September 2022

Il telefonino a scuola

Ho già detto e ridetto di come il telefonino incomba sempre in modo più largo possibile, dimostrandosi un dispositivo dall’uso plurimo con aggiunte continue che ne dimostrano l’impressionante espansione. Se tanto mi dà tanto è legittimo chiedersi quali ne saranno gli sviluppi futuri e sino a dove ci spingeremo nell’accettare la loro invasività nella nostra vita.
Resto convinto che non ci si debba negare qualunque cosa che, nel limite del ragionevole, espanda la nostra intelligenza e il uso, fornendoci informazioni, notizie, strumentazione e tutto quanto verrà reso possibile per supportarci. Non c’è bisogno di un nuovo luddismo legato alla digitalizzazione e, come si dice, chi si ferma è perduto e basta poco per trovarsi ad arrancare dietro alle novità di oggi e di domani.
Mi ha incuriosito, giorni, fa questa notizia del Corriere della Sera: “Cellulare in classe: bandito nelle ore di lezione. Entra in classe sì, ma ciascun alunno al suono della campanella è tenuto a consegnarlo al professore, il quale lo ripone in un armadietto che rimane inaccessibile, chiuso a chiave, per tutta la mattinata. Ogni ragazzo torna poi in possesso del proprio smartphone, sempre per tramite del docente, al termine delle sei ore, quando deve far rientro a casa”.
Ma c’è di più: “E gli insegnanti non fanno eccezione: il cellulare deve rimanere nel cassetto. E’ quanto accade al liceo Malpighi di Bologna. «Per noi le nuove tecnologie non sono il male, abbiamo appena inaugurato un liceo quadriennale di scienze applicate, per la transizione ecologica e digitale, solo dobbiamo uscire da queste dipendenze, da cellulare e social appunto che sono anche di noi adulti» fa sapere la dirigente scolastica delle scuole Malpighi, Elena Ugolini. «Ora, abbiamo ricominciato l’anno scolastico guardandoci in faccia, senza più mascherina a cui siamo stati costretti causa covid – continua la referente – un inizio all’insegna della presenza, dell’ascolto, della relazione e concentrazione per tutto il tempo delle lezioni. Senza cellulare i ragazzi non sono continuamente distratti, sono invece più concentrati e in relazione»”.
Niente di eccezionale, se risultasse vero quanto scritto dal portale Studenti.it, secondo il quale lo smartphone viene «sequestrato» alla prima ora e restituito all’uscita nel 26% delle scuole italiane sulla base dell’autonomia scolastica.
Giorni dopo ne parlato anche il prefetto di Bologna Attilio Visconti, partecipando all’inaugurazione dell’anno scolastico sempre a Bologna. «Sarebbe opportuno che gli studenti mantenessero il cellulare e sapessero usarlo, che avessero la coscienza e la maturità di sapere quando il cellulare può essere usato e quando invece può essere non usato», ha detto il prefetto. «Un po’ quello che avviene per noi quando partecipiamo a un convegno o a una riunione — ha aggiunto — certo non ci mettiamo li con il telefonino e se ci arriva una telefonata o un messaggio lo rinviamo a un momento successivo. Credo che si debba lavorare su questo, sull’educazione all’uso del cellulare. Credo poi che l’autonomia scolastica vada sempre rispettata in tutte le sue manifestazioni».
Dichiarazione abbastanza ambigua, mentre la responsabile della scuola è stata esplicita e trovo condivisibile il suo pensiero. Ne ho parlato - in modo incidentale - ieri al Don Bosco di Châtillon, che ha ragazzi che vanno dalle primarie di secondo grado alle Superiori. Notando come vi sia al momento un elemento di contraddizione. Da una parte la digitalizzazione sarà sempre più una presenza indispensabile nella scuola con strumentazioni varie che rendono ogni scuola collegata con reti varie che posso offrire un mare di applicazioni e di informazioni a servizio di studenti e docenti. Dall’altra il telefonino – che alcune scuole già integrano nella didattica con un uso intelligente – può essere uno strumento, se mal adoperato, di distrazione di massa e con un uso sconsiderato se non pericoloso.
Ha ragione il Prefetto che ci vuole educazione all’uso anche se si posso adoperare mille accortezze per limitarne un uso negativo. Tuttavia, intanto, misure drastiche, come quelle prese nella scuola bolognese, possono evitare il peggio e spingere verso una transizione. Certo proibizionismo potrà finire, quando il telefonino potrà figurare a pieno come strumento didattico.

Europeismo senza tentennamenti

Ultime battute di una campagna elettorale lunare, nata d’estate e che si conclude sulla porta d’ingresso dell’autunno. Lunare perché paga l’indifferenza del periodo e il fatto di essere frutto di una Legislatura conclusasi anzitempo con una coltellata alle spalle al Premier Mario Draghi. Da parte mia nessuna santificazione del Presidente del Consiglio “tecnico”, ma sarebbe stato logico andare al voto nei tempi dovuti, avvolti in più come lo siamo da problemi enormi che sconsigliavano l’instabilità.
Ciò detto è inutile stupirsi: il caos politico è stata la cifra di questi anni e non bisogna essere degli indovini per prevedere che questa fibrillazione continua – da cui per altro la Valle d’Aosta non è per nulla estranea – sarà destinata a proseguire in Italia e ci sono già quelli che prevedono possibili nuove elezioni politiche in un tempo breve. Poi ci si stupisce del fatto che il primo partito in crescita sia quello degli astensionisti.
Per chiarezza – e approfitto della circostanza – io voterò la lista Vallée d’Aoste, la stessa in cui sono stato eletto deputato quattro volte ed una volta parlamentare europeo. Chi segnala che io sia ancora arrabbiato per la mia mancata candidatura non mi conosce: avere memoria dei fatti e del comportamento delle persone non significa per me portare rancore, ma solo avere maggior chiarezza nei rapporti politici. Sono abbastanza vecchio del mestiere per sapere che chi sceglie la politica sa di dover affrontare momenti lieti e meno lieti e – come dice il detto – non tutti i mali vengono per nuocere.
Se dovessi, comunque, pensare a che cosa oggi – nel dibattito italiano e valdostano – avrebbe bisogno di essere chiarito fino in fondo è proprio la differenza fra candidati che sono seriamente europeisti e quelli che non lo sono, compresi fra questi che quelli che furbeggiano con discorsi tipo “europeista, ma…”. Per me – che europeista lo sono da sempre – questo è un discrimine non negoziabile e non significa affatto che l’Unione europea non sia da riformare in profondità, ma resta un antidoto contro i deliri dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, unite dall’antieuropeismo.
Ha ragione il politologo Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera: “Il dibattito si è concentrato sulle questioni più vicine all’attualità: la svolta autocratica in Ungheria, la guerra in Ucraina, l’eventuale rinegoziazione del Pnrr. Si è così perso di vista lo sfondo più ampio del nostro rapporto con la Ue, in particolare il ruolo cruciale che l’appartenenza europea ha svolto nel tempo per l’Italia”. Per questo nel proseguo dell’articolo ricostruisce il cammino dal 1957 ad oggi, la cui sintesi condivido a pieno: “La scelta europea è stata conveniente? Oggi c’è chi ne dubita, ma secondo la stragrande maggioranza degli studiosi l’appartenenza alla Ue ha portato enormi benefici nel lungo periodo. Certo, l’Europa è una unione di Stati con interessi diversi. L’integrazione procede in base a compromessi, a volte si vince a volte si perde. I rapporti di forza dipendono molto dalla stabilità e dalla autorevolezza dei governi: due aspetti rispetto ai quali siamo sempre stati particolarmente deboli”.
Se ora governassero gli antieuropeisti all’italiana l’Italia verrebbe messa da parte e lasciata ad un destino di solitudine letale. Scelta terribile per una Regione come la nostra ad antica tradizione europeista, che dall’Europa ha avuto un mare di soldi da spendere e che vanta una posizione geografica che guarda naturalmente al resto d’Europa e certo non vorrebbe trovarsi ad essere una sorta di “cul de sac” di un’Italia chiusa nei suoi confini con un nazionalismo da operetta tinto di un nero inquietante per chi conosca la Storia.

