autonoma. Realtà molto particolare con tre tipi di scuole, a seconda dell’appartenenza etnica, quella italiana, quella tedesca e quella ladina.
Non è toccato a me presentare il modello valdostano dal punto di vista tecnico, perché lo ha fatto chi ha maggior competenza di me, essendomi invece concentrato su aspetti giuridici che riguardano minoranze linguistiche e affini ovviamente nel settore scolastico.
Il punto di partenza è stata nella mia presentazione la celebre frase di Emile Chanoux, che campeggia su di una parete del Consiglio Valle.
La ricordo: ”Il y a des peuples qui sont comme des flambeaux, ils sont fait pour éclairer le monde ; en général ils ne sont pas de grands peuples par le nombre, ils le sont parce qu'ils portent en eux la vérité et l'avenir”.
Chanoux si riferiva alla Svizzera e in fondo questo vale per la Valle come per molte altre comunità alpine ed è da sempre l’esempio federalista della convivenza, come appunto avviene nella Confederazione elvetica, di più lingue (francese, tedesco, italiano, romancio), senza turbare un senso identitario più vasto.
Concetti ben ripresi da quel famoso documento, frutto dei valdostani e dei valdesi, la Dichiarazione di Chivasso, che si avvicina ai suoi 80 anni e bisognerà celebrarla e anche, se lo sapessimo, fare un testo attualizzato.
Ricorso solo due passaggi della Dichiarazione che segnalavano il disastro della dittatura fascista sulle Alpi: “DISTRUZIONE DELLA CULTURA LOCALE, per la soppressione della lingua fondamentale del luogo, là dove esiste, la brutale e goffa trasformazione in italiano dei nomi e delle iscrizioni locali, la chiusura di scuole e di istituti autonomi, patrimonio culturale che è anche una ricchezza ai fini della migrazione temporanea all'estero; la libertà di lingua, come quella di culto, è condizione essenziale per la salvaguardia della personalità umana; che il federalismo è il quadro più adatto a fornire le garanzie di questo diritto individuale e collettivo e rappresenta la soluzione dei problemi delle piccole nazionalità e minori gruppi etnici, e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l'avvento di una pace stabile e duratura”
Basi importanti che furono espresse in parte per la Valle d’Aosta nel
Decreto luogotenenziale del 1945, che sancì le ragioni geografiche, economiche e linguistiche della prima Autonomia, confermata - anche con il bilinguismo - nello Statuto speciale del 1945, cui dal 1993 si è aggiunta la germanofona comunità walser. Analogamente nello Statuto del Trentino Alto Adige si riconobbe il particolarismo linguistico, specie della comunità tedesca, cui si aggiunse la preziosa tutela internazionale dell’Austria, purtroppo non esistente per la Valle d’Aosta.
Alla Costituente fu l’azionista Tristano Codignola a chiedere con un intervento accorato una norma quadro per le altre minoranze linguistiche in Italia attraverso quanto poi previsto all’ultimo dal dispositivo dell'art. 6 Costituzione: ”La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.
Troppi anni ci sono voluti per avere questa legge, che esprime anche in materia scolastica, una varietà di modelli assai diverso. La legge n. 482 del 1999 recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche-storiche” - che è anche in buona parte una mia creatura - riconosce dodici minoranze: albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda.
Ognuna di queste minoranze ha modellistiche sue, quasi sempre non ripetibili, anche in campo scolastico. Ogni aspetto comparativo e qualunque esempio torna comunque utile per tutti gli altri. E confrontarsi, sempre per capire come migliorare, è esercizio di grande utilità.

Pensieri notturni

Capita ogni tanto di mettersi da soli su una specie di lettino dello psicanalista e pensare a se stessi e a posizionarsi rispetto alla propria vita.
Esemplare è quando questo accade la notte, magari in un momento di dormiveglia, quando - credo sia capitato a tutti - i problemi si gonfiano come i fantasmi notturni di Ebenezer Scrooge, il personaggio dickensiano del racconto Canto di Natale.
Così riflettevo sulla politica non solo valdostana, anche se quella in questi mesi naviga in acque procellose e non è una novità, pensando a quanto cerco di riportare in ordine sparso.
Nessuno obbliga nessuno a fare politica e mi riferisco in particolare a chi sta nelle istituzioni con ruoli di diversa importanza. Nel senso che per finirci ti devi candidare e farlo è una scelta consapevole senza costrizioni.
Per cui chi c’è non si deve mai lamentare di esserci finito, perché la situazione è stata scelta e perseguita, se si viene eletti è perché si è partecipato senza costrizioni.
Però questo non significa, almeno di tanto in tanto, guardare allo stato della situazione e fare qualche riflessione senza offendere nessuno.
Che la Politica e con essa i politici abbiano una cattiva fama è facile constatarlo. Per altro in democrazia la scelta degli eletti la fanno gli elettori, per cui giusto tirare le freccette sui politici, sapendo però che la loro salita è dipesa dai cittadini che li hanno scelti. Invece, il tam tam sulla Casta ha finito per mettere tutti nello stesso pentolone e attizzare il peggio del peggio è certa politica ci ha messo del suo a dare eco anche alle maldicenze.
Posso testimoniare come sia pieno di persone che fanno politica, mista ad amministrazione, con tutto l’impegno possibile. Non si può però negare che il gradiente di conoscenza utile per svolgere questo lavoro (pro tempore, ma pur sempre lavoro) si sia abbassato nel tempo e certe professionalità - non solo legate al titolo di studio, ma anche all’esperienza - si siano assottigliate. E non è certo un bene.
L’altro aspetto e il venir meno di un rispetto reciproco di fondo fra politici, senza nulla togliere alla dialettica spesso piena di polemica che fa parte del gioco. Il bon ton è crollato con fenomeni politici rozzi di stampo populista e demagogico, che hanno trovato terreno fertile nell’uso volgare e spregiudicato dei Social. Non ci sono più avversari politici ma nemici e il confronto scade nel dileggio e persino nella menzogna. Anche in questo caso vale la regola che può non piacere di doversi adeguare ai costumi in uso, per quanto disdicevoli .
Se si guarda l’altra parte della barricata, rispetto a chi fa politica, spiace constatare che esiste una crescente ignoranza degli elementari principi istituzionali che reggono le nostre istituzioni.
Ha scritto di recente sull’astensionismo su Huffpost di Pierluigi Battista: “Astenersi non è un difetto, è un altro modo di esercitare il proprio diritto a dire No. O a dire che non mi piace nessuno. O a dire che non ve lo meritate, il mio voto. Astenersi è protestare democraticamente contro una cessione troppo disinvolta e spensierata della volontà popolare. Se mi fate la lezioncina da primo anno di diritto costituzionale, sul fatto che non sono le urne a decidere i governi e che dunque i partiti possono fare e disfare governi come pare a loro, uno poi è tentato di dire: fate quello che vi pare, ma non fatemi perdere tempo”.
Può essere così e non lo nego. Ma esiste anche la già accennata altra faccia della medaglia e cioè un astensionismo da beoti, che hanno perso il valore della democrazia e non la praticano perché non ne hanno consapevolezza.
Insomma: situazione complessa e fantasmi spariti ai primi bagliori dell’alba.

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