August 2022

Mai dimenticare gli islamisti

Non ho scritto per tempo dell’ orrendo tentativo di assassinio dello scrittore Salman Rushdie, che nel 1989 fu oggetto di una una condanna a morte da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran. Quella di Khomeini fu una fatwa, cioè la sentenza emessa da un’autorità religiosa e teoricamente vincolante per tutti i musulmani. La fatwa fu emessa dopo che Rushdie aveva scritto I versi satanici, un romanzo in cui, secondo Khomeini, Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta.
Per capire quanto gli estremisti siano stupidì ricordo cortei studenteschi ai tempi della scuola in cui militanti dell’estrema sinistra in corteo proponevano slogan inneggianti al medesimo Khomeini contro l’oppressione dello Scià di Persia nel nome della Rivoluzione…
Ma non è questo il punto. Quel che conta oggi è non essere ambigui sulla questione e ho visto troppi silenzi. Questo è avvenuto nei Paesi islamici, ma anche nella società italiana per una sorta di imbarazzo sbagliato, come se condanna e critiche dovessero sempre avvenire in punta di piedi per non disturbare. Invece ritengo che non ci debba essere nessuna sordina o chissà quale timidezza nel riaffermare le ragioni della libertà.
Ho letto su L’Express un editoriale assai convincente di Anne Rosencher, che evoca ideali della lotta di Resistenza: “Il y a, au coeur du Chant des partisans, une phrase qui suscite une émotion formidable : « Ami, si tu tombes, un ami sort de l’ombre à ta place. » Dans l’hymne de la Résistance, écrit par Kessel et Druon, cette promesse agit comme une exhortation. Elle dit : « Tu n’es pas seul ; ton combat n’est pas vain. Ton courage, d’autres l’auront. D’autres en seront dignes. » Mais c’est aussi une proclamation. Un pari, presque. « Ami, si tu tombes, un ami sort de l’ombre ta place. » Est-ce bien vrai ? C’est l’anxieuse question qui saisit le coeur, à chaque fois qu’un défenseur de la liberté est attaqué, comme Salman Rushdie”.
Poi l’esplicitazione delle preoccupazioni e il caso italiano è sovrapponibile al ragionamento sulla Francia: “On ne peut s’empêcher une brève revue des troupes : des soutiens, on en voit, bien sûr ; mais combien de « oui, mais »? Et combien d’indifférences? Ou de silence apeuré? On aimerait que tonne un fracas terrible. Que « le camp de la liberté » fasse entendre sa fermeté face aux intimidations. Las ! on se dit que les vaillants sont parfois bien seuls. Que nous ne les méritons pas.
Dans les jours comme ceux-là, je pense à tous ceux qui vivent sous la menace pour avoir défié l’islamisme. Ceux qui apprivoisent tant bien que mal la peur – existe-t-il une autre définition du courage ? – et que les attaques comme celle contre Salman Rushdie, trente-trois ans après la fatwa édictée contre lui, viennent replonger dans l’angoisse. Si la France est bien le « conservatoire de la liberté », si elle est la patrie de Voltaire, qui le premier osa projeter sa philosophie contre le carcan du dogme, alors notre nation et notre société doivent sans cesse réaffirmer leur soutien envers ces combattants-là. Sans se laisser paralyser par les faux humanistes, qui n’aiment les démocraties que politiquement désarmées”.
Non è questo il campo di un imbelle “politicamente corretto” o di silenzi che diventano complicità .
Prosegue, infatti, l’editoriale: “Il ne faut pas, non plus, se laisser intimider par ceux qui fustigent les laïques et les « blasphémateurs », qu’ils jugent matérialistes et décadents, insultants envers les fidèles et insensibles à la transcendance. Ils se trompent. L’homme est cet être curieux qui, pour la liberté – de créer ou de dire – s’expose, parfois, à payer de sa vie. Qu’est-ce, sinon de la transcendance ? « Ecraser les fanatismes et vénérer l’infini, telle est la loi », écrit Victor Hugo dans Les Misérables. Il y a de l’infini dans l’oeuvre et la vie de Rushdie. Courage à lui. Et aux autres. Ils sont « la garde prétorienne de la liberté »”.
Omissioni e cautele servono solo a favorire gli islamisti, che restano sempre pronti a colpire, perché ci vogliono morti.

Autunno caldo?

Torna da un passato ormai lontano l’espressione “Autunno caldo”, che dovrebbe - aggiornata ad oggi - indicare un periodo delicato che si concretizzerà nelle prossime settimane con preoccupazioni, disagi, proteste e altro ancora. Nulla di nuovo in questi anni in cui un grigiore si è depositato sulle nostre vite con momenti complesso in cui anche fare politica è diventato una gara ad ostacoli. Ognuno nel privato e nel pubblico potrebbe raccontare le su storie e quel disagio generalizzato che ci rende a tratti e a diversi gradi più ansiosi e talvolta cupi. L’aria dei tempi, che pure ho respirato da ragazzino, ci rendeva fiduciosi in un movimento progressivo e non regressivo.
Il riferimento storico di fatto è distante e persino improprio perché la Storia mai si ripete in modo identico. Era, comunque sia, l’autunno del 1969 (avevo 10 anni!) ed era in corso quel fenomeno di cambiamento discusso e discutibile che fu il Sessantotto. Una stagione ampia (tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, dovendola situare) di ribellione delle giovani generazioni, attratte dall’ideale di rivoluzionare la società e la politica. Quelle rivolte esercitarono una profonda influenza sui processi di trasformazione dei comportamenti e della mentalità è proprio di questi tempi ci sono stati tanti libri che ne hanno ripercorso le diverse tappe con un bilancio ex post.
Nell’autunno di 51 anni fa, dopo gli studenti, furono gli operai a scendere in piazza per richiedere allo stato una tutela dei lavoratori.
È l’aggettivo “caldo” serviva a descrivere in sintesi l’insieme delle manifestazioni, degli scioperi, delle occupazioni di Università e fabbriche e degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Sortì da quell’insieme di eventi anche lo Statuto dei lavoratori.
Ora, sia chiaro, l’autunno caldo di oggi avrà caratteristiche diverse. Siamo ancora in apprensione per la pandemia che potrebbe tornare e pesa ancora non poco e si affacciano sulla scena un insieme di temi da far tremare i polsi.
Il primo - tutto italiano - è l’esito delle urne e la legittima preoccupazione che una come Giorgia Meloni possa finire a Palazzo Chigi con il suo codazzo di camerati. Roba da brivido.
Il secondo è la questione della guerra in Ucraina con il suo codazzo come la flambée terribile del prezzo dell’energia che colpisce famiglie e aziende e prevederà nei mesi a venire austerità e risparmi. Ma questa guerra si somma alla mancanza di materiale di vario genere con rincari conseguenti e soprattutto è tornata l’inflazione con rincari generalizzati e conseguenze gravi per le nostre tasche.
La terza preoccupazione riguarda i bizantinismi attorno al PNRR, soldi necessari per l’economia, che rischieranno di non essere spesi anche a causa della logica centralistica e con bandi che spesso creano solo pasticcio.
Si aggiunge, come ultimi tema, la questione delicata del cambiamento climatico e dell’attuale siccità che proprio tra poche settimane potrà peggiorare i danni già avuti, ad esempio in agricoltura, con una penuria d’acqua potabile che si aggiungerebbe a tutte le altre magagne elencate.
Nervi saldi si dimostrano indispensabili nei diversi livelli di responsabilità.

Da Barmasc a Dinajpur

Barmasc, frazione di Ayas che si trova sotto lo Zerbion, è uno dei miei luoghi del cuore. Ci andavo da piccolo con i miei genitori, da cronista tv seguii le vicende di un matto barricatosi nel piccolo santuario, da deputato partecipai alla messa dell’Angelus celebrata lassù da Giovanni Paolo II, ci sono andato con i miei bambini e con tanti amici.
Già in passato avevo notato in una baita solitaria in pietra una scritta che così diceva: “In questa casetta trascorse l’infanzia e l’adolescenza il pastorello Giuseppe Obert diventato pastore di anime nella lontana India”.
L’ho rivista l’altro giorno questa placca, giunto lì durante una gita dal Col de Joux attraverso il suggestivo sentiero lungo lo straordinario Ru Courtod, un conale di epoca medioevale che porta l’acqua dal Monte Rosa per irrigare la collina di Saint-Vincent, dopo un percorso di 25 km. Il passaggio attraverso le molte gallerie scavate nella roccia è un’esperienza unica.
Già a suo tempo mi ero ripromesso di saperne di più su questo prete di montagna finito in Asia
e sono incappato sul Web su di un articolo di pochi mesi fa su Asianews a firma Sumon Corraya: che annuncia l’avvio del procedimento di beatificazione di Mons. Obert: “L'annuncio a Dinajpur nel cinquantesimo della morte del missionario del Pime che fu vescovo della diocesi e fondò un ordine locale di suore subito dopo la separazione dall'India. Una religiosa rimasta per 31 giorni priva di conoscenza a causa del Covid è guarita dopo la preghiera delle consorelle che hanno invocato l'intercessione del fondatore”.
Intanto, come si è scoperto, oggi non bisogna parlare di India ma di Bangladesh e il giornalista così dettaglia: “Nel 50° anniversario della morte di p. Giuseppe Obert, misisonario del Pime che fu vescovo di Dinajpur dal 1949 al 1968, le suore catechiste del Cuore Immacolato di Maria Regina degli Angeli, conosciute in Bangladesh come le suore Shanti Rani da lui fondate, hanno annunciato l’intenzione di promuovere la sua causa di beatificazione. “Presto prenderemo l'iniziativa per aprire il processo canonico”, spiega la superiora generale dell’ordine, suor Beena S. Rozario.
“Pensiamo che lui sia un santo. Dovremmo pregare la sua intercessione”, continua la superiora generale delle suore Shanti Rani, “Alcune persone hanno già ricevuto grazie attraverso di lui. Una delle nostre sorelle colpita gravemente dal coronavirus è stata priva di sensi per 31 giorni. I medici avevano detto che non sarebbe sopravvissuta, ma - con la nostra incessante preghiera al vescovo Obert - guarì. Pensiamo che sia un miracolo” “.
Poi la spiegazione: “Nato nel 1890 a Lignod, nella regione montuosa italiana della Valle d’Aosta, p. Giuseppe partì per l’allora Bengala nel 1919. Nominato vescovo di Dinajpur nel 1949, 70 anni fondò l’ordine delle suore Shanti Rani quando a causa della separazione con l’India le suore non potevano può raggiungere questa zona per il lavoro pastorale. Il 3 ottobre 1951 la congregazione locale nacque con cinque giovani donne locali, nell’ostello gestito dalle suore di Maria Bambina, accanto alla casa del vescovo. La prima madre e maestra delle novizie fu suor Enrichetta Motta, delle suore di Maria Bambina con p. Francesco Ghezzi, missionario del Pime come amministratore speciale. Nello stesso anno altre sei giovani donne di Krishonogor, nel Bengala occidentale, si unirono alle novizie; l’ordine venne poi fondato ufficialmente il 19 marzo 1952 e il 30 aprile 1953, le religiose emisero i primi voti come Shanti Rani Sisters.
Oggi sono 164 e svolgono il loro ministero nell’educazione, nella salute e nella catechesi. Sei di loro sono oggi impegnate anche fuori dal Bangladesh come missionarie. “Fin dall'inizio, abbiamo insegnato ai catechisti e contribuito all’evangelizzazione nella parte settentrionale del Paese”, spiega suor Beena. “La nostra congregazione ha dato un enorme contributo in questo senso e l’obiettivo del vescovo Obert è stato raggiunto al 100%” conclude, ricordando una delle massime di p. Giuseppe: “Crescete in qualità, invece che di numero”.
Gli insegnamenti e le virtù di mons. Obert sono ricordati anche da mons. Gervas Rozario, vescovo di Rajshahi e vicepresidente della Conferenza episcopale cattolica del Bangladesh, che ricorda di essere stato un suo chierichetto. “Non l'ho mai visto esprimere rabbia – racconta - ho sempre visto un dolce sorriso sul suo viso. Era un essere umano gentile. Ha predicato tra i tribali nella parte settentrionale del Bangladesh conducendo una vita come quella di Gesù Cristo”. Per questo Mons. Gervas prega di poter “essere gentile come lui e di predicare il messaggio di Dio con il sorriso sulle labbra” “.
Una semplice iscrizione mi ha così portato lontano a incontrare questa personalità del passato diventato missionario, com’è avvenuto nel tempo per molti altri preti valdostani sparsi nel mondo, e chissà che non possa diventare Santo.

Pensieri sulle elezioni

Leggevo sul Corriere della Sera un articolo sulle prossime elezioni politiche di Massimiliano Tarantino Direttore Fondazione Feltrinelli.
Come spesso capita si tratta, attraverso stimoli di editorialisti, di porsi di fronte a idee e proposte, che finiscono per essere filtrate attraverso l’esperienza che ciascuno di noi ha accumulato nel tempo.
Ho partecipato personalmente a diverse campagne elettorali e mi sono occupato anche di campagne altrui e trovo che molte cose restino uguali nel tempo e altre siano cambiate in profondità.
Osserva Tarantino: “La campagna elettorale è il tempo del bicchiere mezzo pieno, anzi della ridda di soluzioni semplificate perché il proprio bicchiere sembri mezzo pieno, e quello dell’avversario perennemente mezzo vuoto. La politica si riduce all’osso, tema soluzione sorriso. Pillole di consolazione per elettori arrabbiati, spunti frammentati costruiti per catturare l’attenzione, far innamorare, incantare. Con due conseguenze, il voto poco consapevole dei più affezionati e l’aumento a dismisura del partito dell’astensione. Ma non è una strada ineluttabile, possiamo vivere la campagna elettorale dotandoci di qualche anticorpo che non ci faccia partecipare per stordimento ma per convincimento”.
Un menu interessante per chi alla fine resta, anche se non come attore nelle attuali elezioni per via dei giochi della politica, interessato a parlarne perché con la democrazia non si scherza.
Trovo stimolante questo primo pensiero: “I partiti propongono soluzioni un po’ su tutto, ma rarissimamente si tratta di idee originali che non hanno delle esperienze analoghe in altri Paesi. Tutti gli schieramenti appartengono a famiglie europee che si muovono su binari simili, se non identici. Confrontare le soluzioni italiane con quelle già sperimentate dai cugini spagnoli, francesi o tedeschi consente di uscire dal nostro ombelico e di togliere la componente di propaganda andando al cuore dell’applicabilità delle varie riforme. La politica è realtà”.
Mi sembra giusto: benissimo, nel caso delle Politiche in Valle d’Aosta, guardare a temi specifici e a problemi locali da risolvere, ma questo sguardo altrove evita di sprofondare in logiche “provinciali” e chi parla poco di Europa va guardato con sospetto.
Altro punto: “La politica tende a rincorrere una fiducia incondizionata e ad indurre l’elettore all’accettazione fideistica. Non bisogna credere, serve informarsi e internet, la tv, i giornali non bastano. Servono strumenti di approfondimento lenti, come solo i libri sanno essere. Un giro in libreria per un paio di acquisti mirati consente di dedicare il tempo giusto al confronto e all’approfondimento. La politica è cultura”.
Come non condividere la necessità di avere elettori (e allo specchio eletti) che abbiano consapevolezza del voto e delle sfide conseguenti?
E ancora, specie di fronte alla sfida della vanità e del “chi le spara più grosse”: “Segui il denaro. Nessuna soluzione è a saldo zero. Sebbene sia oltremodo legittimo per le varie parti in gara la scelta di cosa preferire nella propria agenda delle priorità, non sempre, per usare un eufemismo, sono trasparenti le conseguenze economiche. Vanno ricercate e se non ci sono vanno pretese, con domande accurate e risposte puntuali. Quanto ci costa? La politica è denaro”.
Infine: “Siamo diventati degli elettori poco esigenti. Ci siamo abituati al fiato corto, richiediamo soluzioni Ikea, facili da montare, per assecondare un bisogno impellente. Poi si vedrà, ci penserà qualcun altro. Invece quel qualcun altro siamo noi. Diamo fiducia alle proposte che ci fanno vedere un modello di società complessiva nella quale ci riconosciamo, non assecondiamo il beneficio individuale che erode o trascura la prospettiva della comunità. La politica è generosità”.
Scrivere quest’ultima frase immagino sia stato difficile in una logica di antipolitica che non deflette malgrado tutto. Il senso di comunità resta il segno necessario che crea la differenza.

Le rinnovabili incomprese

Raramente ho sentito e sento ancora delle scemenze come quelle dette da tanti politici di ogni schieramento - purtroppo compreso Draghi - sugli extraprofitti delle società del settore energetico. Ancora ieri autorevoli leader hanno blaterato senza conoscere il dossier e agendo per sentito dire.
Seguo, come da mia delega, le società partecipate e fra queste la CVA, e quindi sono stato costretto a capire meccanismi del mercato elettrico, che è effettivamente bislacco. Ma di sicuro lo sono certi interventi punitivi messi in legge con norme fiscali scritte con i piedi, che dimostrano come i decisori non abbiano capito le dinamiche di chi produce energia rinnovabile e dovrebbe essere premiato e non penalizzato. Però teniamoci forte, perché le già citate dichiarazioni di queste ore fanno temere tempi cupi anche per chi dovrebbe essere agevolato.
In un editoriale dell’Istituto Bruno Leoni si legge: “Scade oggi, 31 agosto, il termine entro il quale le imprese del settore energetico che non hanno versato l'acconto sull'imposta straordinaria sugli "extraprofitti" potranno ravvedersi. Se non lo fanno, il decreto aiuti-bis del 9 agosto raddoppia le sanzioni e priva i contribuenti dei consueti strumenti che l'ordinamento mette a disposizione per aggiustare la propria posizione fiscale, disponendo oltre tutto un piano di verifiche a tappeto da parte della Guardia di finanza e dell'Agenzia delle entrate. Così - purtroppo, non è una sorpresa - un balzello arbitrario e distorsivo produce un'attuazione perversa e fa venire meno le tutele dei contribuenti. Come sempre, una violazione dello stato di diritto ne genera altre”.
Triste constatazione che dimostra come la leva fiscale possa essere usata senza discernimento come una clava sulla testa di imprese e cittadini e in tema energetico la cautela dovrebbe contemperare i diritti degli utilizzatori di energia contro le speculazioni e anche la solidità delle imprese che, se strozzare, finiscono a carte quarantotto.
Ancora l’editoriale: “La tassa era stata introdotta, con un'aliquota del 10 per cento, dal decreto Ucraina-bis di marzo. Durante l'iter di conversione, senza una spiegazione e senza alcun approfondimento, l'aliquota era stata elevata di due volte e mezzo, fino al 25 per cento. Poiché la base imponibile non è costituita dagli utili delle imprese energetiche, ma dalla differenza nei saldi Iva tra due periodi (ottobre 2021-aprile 2022 contro ottobre 2020-aprile 2021), di cui il secondo in gran parte coincidente con una fase di lockdown, l'impatto sui bilanci delle imprese non ha quasi alcuna relazione coi profitti effettivi, e in alcuni casi può rivelarsi insostenibile”.
Prosegue la spiegazione: “Alla scadenza dell'acconto (30 giugno), però, si è scoperto che il gettito dell'imposta è stato molto inferiore ai quasi 11 miliardi preventivati: poco più di un miliardo. Questo è dovuto probabilmente a una sovrastima iniziale, ma anche - e forse soprattutto - alla scelta di molte imprese di non versare l'imposta nell'attesa dell'esito dei ricorsi, nella convinzione che il balzello finirà per essere giudicato incostituzionale. Ecco allora che il governo è intervenuto nuovamente. Chi non regolarizza la propria posizione adesso, e non versa integralmente il saldo entro il 30 novembre, verrà venire meno i principali istituti di garanzia e anzi sarà soggetto a sanzioni eccezionali. Infatti, il decreto aiuti-bis esclude gli strumenti di agevolazione connessi ai ritardati pagamenti quali il ravvedimento operoso e anzi raddoppia la sanzione ordinaria, dal 30 al 60 per cento”.
Commento finale: “Si tratta di un atteggiamento arrogante e punitivo che considera il contribuente - in questo caso le imprese del settore energetico - sempre e solo un delinquente, ignorando le garanzie previste dall'ordinamento. L'idea di fondo è che qualunque atto del governo è giusto per definizione, e guai a chiedere una verifica dei suoi presupposti o della sua sostenibilità.
Ancora una volta, la politica fiscale sembra trovare il fondamento della sua autorità non già nella Costituzione e nella legge, ma nel Marchese del grillo: io so' io”.
(E voi non siete un c…)

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