Gli autonomisti e Esopo

Ormai da tempo scrivo sul da farsi nell’area autonomista in Valle d’Aosta, auspicando che ci su rimetta davvero insieme, chiudendo l’epoca macedonia (termine che viene dalla congerie di popoli in Macedonia, come si chiamava il Paese balcanico).
Lo faccio nella convinzione che questa singolarità politica di un autonomismo al centro dello scacchiere politico, rispetto al panorama politico italiano, è una caratteristica importante per la nostra autonomia speciale. Se gli autonomisti non fossero sulla scena dal 1945 tutto nello sviluppo del nostro ordinamento sarebbe stato diverso e l’aspetto identitario sarebbe stato gravemente indebolito.
Ormai sul tema sono a rischio ripetizione e sarà pure che “repetita iuvant”, ma questa espressione latina può definire una spinta positiva per concretizzare azioni necessarie, ma può pure avere una connotazione negativa che mostra come ridire le cose possa alla fine stufare.
Noto purtroppo come ogni tanto ci si avvicini alla cima per poi tornare più in basso. La fatica di Sisifo non serve a nulla. Ricordo che Sisifo era condannato a far rotolare eternamente sulla china di una collina un macigno che, una volta portato con fatica sulla cima, ricadeva sempre giù. Questa locuzione ricorda un'impresa che richiede grande sforzo senza poi ottenere alcun risultato. Un esercizio in politica da evitare.
Certo bisogna immaginare che questo processo abbia un suo perché. Un giovane amico - parlando di altro - mi ha citato ed io non la conoscevo una favola di Esopo che qui pubblico e poi annoterò qualche pensiero: “Molto tempo fa, il sole e il vento si sfidarono per vedere chi dei due fosse il più forte. Individuato un viaggiatore in cima a una montagna che indossava un ampio mantello, fecero una scommessa su chi dei due fosse in grado di portare via il mantello a quell’uomo.
Il vento si impegnò a soffiare il più forte possibile con l’intento di strappare il mantello al viaggiatore, il quale dal canto suo si strinse ancora di più nel suo tabarro per evitare che gli volasse via. Il sole, al contrario, si limitò a inviare raggi un po’ più caldi all’indirizzo del viaggiatore, il quale soffrendo sempre di più il caldo, si tolse spontaneamente il mantello.
Il sole vinse così la scommessa”.
Insomma: la violenza del vento dimostra come certe storie vadano trattate senza foga o strappi. Bisogna muoversi bene e farlo attraverso ragionamenti che portino alle azioni giuste per essere efficaci, come il sole di cui avete appena letto.
Dunque la morale della favola è che non è necessario usare la forza per ottenere un risultato, basta usare la testa. Anche se - non appaia una contraddizione - bisogna farlo senza troppo attendere, prima che sia troppo tardi. Già il tempo, a ben vedere, è largamente scaduto ed è ora di uscire dal dedalo in cui si è caduti per molte ragioni, alcune buone ed altre no. Per cui è ora di concretizzare.

Il Parlamento all’angolo

Si chiude a Mezzanotte la campagna elettorale. È questo il termine ufficiale, ma poi sappiamo bene che il silenzio elettorale sarà, specie sui Social, rumorosissimo. Dimostrazione che nella logica italiana “fatta la legge, trovato l’inganno”.
Tra poche ore conosceremo l’esito delle urne e vedremo soprattutto se esisterà una corrispondenza fra i sondaggi e i seggi come verranno realmente redistribuiti. Ma, al di là di tutto, è legittimo interrogarsi - come ha fatto giorni sul Corriere fa l’ottimo Sabino Cassese, giurista classe 1935 - sul ruolo decrescente del Parlamento. Lo dico con dispiacere avendo vissuto come parlamentari anni in cui le Assemblee elettive contavano ben di più!
Cassese, ricordata la follia della legge elettorale vigente, affonda la lama: “Il Parlamento-legislatore, in questo quinquennio, è stato pressoché assente: solo un quinto della legislazione è stato di iniziativa parlamentare e la metà degli atti con forza di legge è stata costituita da decreti-legge, cioè da provvedimenti governativi, che il Parlamento deve esaminare in tempi ristretti, perché dettati da necessità e urgenza. I numeri dell’attività legislativa del Parlamento diminuiscono ulteriormente se si considera che una buona parte delle altre leggi è costituita da atti «dovuti», quali le leggi di bilancio e quelle di ratifica di trattati internazionali. Inoltre, i governi hanno posto la questione di fiducia su decreti-legge 107 volte. A un governo la fiducia basterebbe, secondo la Costituzione, una volta sola, subito dopo la nomina. (…) Un numero così alto di questioni di fiducia è il sintomo di una disfunzione del sistema parlamentare: il governo funziona sempre meno come comitato direttivo della maggioranza parlamentare o non sa «negoziare» con la sua maggioranza, e deve quindi ricorrere alla questione di fiducia per far cessare le voci dissenzienti”.
Cassese apre un altro fronte: “Se le leggi le fa il governo, bisogna pur dare un contentino al Parlamento, lasciando che i parlamentari, ridotti a fare un mestiere diverso, gonfino i decreti-legge con disposizioni settoriali o microsettoriali, che rispondono alle richieste delle loro «constituencies» e preservano il loro potere negoziale.
Il quadro delle disfunzioni non termina qui. Si aggiungono altri protagonisti, i gabinetti ministeriali e le amministrazioni pubbliche. Questi si muovono in due diverse direzioni. Da un lato, cercano di spostare alla sede parlamentare decisioni che dovrebbero essere prese dalle burocrazie. Queste sono intimorite dalle originali e spesso eccessive iniziative di procure, penali e contabili, e mirano a trovare uno scudo nella legge (di conversione di decreti-legge). Dall’altro, anche le amministrazioni pubbliche sono composte da donne e uomini con le loro debolezze, aspirazioni, esigenze, e non è difficile per esse trovare una voce in uno o più parlamentari ben disposti”.
Una commistione inquietante, che si aggiunge ad una legislazione mediocre.
Auguri di cuore a chi verrà eletto nella circoscrizione in Valle d’Aosta e che i due parlamentari si battano per la dignità del Parlamento.

Il paese di Bengodi

Le campagne elettorali - e ne scrivo in modo generale, perché mi attengo al silenzio elettorale - sono per troppi candidati l’occasione per descrivere il paese di Bengodi, naturalmente se i cittadini li sceglieranno nella lotteria delle urne.
Treccani ci illumina su di un modo di dire che è usuale adoperare in uno logica di sfottò: “bengòdi (o Bengòdi) (composto di bene e godi) – Nome di un paese immaginario di delizie e di abbondanza: il paese di Bengodi; ha trovato il bengodi”.
Il grande Giovanni Boccaccio così lo descriveva: “In una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta ... correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi dentro gocciola d’acqua”
È normale che sia così: i candidati, nel proporsi ai cittadini, devono presentare le loro speranze e le loro promesse in quella sorta di patto. “Io ti dico le mie idee e i miei progetti e tu mi voti”: detto in modo rozzo funziona così e dunque diventa abbastanza naturale che chi ci sia - non tutti ovviamente! - una specie di asta al rialzo fra i competitori. Nel tempo resiste - almeno questa dovrebbe essere la regola - il politico che dimostra di avere avuto una ragionevole coerenza fra quanto annunciato al momento di chiedere il voto e quanto realmente ha fatto.
Ovviamente la descrizione di un Bengodi più o meno suggestivo cozza contro la realtà e in epoca di incertezze come l’attuale l’equilibrismo si fa ancora più azzardato.
La proiezione più importante riguarda sempre il futuro ed essendo l’avvenire indeterminato è di fatto come la tela bianca di un pittore su cui è più semplice, rispetto al presente, dipingere le proprie speranze. Trovo che in questo non ci sia nulla di male, ma credo che ci sia un’avvertenza da ricordare.
Bisogna a mio avviso diffidare di chi usa solo visioni prospettiche di questo Bengodi futuro senza le necessarie radici storiche. Una specie di nuovismo un po’ naïf che sarebbe come costruire una casa senza tenere conto delle necessarie fondamenta. Ogni proiezione su quello che verrà deve fare i conti con le condizioni di partenza, passato e presente, evitando l’esercizio retorico di chi - sentendosi uomo del destino - fa carne di porco di tutto quello che lo ha preceduto. Un’arroganza che non porta bene ed è ingiusta e manichea nella descrizione di un passato descritto come tutto oscuro e un futuro preconizzato come tutto roseo.
Ecco perché credo che in fondo il confronto politico diventi difficile se si applicasse sempre lo specchio distorsivo dei periodi elettorali in cui la ricerca del voto rischia di trasformarsi per alcuni nella ricerca di come spararla più grossa per abbacinare gli elettori. Purtroppo mi rendo conto che cresce il numero di chi in politica gioca a fare l’imbonitore a tempo pieno in una perenne fibrillazione alla ricerca del consenso e con cittadini visti solo come elettori da corteggiare.
Questo atteggiamento favorisce l’immobilismo, quando si vuole piacere a tutti in modo incondizionato e il viatico diventa “un colpo al cerchio ed uno alla botte”. Ecco perché bisogna essere cittadini-elettori con gli occhi sempre aperti e diffidenti verso certe sirene, affascinanti esseri dal corpo di uccello o di pesce e dal volto bellissimo di donna dal canto ammaliatore, che portano - se ci si casca - ad un triste destino.

La fragilità della democrazia

Scorro gli editoriali sui giornali delle ultime settimane. In fondo questo è rimasto un ruolo capitale della carta stampata: commentare fatti e situazioni. La televisione in Italia non é in grado di farlo perché gli opinionisti in TV partecipano a trasmissioni urlate e senza filo logico giusto per far spettacolo. Le persone serie non ci vanno più e per altro si preferisce invitare cafoni e urlatori nella considerazione che il pubblico televisivo sia un popolo bue che ama la caciara, gli insulti e le volgarità.
Per cui personalmente non seguo più i cosiddetti talk show e mi rifugio negli editoriali seri che per grazie di Dio vengono ancora pensati, scritti e pubblicati. Nello scorrere, come dicevo, quanto pubblicato di recente noto la supremazia assoluta dei commenti attorno alle odierne elezioni politiche.
L’impressione che ne ricaverebbe un alieno piombato sulla Terra che dimostrasse interesse per il fenomeno, anche se capisco quanto io osi in questa costruzione fantasiosa, è che gli italiani non abbiano più un vivo interesse per la politica e per la cosa pubblica nel suo insieme.
In realtà - e la Valle d’Aosta non è affatto estranea al fenomeno - mai come in questa occasione (e le urne tristemente lo dimostreranno) è esistito un evidente disinteresse se non fastidio per la politica. È un fenomeno inquietante di distrazione di massa - come ho scritto giorni fa - che si accompagna e che è alimentato da un crescente analfabetismo istituzionale.
Mi sono state poste - e uso la mia esperienza supporto di questa tesi - le domande più bizzarre, anche da persone insospettabili, sulla politica e sui meccanismi democratici che dimostrano una mancanza di base di principi basilari. Una delle grandi speranze della democrazia era quella che diventasse naturale avere sempre di fronte a sé cittadini non solo partecipi ma soprattutto formati e informati nel momento in debbono esprimere quel diritto cruciale che è il diritto di voto.
Invece, purtroppo e lo dico con rispetto e senza polemica, la morte dei partiti e di molte organizzazioni sociali, oltreché il disinteresse personale ad apprendere i rudimenti della democrazia, ha creato una specie di massa indeterminata che sceglie di disinteressarsi totalmente o diventa ondivaga, andando di qua e di là, perdendo punti di riferimento solidi e facendosi trascinare verso innamoramenti “politici” destinati a durare poco.
Per cui l’overdose di commenti, certo apprezzati da chi si interessa e ne capisce (e per fortuna ce ne sono!), finirebbe per stupire l’alieno osservatore esterno, perché niente affatto corrispondente alla realtà “popolare”.
Il da farsi, come reazione alla situazione di analfabetismo politico e istituzionale, non credo che sia semplice e viene il grave sospetto che per riconquistare cultura e consapevolezza della democrazia ci debba la messa in discussione verso certi diritti e capisaldi della democrazia stessa. Lo scrivo con inquietudine e sperando di essere smentito in un Paese, l’Italia, che ha già vissuto tempi cupi, certo non esattamente ripetibili, ma che mostrano come sia bene essere vigili. Nella speranza che a risvegliare impegno e coscienze non debbano essere attentati alla nostra democrazia, creatura fragilissima anche per l’uso poco consapevole di quella conquista capitale che fu il suffragio universale.

Manes e Spelgatti in Parlamento

Confesso le mie colpe: solo questa mattina ho guardato l’esito del voto delle Politiche. Ho seguito moltissimo volte i riti degli exit poll (da quando ci sono!), spesso non proprio precisi, come capita anche con i sondaggi che li hanno preceduti. Mentre ho seguito sempre - specie quando ero in lizza e per le Politiche è avvenuto quattro volte - la tortura dello scrutinio dei voti. Per mia fortuna sempre risultando eletto, anche quando la lotta per il seggio appariva improba.
Questa volta appunto, pur svegliandomi presto, sono andato al sodo e cioè a quello che è successo davvero.
La vittoria alla Camera di Franco Manes restituisce con nettezza agli autonomisti la Camera dei deputati, mentre la leghista Nicoletta Spelgatti andrà al Senato per un pugno di voti. Una “incrociata”, come si dice in gergo politico, essendo espressione di due coalizioni contrapposte con Manes che ce la fa grazie ad un radicamento del mondo autonomista coeso e questo è un segnale per chi crede nella famosa réunion da ma sempre predicata, mentre la Spelgatti viene eletta nel momento in cui la “sua” Lega a Roma crolla ed è un caso dei paradosso della politica.
Ci vuole tempo per capire meglio la dinamica del voto, leggibile Comune per Comune, a differenza di quanto avviene con lo spoglio delle Regionali e certo l’astensionismo resta un dato enorme su cui riflettere.
Il sistema uninominale all’inglese è spietato: si può vincere o perdere per un solo voto di differenza. Certo questo si riverbererà sulla politica regionale alla ricerca di una maggioranza più solida, ma nulla va dato per scontato e soprattutto - per gli altri candidati in lizza - si chiaro che chi pensa di trasferire il bottino buono o cattivo sulle Regionali del 2025 sappia che certe traslazioni non valgono per la differenza evidente fra i sistemi di voto.
A Roma. Invece, su cui torneremo con calma nelle prossime ore, vince e questo inquieta per la nostra Autonomia speciale Giorgia Meloni, espressione della destra più estrema e questo si vedrà purtroppo nel corso della Legislatura. Merito suo e di un elettorato italiano che segue le sirene con grande facilità è colpa di un centrosinistra senza leader veri e con troppe contraddizioni nel suo seno. Per il resto tocca vedere le risultanze finali per capire bene gli equilibri dei rispettivi schieramenti.
In bocca al lupo ai neoeletti valdostani. Il loro compito di parlamentari della nostra Valle non sarà facile con lo scenario attuale delle Camere nel mare in tempesta che è facile prevedere per i problemi che incombono in questi anni complicati se non pericolosi.
Chi, come me, ha vissuto un lungo periodo da parlamentare sa quando il lavoro, se fatto seriamente, sia faticoso e impegnativo e la riduzione dei parlamentari pareva essere una chance per contare di più. Ma la nettezza dell’affermazione del centrodestra offre a Meloni la possibilità di riforme costituzionali in solitaria e questo preoccupa perché il nostro Statuto resta appeso alle procedure, fattesi troppo facili, del 138 della Costituzione che si applica alle leggi costituzionali e dunque che ci si attrezzi politicamente al rischio di incursioni pesanti sul nostro ordinamento.

