Tutto parte da un interrogativo, che è già una constatazione: come mai Papa Francesco piace? Le ragioni sono molte: la prima è nel suo evidente anticonformismo, che viola i formalismi del protocollo vaticano. Ma poi e soprattutto perché, nel suo eloquio dalla dolce cadenza spagnola, usa un linguaggio chiaro e diretto e soprattutto convincente. Lo ha fatto massacrando senza sconti i politici corrotti, citando con chiarezza le malattie della Chiesa e proponendo, come immaginifico punto di riferimento del Natale, «la tenerezza», indicata anche come il sentimento necessario verso i bambini, ma non solo. Questo Papa, che ha scelto di chiamarsi Francesco come il "Santo della Povertà" (il cui Ordine purtroppo sta affondando per via di speculazioni finanziarie...), ma penso che non finirà di stupirci e, come dirò, si tratta sicuramente di un bene.
Questa storia della tenerezza sdogana una parola che è stata ingiustamente confinata in una logica zuccherosa e appiccicaticcia. Ed invece ha, nella morbidezza della sua origine, un senso di dolcezza e di quel rapporto di empatia che si può creare. Ha forse ragione Milan Kundera, quando segnala che la tenerezza è per un adulto una sorta di "va e vieni" rispetto all'infanzia: «La tendresse prend naissance à l'instant où nous sommes rejetés sur le seuil de l'âge adulte et où nous nous rendons compte avec angoisse des avantages de l'enfance que nous ne comprenions pas quand nous étions enfants».
E' strano il rapporto con bambini e ragazzi. Passi il tempo a spiegare loro delle cose che hai provato, mettendoli in guardia su che cosa avverrà, ma loro giustamente ti guardano straniti, perché godono del giusto diritto di farsi le loro esperienze. Senza che qualcuno li voglia dirigere sulla base di quanto ha vissuto. Per altro proprio l'interazione, specie con i propri figli (in cui è più facile specchiarsi per le ovvie somiglianze), fa riscoprire la tenerezza nostra verso di loro e la loro verso le cose della vita.
A me, invece, le festività natalizie - specie nella coda del post-festa fra il pigro e il languido - dischiudono un mondo che spesso, resi aridi da certe prove della vita, tendiamo a dimenticare: lo stupore. Stupore inteso nel suo significato classico di "grande meraviglia". Ed è quanto in queste ore abbiamo visto in particolare negli occhi dei bambini all'atto dell'apertura dei loro regali natalizi. Oppure - e questo è tutto da adulti - quando ti trovi a fare il primo passo, magari per una conciliazione che potrebbe diventare una riconciliazione, verso una persona che pure non lo meriterebbe e lo stupisci con il tuo gesto. E forse l'esito stupisce pure te stesso...
Un brano letterario che esemplifica lo stupore è in una struggente novella di Luigi Pirandello, "Ciàula scopre la Luna". Ciàula è il "caruso" (giovanissimo garzone nelle miniere di zolfo) di un minatore ed ha sempre vissuto in miniera, quando una notte esce e vede la luna. Ecco il finale: "Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento. Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore".