July 2022

Carta o digitale?

Capisco che quando si parla del futuro della carta stampata si entra in un terreno controverso. Chi è nato e cresciuto con la carta giustamente si pone sulla difensiva, anche se spesso si tratta di una difesa d’ufficio.
Opposto estremismo è chi si sente ormai digitale per sempre: libri su eBook, giornali sul tablet, scrittura a mano scomparsa.
La Scuola sul punto si muove con cautela in questa transizione digitale e non è facile avere ponti ragionevoli fra passato e futuro, ma anche in questo caso bisogna essere realisti e aprirsi al nuovo. Ma non è facile avere libri elettronici, specie in una Regione che offre gratuitamente i libri nelle scuole, anche con passaggi da studente a studente dei volumi. Gli editori non sono ancora pronti a proporre soluzioni ragionevoli e economici sui diritti per adoperare più volte le licenze sugli EBook.
A casa mia sin da bambino - faccio esempi che mi riguardano - i libri erano una realtà ben presente con una bella libreria con libri antichi di famiglia e quanto, assai vario, prima accumulò mio papà e poi noi figli.
Nelle mie case successive, seguendo il corso della mia vita, la modellistica è stata la stessa. Avere libri da leggere e consultare al tempo della scuola era certamente un grosso vantaggio per chi, come me, ne ha avuto la possibilità. Oggi leggo spesso in formato elettronico, ma se devo studiare uso i vecchi libri.
Un’evidente utilità mi è venuta anche dai giornali: La Stampa, oggi in crisi nera di vendita e con una direzione ormai romanocentrica, è sempre stata in casa, talvolta con la defunta Gazzetta del Popolo che ebbe la pagina locale prima dell’altro quotidiano torinese. Poi c’erano le riviste: oltre a L’Espresso che papà persino per un certo periodo raccoglieva, la mamma leggeva un altro settimanale, Annabella e spuntavano ogni tanto Gente e Oggi. Per me i primi giornalini furono l’abbonamento a Topolino e anche al Giornalino di stampo cattolico, ma non mancavano Tex, il Monello, l’Intrepido e da ragazzino Linus.
Oggi - fatemi fare una digressione - è diventato un settimanale vitalissimo e che cresce nelle vendite, perché anche nei giornali vale il « chercher l’homme » (o la femme) e il Direttore Carlo Verdelli, vecchia volpe dei giornali, ha fatto un vero miracolo. In altri casi, esattamente opposto, sono declinare riviste che leggevo, come ad esempio Panorama.
Difficile dire cosa capiterà e lo dico come giornalista radiotelevisivo e dunque fra coloro che sono nati e cresciuti in una logica post Gutemberg, per così dire. In questo solco ho occupato spazi come quello in cui state leggendo quanto ho scritto e lo stesso vale per Twitter che trovare in questo medesimo spazio.
Per cui anch’io mi sono molto digitalizzato, dopo aver scritto per anni rubriche cartacea su giornali come La Vallée o come Le Peuple Valdôtain.
Strade nuove senza abbandonare il passato in un delicato equilibrio, sapendo che nessuna generazione come quelle simili alla mia hanno vissuto rivoluzioni tecnologiche e nuovi usi e abitudini da inseguire nel cammino della propria vita.

Perché Einstein fa la pubblicità?

Parecchie volte, in passato ma anche di recente, mi è capitato di vedere Albert Einstein come personaggio inserito in pubblicità varie e ne sono sempre uscito perplesso e talvolta pure schifato.
Einstein è stato non solo un genio della Fisica, ma anche un uomo arguto e con grande carisma, che ha scritto di parecchie cose persino filosofiche e certamente umanistiche. Resta ancora oggi, pur essendo mancato da tanti anni, una personalità ben nota sia per le sue competenze che per quel briciola di bizzarria che lo ha contraddistinto.
Ma chi gestisce questa pubblicità o, come leggo nel titolo di un articolo di Simon Parkin sul The Guardian: “A chi appartiene Einstein?”.
Così scrive Parkin tradotto da Internazionale: “Albert Einstein morì nel 1955. Nell’articolo 13 del suo testamento fece scrivere che i suoi “manoscritti, i diritti d’autore, i diritti di pubblicazione, i ricavi derivanti da questi diritti... e ogni altra proprietà letteraria”, alla morte della sua segretaria Helen Dukas e della figlia Margot Einstein sarebbero passati all’Università ebraica di Gerusalemme, che lui stesso aveva contribuito a fondare nel 1918. Nel testamento Einstein non menzionava l’uso del suo nome o della sua immagine su libri, prodotti o pubblicità. Oggi sono noti come diritti di pubblicità, ma all’epoca questo concetto legale non esisteva. Quando l’U-niversità ebraica assunse il controllo del patrimonio di Einstein nel 1982, tuttavia, i diritti pubblicitari erano diventati un feroce campo di battaglia legale, del valore di milioni di dollari all’anno.
A metà degli anni ottanta l’università cominciò a decidere chi poteva usare il nome e l’immagine di Einstein e a quale prezzo”.
Capito? Viaggiano oggi attorno al mito di Einstein fior di soldi e, dal contesto dell’articolo, interessi vari spesso finiti in Tribunale
Ancora l’articolo: “Mentre gli avvocati discutono i punti oscuri del diritto, l’Università ebraica continua a trarre profitto dal nome, dall’immagine di Einstein e perfino dalla sua silhouette. Nel 2021 il governo britannico ha pagato una somma non precisata per usare Einstein come testimonial in una campagna televisiva e online per pubblicizzare i contatori di energia intelligenti. L’università è attualmente coinvolta in una causa intentata contro cento presunti trasgressori nello stato dell’Illinois, dove una legge protegge tutto, dall’immagine di una celebrità ai suoi “gesti e manierismi” per cent’anni”.
Così è, dunque. Grandi interessi e anche molti scivoloni in nome dell’illustra fisico.
Annota verso la fine Parkin: “A sessant’anni dalla sua morte, Einstein non smette di far guadagnare. Il fatto che sia ancora così richiesto dipende non solo dalla sua genialità fuori dal comune e dal suo aspetto indimenticabile, ma anche dai valori che incarnava. È sempre stato facile per diversi gruppi di persone considerare Einstein – un uomo ipocondriaco basso e dislessico, proveniente da una minoranza perseguitata – uno di loro. Le sue posizioni apparentemente contraddittorie – si opponeva alla creazione di uno stato ebraico ma condannava la vittimizzazione dei palestinesi, mentre raccoglieva fondi per la causa sionista; disdegnava l’idea del popolo eletto, ma credeva in Dio – hanno permesso anche a gruppi opposti di adottarlo come simbolo.
Cosa avrebbe detto Einstein vedendosi sugli schermi televisivi, sui cartelloni pubblicitari, sui manifesti e sulle magliette? Sarebbe stato felice di come l’Università ebraica ha gestito la sua eredità? Quando era in vita si sentiva spesso guardato ma non ascoltato. “È strano essere così universalmente conosciuto e tuttavia così solo”, disse una volta”.
Oggi - come da celebre foto - farebbe la linguaccia a chi specula su di lui!

Quando è bene pentirsi

Si può raccontare una stupidaggine fatta? Certo che si può, anzi esiste qualcosa di benefico nel rievocare qualche cosa di cui ci si è pentiti.
L’episodio risale a oltre vent’anni fa. Lasciavo la Camera dopo tanti anni di lavoro parlamentare e i miei colleghi della Rai Valle d’Aosta decisero di scendere a Roma per realizzare un ampio reportage su di un’attività che finiva. Per la Struttura di Programmazione c’era la guida esperta di Maria Luisa Di Loreto.
Un primo appuntamento per realizzare immagini in loco fu fissato a due passi da Piazza del Pantheon e più esattamente davanti ad un celebre ristorante, Fortunato al Pantheon.
Arrivato di fronte all’entrata del ristorante, trovai Renato Brunetta, mio collega deputato con incarichi anche di Governo e che poi ritrovai a Bruxelles e in molte altre circostanze. Uomo di carattere e di fulminea intelligenza.
Chiacchierammo amabilmente del più e del meno, quando mi chiamò al telefono la troupe e mi spostai di qualche metro. Vidi arrivare l’operatore e gli andai incontro e ci fermammo di nuovo di fronte a Fortunato. Renato non era più lì e a me scappò una battuta stupidissima.
Apostrofai il collega Rai: “ “Hai un giardino a casa tua?”. Lui assentì ed io aggiunsi da vero imbecille: “Potevi portare a casa come da nano da giardino Brunetta, che era qui poco fa!”.
Solo in quel momento - ma non so se mi sentì - vidi spuntare da un cespuglio a pochi metri la faccia di Renato. Sprofondai.
Non parlai mai con lui della storia, ma mi è tornata in mente l’episodio, dopo averlo visto in tv con Lucia Annunziata. Così ha detto Brunetta: “È una vita che vengo violentato per la mia altezza, ho sofferto e continuo a soffrire. Non tanto per Brunetta, ma per i bambini, che non hanno avuto la fortuna di essere alti, belli e che stanno soffrendo e che possono avere in me un esempio, e che dicono "Guardate Brunetta, tappo come è, nano come è, fa il ministro". Ecco, sdogano questo termine su di me”.
Brunetta si era poi rivolto a Marta Fascina, compagna di Berlusconi, che nei giorni scorsi ha pubblicato una storia su Instagram con la scritta «Roma non premiai traditori», con in sottofondo una celebre canzone di De Andrè che narra la vicenda di un giudice con un noto ritornello “È una carogna di sicuro Perché ha il cuore troppo
Troppo vicino al buco del culo”«Marta Grazie, vai avanti, così perché consentirai di sdoganare anche queste violenze», ha detto il ministro. 
Parlai della mia frase cretina con Paolo Costa al Parlamento europeo. Già Sindaco di Venezia, Paolo era amico personale di Renato e ogni tanto capitava che quest’ultimo gli tenesse il figlio. Per cui mi raccontò un aneddoto. Una sera il bambino, al ritorno dei genitori, chiese loro: “Ma Renato è un bambino che fa l’adulto o un adulto che fa il bambino?”. Il candore dei bambini è qualche cosa di straordinario.
Ben diverso dal body-shaming, espressione inglese composta dal body (‘corpo’) e dal sostantivato shaming (‘il far vergognare qualcuno.’). Si tratta letteralmente di giudicare le forme del corpo delle persone, in particolare attraverso il web e i social network. Una tendenza a dir poco imbarazzante e inaccettabile per chiunque si permetta di praticarlo anche involontariamente, come nel mio stupido esempio.
Anche a me è capitato di essere stato rappresentato in vignette, specie quando ero Presidente della Regione da un’eroina dell’estrema sinistra, come un brutto grassone deforme, ma capita ancora che ci sia - non solo a me - che quell’area politica segua il filone con disegni lol che non fanno ridere.
Comportamento che non è una battuta inopportuna come fu la mia, ma una scelta squallida di demonizzazione di un avversario in una logica davvero - con tutti i limiti della definizione - “politicamente scorretta”.

Parole, parole, parole…

Da domani, tranne fatti rilevanti di cui mi sentissi obbligato ad occuparmi, apro - come già avvenne in passato - una pausa nel cuore dell’estate.
Trovo utile, esattamente come avviene con le vacanze quando ci si ristora dalla quotidianità, aprire una spazio libero ai propri pensieri. Abbandonare per un attimo il lavoro, in un periodo che resta per nulla banale per molte ragioni e lo stesso impegnativo, consente digressioni che confortano.
Mi occuperò di parole dimenticate o sottostimate. Ha scritto la poetessa Emily Dickinson: “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”. Per questo credo che ognuno di noi abbia delle sue parole preferite o persino a rischio ripetizione. Capita a qualunque età, anche dopo lo straordinario periodo dell’apprendimento che si scopre soprattutto con i propri figli, di trovarne di nuove e di scoprirne l’utilità.
Sulla parola parola ha scritto Stefano Bartezzaghi: “Parola, si sa, è una parola e fra le parole è una delle meno univoche. La parola è il vocabolo ("ossesso è una parola palindromica") ed è l'impegno del locutore nel proprio discorso ("ti do la mia parola"); è la facoltà ("il dono della parola") ed è il diritto di parlare ("do la parola a ..."); è un'affermazione, una presa di posizione nel discorso ("avere l'ultima parola") ed è un indirizzo ("la parola del maestro"); è il vacuo succedaneo dei fatti ("solo a parole") ed è un modo di parlare ("avere la parola facile"): nella sua variabilità semantica, la parola parola allude alle virtù oscillatorie del linguaggio”.
E bisogna ancora ricordare con Gabriel Garcia Marquez: “Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando non significano più ciò che intendevano gli autori”.
A me piacciono le parole. Mi piacciono quando scrivo e mi trovo a doverle pesare nella speranza di essere efficace. E mi piace seguirne il flusso quando mi capita di parlare in pubblico non solo nella speranza di comunicare bene quanto penso, ma per il gusto di poterle inanellare nel rapporto che si crea con le persone che ti ascoltano.
Gianni Rodari, con una sua filastrocca diventata famosa specialmente nella versione musicata e cantata da Sergio Endrigo, ha dato una definizione che va davvero al di là di ogni eccesso intellettualistico:
“Abbiamo parole per vendere,

parole per comprare,

parole per fare parole.

Andiamo a cercare insieme

le parole per pensare.
Abbiamo parole per fingere,
parole per ferire,

parole per fare il solletico.

Andiamo a cercare insieme

le parole per amare.

Abbiamo parole per piangere,
parole per tacere,

parole per fare rumore.

Andiamo a cercare insieme

le parole per parlare”.
La scelta delle parole che qui verranno finisce per essere abbastanza casuale, più o meno sintetica e certamente soggettiva, senza essere pretenzioso.
Perché, per fortuna, con le parole si può anche giocare.

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