La traversata del deserto

Prepariamoci alla traversata del deserto (espressione arrivata all’italiano dal francese “traversée du desert”). L’immagine è suggerita dal racconto biblico del lungo viaggio attraverso il deserto compiuto dagli Ebrei dopo l’esodo dall’Egitto verso la terra promessa e che sta a significare nel lessico politico una fase di transizione fra due momenti storici o politici.
Chi mi conosce sa quanto io sia scettico sull’uso che è stato fatto attraverso la numerazione giornalistica della Repubblica italiana con la definizione di Prima, Seconda e persino Terza Repubblica, copiando i francesi che sono alla Quinta (V) Repubblica. In realtà quelli scandire Oltralpe ha significato perché ogni passaggio è avvenuto per modifiche costituzionali profonde, mentre nel caso italiano nulla di tutto questo è avvenuto.
Tuttavia l’elezione di Giorgia Meloni, frutto contemporaneo di una destra estrema con tinte neofasciste incancellabile nel DNA della fiamma tricolore del simbolo, è davvero una discontinuità e il sistema parlamentare - già minato dall’uso dei decreti legge, delle fiduce a raffica, della riduzione stupida dei parlamentari - potrebbe mutare in profondità con un presidenzialismo agognato dalla futura Presidente del Consiglio, che non fa mistero di logiche patriottarde che sono agli antipodi del federalismo.
Entrare su un terreno di riforme costituzionali, forse con l’uso già annunciato di una nuova Commissione Bicamerale, significa entrare per i valdostani in un deserto pieno di insidie. Infatti è evidente come mettere mano alla Carta fondamentale, avendo i numeri nelle Camere per far passare tutto in scioltezza, significa rischi seri per la nostra Autonomia speciale.
Già in questi anni abbiamo avuto brutte sorprese dai Governi Conte e da quello Draghi, la cui visione centralistica non è mai venuta mano, malgrado verte alleanze in Valle d’Aosta. Ora escalation rischia di diventare incontenibile e l’attività ordinaria della nostra Regione può finire nel mirino sino ad arrivare ad attentare alle radici stesso delle nostre istituzioni democratiche.
Non sono han Cassandra nel dire di queste mie preoccupazioni. Basta leggere il percorso politico della Meloni per capire che la sua impronta nazionalistica è nemica naturale di identità diverse qual è quella valdostana. E nel mirino ci siamo da tempo ed è inutile far finta di niente e fidarsi supinamente o aspettare gli eventi che verranno incrociando le dita.
Sarà bene attrezzarsi politicamente, giuridicamente e direi persino moralmente. Quest’ultimo punto potrà sembrare esagerato, ma non lo è affatto. In tempi complessi e di sfide difficili si vedono i caratteri delle persone e quella delle comunità, che devono dimostrare quanto valgono lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ha scritto: “Ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre. Non esistono due fuochi uguali. Ci sono fuochi grandi e fuochi piccoli e fuochi di tutti i colori. C’è gente di fuoco sereno, che non si cura del vento, e gente di fuoco pazzo, che riempie l’aria di faville. Certi fuochi, fuochi sciocchi, non fanno lume né bruciano. Ma altri ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi; e chi si avvicina va in fiamme”.

Togliere la voglia di votare

E se fosse che una parte di astensionisti sono stufi di una politica concentrata più sulle elezioni che su quello che viene dopo? Possibile che conti di più anche in campagna elettorale svilire le idee e le proposte del proprio avversario piuttosto che affermare le proprie ragioni?
Il dubbio su queste storture ha incominciato a frullarmi nella testa da un po’ di tempo per la constatazione che in troppi usano le elezioni come un tram su cui salire e scendere se non eletti e pure fra gli eletti c’è chi si accomoda nel suo ruolo e sparisce dagli impegni assunti.
Ha scritto lo scrittore francese Robert Sabatier: “C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare”. Certi comportamenti sviliscono le elezioni e le istituzioni in egual misura.
Il lavoro del politico, che una buona parte di elettori continuano a considerare sbagliando un “non lavoro”, dovrebbe consistere nell’affrontare e risolvere i problemi della comunità da cui è stato espresso. E per farlo bisogna crederci davvero e dimostrarlo con i fatti e non con le
parole.
Ma riconquistare al voto gli astensionisti incalliti o i nuovi praticanti del genere non sarà facile.

Il crollo dell’attenzione

Leggevo l’altro giorno, durate una ricerca sul Web di cui spiegherò le ragioni, della nostra decrescente capacità di attenzione e di concentrazione. La causa si nasconde nel rapporto che abbiamo sviluppato con la connettività e con lo strumento che la incarna: lo smartphone.
C’è chi evoca la scarsa durata dell’attenzione comparandola alla presunta memoria brevissima di un pesce rosso. Mi è venuto da ridere, pensando a come questa storia del pesce rosso sia una balla, ma ormai usata da tutti, me compreso. Cito una fonte scientifica: "Ciò che è we sconcertante è che è praticamente lo stesso ovunque tu vada nel mondo", ha dichiarato a LiveScience Culum Brown della Macquarie University in Australia. "In alcuni posti sono 2 secondi, in altri 10, ma è sempre breve". In realtà i pesci rossi (Carassius auratus) hanno memorie molto più lunghe, che durano diverse settimane e perfino anni.
Allora torniamo all’umano e alla nostra incapacità di seguire discorsi lunghi e di effettuare letture complesse, solo per fare due esempi. D’altra parte l’altro giorno sbirciavo mio figlio che guardava filmatini su Tik Tok e in maniera compulsiva passava da un post all’altro e se non avesse limiti di tempo nell’utilizzo potrebbe passare l’intera giornata con gli occhi sul telefonino. In fondo questo vale anche per me su Twitter con sguardi rapidi e si va avanti con la stessa logica. Mi accorgo, parlando spesso in pubblico, di come, mentre in passato i discorsi potevano essere lunghi se eri efficace, oggi puoi essere Demostene, ma passato un certo minutaggio scattano gli sbadigli o anche in prima fila gli astanti incominciano a consultare telefonini o tablet e addio interesse per quanto tu stai dicendo. Lo stesso vale per documenti corposi da consultare: conosco persone che, tipo Bignami del passato, si fanno fare dei riassuntini per evitare letture troppo lunghe.
Sino a un certo punto tutto è comprensibile, ma esiste un limite di guardia da considerarsi una vera e propria involuzione mentale, che ci obbliga all’attimo, ad un flash che finisce per privarci di contenuti. Se aggiungiamo a questo l’analfabetismo di ritorno di chi finisce per perdere certi rudimenti della propria istruzione e quello di andata e cioè di chi i rudimenti non li ha proprio acquisiti e non ha il problema di perderli, il patatrac sociale e culturale è assicurato.
Con il più piccolo dei miei figli cerco di essere persuasivo nel rimarcare come sarà pur vero che oggi nei motori di ricerca puoi trovare tutto lo scibile umano, ma se non hai strumenti e competenze tuoi sei destinato a prendere sonore cantonate e a non capire bene neppure quel che avrai scoperto con la sola consultazione. E’ in fondo questa la sfida del futuro: certi strumenti di comunicazione, che hanno fatto irruzione della nostra vita, ci possono rendere più performanti e maggiorare la nostra intelligenza oppure ci possono peggiorare e instupidire. Come sempre, in tutte le cose, bisogna trovare la giusta misura.
Viene in mente la saggezza di Orazio con il suo “Est modus in rebus”, che si può tradurre letteralmente con “esiste una misura nelle cose” ed è utilizzata quando si vuole mettere in guardia da ogni eccesso.

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri