December 2014

Il Presepe e l'Umanità

Un simpatico presepe per bimbiSeguo con sgomento le solite polemiche stagionali sui presepi come disegno di prevaricazione della cristianità nelle scuole, a fronte della presenza di allievi non credenti (e questo c'è sempre stato), ma soprattutto di allievi che professano altre religioni, in particolare gli islamici. Polemiche non nuove e che se sono forti in Italia e lo sono da molto tempo in Francia, sia per la maggior anzianità delle comunità, specie maghrebine, sia perché la logica della laicità dell'insegnamento è, Oltralpe, un caposaldo.
Ho trovato, in zona alpina, in Valle Aurina a Luttach nel Tirolo del Sud, un museo, il "Maranatha" (dall'Antico Testamento nel significato "Signore nostro, vieni!"), considerato la più grande esposizione di presepi in Europa. Sul sito c'è una spiegazione della nascita del Presepe, che qui riporto, scritta da Steger Conrad: "In tutto il mondo durante il periodo natalizio, laddove i cristiani festeggiano l'incarnazione di Dio, esiste l'usanza di erigere presepi nelle case e nelle chiese. I presepi sono rappresentazioni artistico-figurative della nascita di Gesù nella mangiatoia di una stalla a Betlemme. Nella capanna vediamo la Sacra Famiglia e i pastori, sullo sfondo l'asino e il bue. L'adorazione dei saggi d'Oriente, i tre Re Magi, viene inclusa nel paesaggio il 6 gennaio. Gli evangelisti Luca e Matteo furono i primi a descrivere la storia dell'incarnazione di Cristo. E' famoso il Vangelo di Natale di Luca, apparso nel secondo secolo dopo Cristo e poi divulgato nelle prime comunità cristiane. Già nel Quarto secolo troviamo a Roma (nelle catacombe) immagini della natività. L'origine esatta del presepio è difficile da definire, in quanto è il prodotto di un lungo processo. E' storicamente documentato che già in tempo paleocristiano, il giorno di Natale nelle chiese venivano esposte immagini religiose, che dal decimo secolo assunsero un carattere sempre più popolare, estendendosi poi in tutta l'Europa".
Poi l'autore riporta un fatto noto: "Comunemente il "padre del presepio" viene considerato San Francesco d'Assisi, poiché a Natale del 1223 fece il primo presepio in un bosco. Allora, Papa Onorio III, gli permise di uscire dal convento di Greggio, così egli eresse una mangiatoia all'interno di una caverna in un bosco, vi portò un asino ed un bue viventi, ma senza la Sacra Famiglia. Poi tenne la sua famosa predica di Natale davanti ad una grande folla di persone, rendendo così accessibile e comprensibile la storia di Natale a tutti coloro che non sapevano leggere".
Si aggiungono altri particolari interessanti: "Nella Cappella Sistina della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, si può ammirare uno dei più antichi presepi natalizi. Fu realizzato in alabastro nel 1289 da Arnolfo da Cambio e donato a questa chiesa. Il presepio ha la forma di una casetta, in cui è rappresentata l'adorazione dei Re Magi. Si considerano precursori del presepio anche gli altari gotici intagliati con immagini della natività, che non fu possibile rimuovere. Uno di questi altari con il gruppo dei tre Re Magi si trova in Austria nella chiesa di S. Wolfgang nella regione di Salzkammergut. Questo altare venne realizzato dall'artista brunicense Michael Pacher".
Mi fermo qui, perché poi nelle epoche successive ci sono ricchezze stilistiche di varie epoche, che riguardano anche la nostra area geografica, come ad esempio i "santonniers" provenzali, su cui realizzai tantissimi anni fa un bel reportage televisivo per una rubrica nazionale della "Rai".
Ma quel che conta, appunto, è capire come, nella logica di tolleranza e integrazione, quel simbolo del presepe possa diventare un elemento di condivisione e non di divisione. Bisogna rispettare ogni cultura e ogni religione, sapendo bene che esistono limiti a logiche di relativismo culturale, quando queste cozzanno con elementi basilari dello Stato di Diritto. Ma nel caso del presepio, che è segno di speranza, che si presta a varie letture, va considerato che - al di là di chi ne fa un elemento di Fede - è una rappresentazione plastica della famiglia e della maternità, che non ha confini nella stessa Umanità.

Rottamare l'autonomia speciale

La proposta dei parlamentari del PDUltimi arrivati di una lunga sfilza "bipartisan" arriva un gruppo di deputati del Partito Democratico, partito al Governo ed in testa a tutti i sondaggi in epoca di Renzi tuttofare (premier e segretario in una logica ormai personalista), a proporre con proposta di legge costituzionale - nel quadro di una riduzione delle Regioni - di far sparire la Valle d'Aosta. Scelta che dovrebbe essere inserita, già che ci siamo e visto che "la fretta fa gattini che ci vedono benissimo", nella riforma costituzionale in corso in tema di regionalismo e pure il presidente dei presidenti delle Regioni, Sergio Chiamparino, ha già detto incredibilmente di essere nella stessa scia. Si tratterebbe di un blitz davvero di stampo militare, che porrebbe gli interessati di fronte al fatto compiuto.
C'erano nel nostro caso un patto politico e una tutela costituzionale? Roba del passato, ferrivecchi del 1945 e dintorni, da buttare nella pattumiera nella fulgida epoca odierna, senza nostalgie o rimpianti. Lo chiede la modernità! Poi, perbacco, siamo in Italia e l'Italia decide!
Vecchia questione, dicevo, che accomuna oggi esponenti della Sinistra alla vecchia Destra, con qualche sfumatura nuova, adeguata ai tempi. E il refrain è il solito, ma declinato come un razzo a due stadi. Non si tratta, infatti, solo di far sparire la specialità, asfaltando l'articolo 116 della Costituzione, non nel nome del federalismo, ma della normalizzazione. Di fatto, visto il contesto centralista della riforma Renzi, la scelta è quella di ridimensionare ad ampio spettro il regionalismo e dunque fare di ogni erba un fascio. «Una rottamazione», direbbe qualcuno...
Ma questa volta, per i valdostani, non ci si ferma qui. L'idea è quella di profittare del passaggio per far sparire la Valle d'Aosta "fusa" con Liguria e Piemonte, esattamente in linea con la Regione Lombardia (Forza Italia e Lega in entente cordiale), che ha proposto di chiamare la stessa creatura "Limonte". Esempio linguistico di che fine farebbe la storia autonomistica della Valle d'Aosta, neppure più citata.
Naturalmente si aggiornano i vecchi progetti omicidi con una veste nuova: il risparmio e l'efficienza. Si rende più educata la vecchia accusa «ricchi e privilegiati» con logiche da mattone avvolto in carta regalo. La fregatura passa attraverso cifre e statistiche, economie di scala e efficientamento ed avanti con amenità analoghe.
Resta una logica distruttiva da tritasassi, sfuggendo per altro che fine farebbe ogni logica di rappresentanza della nostra comunità. Forse finiremmo nell'area metropolitana di Torino, come stambecchi buoni per un museo. Esempio vivente di montanari con l'osso nel naso e la sveglia al collo, destinati - in nome dell'eguaglianza giacobina - alla marginalizzazione e all'abbandono. Insomma, verremmo rimessi in riga dallo Stato Nazione che non tollera forme di diversità.
Per quel mi riguarda la discussione sui due punti non si accetta per una semplice ragione. Chi deposita in Parlamento certe proposte non può poi nascondersi dietro la foglia di fico del «discutiamone con serenità». Serenità un piffero!
A me monta solo la carogna e mi indigno, chiedendomi se sia possibile che si agisca in certi modi, lesivi di capisaldi costituzionali di vario genere, che si minano con la superficialità e l'arroganza di chi oggi è nella "stanza dei bottoni" e crede di fare e disfare. E di farlo, nel nostro caso, in violazione di elementari principi democratici di coinvolgimento della comunità interessata, che è un popolo con una storia e personalità ben più profonde di una Repubblica che si rimangiasse, con spaventosa indifferenza e con una scelta violenta, l'ordinamento valdostano e i suoi principi.
Io penso, pure con il rischio che ci sia anche in Valle una parte di indifferenti e rassegnati (e di comprati), che chi scherza con il fuoco dovrebbe preoccuparsi di delle reazione di quelli che non accetteranno mai umiliazioni.

Cuba ora spera

Auto anni Cinquanta a CubaImmagino che per le giovani generazioni sia difficile capire perché, a chi abbia grossomodo la mia età o sia più vecchio di me, stia così a cuore la questione del riavvicinamento fra Cuba e Stati Uniti. E questo, in prima battuta, avviene di primo acchito, a prescindere dal giudizio dettagliato che si può dare di quanto per ora è solo una serie di annunci.
L'immediato tratto distintivo riguarda la ragione per cui sono qui e non sono morto per un'esplosione nucleare ai tempi della guerra fredda. Non avevo ancora compiuto quattro anni quel 24 ottobre del 1962, quando scoppiò la crisi dei missili tra Stati Uniti e Unione Sovietica per i 42 ordigni nucleari che Nikita Kruscev aveva fatto installare a Cuba. La crisi si risolse in cinque giorni con la decisione di Kruscev di smontare i missili e di riportarli indietro ma il mondo fu veramente ad un passo dallo scontro definitivo. Fu un passaggio traumatico, che incise non poco negli anni successivi sull'equilibrio del terrore che ha retto il mondo e che ancora in parte lo regge, visto che le bombe atomiche ci sono ancora.
Cuba è stata poi un tormentone per la mia generazione. I miei amici comunisti, ma anche mie letture giovanili come articoli su "Linus", usavano l'isola caraibica per rispondere a chi, come facevo io, criticava gli esiti del "socialismo reale" oltre la cortina di ferro. La rivoluzione di Fidèl Castro era di conseguenza un mito da alimentare in assoluto e anche contro i "gringos" che, con l'embargo, affamavano i cubani. Il tutto condito da retorica terzomondista che non ha retto al giudizio della Storia, così come il comunismo nel passaggio fra il dire e il fare. Lo avevano scritto con lucidità i federalisti personalisti, comprendendo sin da subito quanto di totalitario ci fosse nel comunismo, tolta l'affascinante componente utopista.
Se già mi faceva venire il latte ai gomiti certa retorica, due vacanze a Cuba, con la curiosità di capire e di incontrare le persone, mi avevano riconfermato quanto fossimo di fronte ad una dittatura e come tale andava considerata senza sconti. Che poi prima l'Unione Sovietica e poi, di recente, il Venezuela cercassero di tenere in piedi un regime oppressivo e liberticida non stupiva. La stessa successione dinastica da Fidèl a Raùl dimostrava come l'apparato di potere del post rivoluzione fosse un'élite che desiderava perpetrare il proprio potere in un Paese, diventato per campare un bordello a cielo aperto.
Tutti sapevano che il sistema prima o poi non avrebbe retto e non si può essere che stupiti dalla persistenza di un regime considerato oppressivo, specie dalle giovani generazioni, che prima con la televisione satellitare e poi con Internet hanno scoperto un mondo attorno a loro diverso da quello che la Propaganda voleva loro far credere. Compresa la consapevolezza della loro povertà opprimente e dei metodi repressivi per chiunque si dimostrasse critico.
Ora vedremo come Barack Obama se la caverà con la maggioranza repubblicana scettica alla Camera dei rappresentanti e quali ostacoli, specie finanziari, verranno frapposti all'apertura annunciata. Capisco anche la perplessità degli intellettuali cubani esuli, che temono una sorta di legittimazione di un regime feroce che viola i diritti umani.
Ma che la situazione di stallo si sia mossa io penso che sia un bene. Un focolaio di crisi come questo si era già naturalmente raffreddato nel tempo e specie quando ero stato a L'Avana mi ero convinto che l'orologio della Storia non potesse essere arrestato, come pareva avvenisse con i macchinoni americani anni Cinquanta ancora sulle strade, ereditati dall'epoca del dittatore Fulgencio Batista, prima della Revolution che nel 1959 lo cacciò dal Paese.
Si volta pagina, dopo il fallimento di un disegno pieno di speranze e la sfida per i cubani negli anni a venire sarà ancora tutta in salita. Il ritorno della democrazia (sistema pieno di magagne, ma sempre meglio di un regime dittatoriale) è, comunque, un processo irreversibile.

Voglio la neve!

Una palla di vetro con la neve fintaIl clima cambia, oggi come da sempre, ma questa volta una parte maggioritaria della Scienza ci ammonisce sul fatto che non è la Terra che va per conto proprio, oscillando fra caldo e freddo, ma siamo noi esseri umani a provocare una larga parte dei cambiamenti con i nostri comportamenti dissennati e in parte irreversibili.
Giorni fa, a Lima in Perù, il tema è tornato all'attenzione dei decisori di tutto il mondo. E "Wired" ha così sintetizzato con efficacia: "Troppo poco per gli ambientalisti, troppo per i negazionisti del "Climate Change". Certo è che la ventesima "Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite - COP20" tenutasi dal primo alla notte del tredici dicembre nella capitale peruviana, stabilisce una road map di avvicinamento a quella che sarà invece la conferenza decisiva a Parigi, nel dicembre 2015, dove i governi dovranno assumere decisioni definitive per evitare la soglia di aumento del riscaldamento globale oltre i due gradi centigradi".
Parigi sarà un passaggio determinante per un accordo storico, altrimenti prepariamoci al peggio.
Questo sulle Alpi può avere conseguenze pesanti con mutamenti che inquietano e parlarne di questi tempi non è casuale. Basta purtroppo guardarsi attorno per capirlo.
Sul punto bisogna intendersi: senza neve, ancora prima che questa penuria risulti un danno economico per il turismo invernale, è evidente che Natale perde un pezzo sotto il profilo sentimentale. Manca cioè un elemento fondamentale. Guardavo ieri questo paesaggio brullo, con qualche chiazza di neve sulle cime, cui corrisponde pure - a chiusura di un anno eccezionale per le alte temperature - una mitezza di clima che deve preoccupare. Sulle Alpi, purtroppo, quest'anno è così e non si può affatto dire "mal comune mezzo gaudio".
Il fatto che neve non cadesse per tempo nella mia infanzia era impensabile: lei, la neve, arrivava sempre. Era una certezza e avvolgeva tutto, come da copione.
Oggi non è sempre così ed è un peccato, perché, come ha scritto Antonine Maillet, certa magia vale anche per gli adulti: «La neige possède ce secret de rendre au coeur en un souffle la joie naïve que les années lui ont impitoyablement arrachée».
Ma esiste una descrizione ancora più bella di Maxence Femine, che traggo da un suo libro, regalatomi anni fa, tradotto in italiano: «La neve possiede cinque caratteristiche principali. E' bianca. Dunque è una poesia. Una poesia di una grande purezza.
Congela la natura e la protegge. Dunque è una vernice. La più delicata vernice dell'inverno.
Si trasforma continuamente. Dunque è una calligrafia. Ci sono diecimila modi per scrivere la parola neve. E' sdrucciolevole. Dunque è una danza. Sulla neve ogni uomo può credersi funambolo. Si muta in acqua. Dunque è una musica. In primavera trasforma fiumi e torrenti in sinfonie di note bianche»
.
Ma appunto quest'anno si fa attendere e sulla nostra pelle, dopo alcune stagioni favorevoli, torna a pesare il segno di quei cambiamenti climatici, che già preoccupano con quelle piogge monsoniche che innescano inondazioni e accelerano le frane, moltiplicando le zone a rischio sulle nostre montagne.
Tempi grami anche su questo fronte, come se ce fosse stato bisogno nel marasma generale.

Strano clima nella politica italiana

Matteo Renzi a 'Radio 105'Chissà cosa porterà il 2015 alla politica italiana. Di certo l'elezione di un nuovo Presidente della Repubblica, ma per il resto penso che il quadro sia abbastanza in movimento, perché il renzismo - all'apice del successo - mostra volti poco rassicuranti non solo per la scricchiolante politica del fare tanto proclamata, ma anche per l'allontanamento costante rispetto ad elementari regole di diritto costituzionale.
Nel tour mai visto prima, come numero di interviste radiotelevisive, Matteo Renzi sa sempre di dover "sparare alto" per tener viva l'immagine glamour di politico che vuole rompere gli schemi. La sua è stata in realtà un'abile carriera politica, con meccanismi ordinari e tradizionali, ma gioca ormai il ruolo - non facilissimo da mantenere - del politico antipolitico. La sua specialità è proprio quella di sfruttare l'"effetto annuncio", rinnovato all'infinito, ma non solo affermando la sua primazia in un rapporto diretto con l'elettorato, ma facendo intendere, che a parte i suoi fedelissimi del suo giro toscano, attorno c'è solo una "vecchia" politica da sradicare assieme a tutto quanto gli sta vicino. Lui da solo basta e avanza, dopo aver buttato tutto a mare, compreso il sistema delle autonomie locali che gli è palesemente antipatico, per affrontare in modo titanico qualunque cosa: una sorta di peronismo all'italiana, basato sulla dialettica fiorentina controcorrente e sui "Tweet" sprezzanti verso il nugolo di avversari che si crea per "cambiare verso". Una politica da rapper, che governa con ritmo sincopato, senza badare a regole di bon ton ed al protocollo istituzionale, come un Pierino La Peste, divertito anche nel cavalcare dileggio e sfottò.
Così - solo per fare un caso - Renzi, alla vigilia del trentatreesimo voto di fiducia, ha maramaldeggiato ai microfoni di "Radio 105": «sono un numero che garantisco aumenteremo in futuro». Fa bene: il Parlamento abdica al suo ruolo di Legislatore e sta per rivotare una riforma costituzionale che renderà normale che le leggi passino dai decreti legge imposti dal Governo con un voto "prendere o lasciare". Già oggi dunque, con piena e partecipe consapevolezza del premier, si sta svuotando come non mai il regime parlamentare con un presidenzialismo di fatto e non di diritto. E lo si fa - con troppi silenzi complici - con l'uso del dileggio, come nel voto sul maxiemendamento della Legge di Stabilità. Renzi dice: «abbiamo bloccato l'assalto alla diligenza», riferendosi alle norme inserite dai parlamentari con propri emendamenti. Emendamenti passati in Commissione con il parere favorevole del Governo! Che poi li toglie per fare bella figura e svilire le Camere sprecone e inette. Un gioco al massacro per la democrazia e grasso che cola per l'antipolitica cavalcata dalla politica "furbetta". Che conta soprattutto sul solito ritornello del «lasciamo fare, perché tanto non esiste alternativa». Cambiali in bianco inaccettabili in una democrazia, specie quando nella "Legge di Stabilità" ci sono numerose "marchette" governative per gli amici degli amici e quei poteri forti che dovrebbero essere nemici e invece...
Ecco perché il nuovo Capo dello Stato dovrà essere persona autorevole e libera. Per fare da contraltare a eccessi di potere e a logiche che scardinino non i rituali della "vecchia politica" ma norme di salvaguardia della cosa pubblica e meccanismi di garanzia. Altrimenti, senza freni, l'andazzo attuale rischia di prendere velocità e di far finire la dolente Italia contro un muro.
Indro Montanelli, fiorentino come Renzi ammoniva: «In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: "Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?"».
Capisco che la parola è grossa e le tentazioni autoritarie forse distanti, ma è sempre bene pensarci per tempo.

Il Natale pensando ai bambini

Il piccolo Ismail, nato in Veneto ed ora 'arruolato' nell'IsisL'altra sera ho incontrato i miei compagni di Maturità della terza B del Liceo classico "Carlo Botta" di Ivrea. Uno di loro, Gigi Chimentin di Lessolo, non lo vedevo dal 1978. Eppure, tanti anni dopo, ho riconosciuto la sua camminata, mentre si avvicinava al nostro gruppo, in attesa in mezzo alla nebbia. Abbiamo convenuto con lui di non aspettare, visto il rischio di non esserci, altrettanti anni per rivederci...
Un caposaldo di queste serate venate di nostalgia, ma anche di grande divertimento perché ci si ritrova a scherzare con le stesse modalità dei tempi della scuola e dunque le lacrime agli occhi sono più per il ridere che per la commozione, è quello di parlare dei propri figli (e per alcuni di noi pure dei nipoti).
Ci ripensavo a questi discorsi paterni e materni, intrisi di affetto e preoccupazioni per queste generazioni più giovani, investite da un mondo pieno di brutture e di preoccupazioni con evidenti rischi per il loro futuro, senza quel carico di ragionevoli speranze che illuminavano a suo tempo il nostro cammino verso l'età adulta. E come non collegarlo al Natale che incombe con il suo carico di retorica, in cui - almeno in apparenza - il centro sono loro, i bambini.
Eppure, ancora oggi, scorrendo i giornali, trovo terribile, di questi tempi, la violenza e la ferocia verso i bambini. Che sia la foto del bambino ucciso in Sicilia dalla madre, la notizia della strage di figli di una matta in Australia, l'istantanea del bimbo bosniaco portato a combattere in Siria dal padre, ucciso nel frattempo, o del piccolo curdo che riesce finalmente a raggiungere il confine turco dopo aver vissuto orrori. La quotidianità porta purtroppo un carico atroce di dolori, che colpiscono alla gola proprio quando protagonista diventa, malgrado loro, quell'infanzia che dovrebbe essere messa al riparo e protetta.
Mi veniva in mente quell'espressione ironica ma anche realistica di Paulo Coelho:
"Un bambino può insegnare sempre tre cose ad un adulto:
1. Ad essere contento senza motivo.
2. Ad essere sempre occupato con qualche cosa.
3. A pretendere con ogni sua forza quello che desidera"
.
Nei miei discorsi con gli amici del passato, che restano appunto "congelati" nel loro ruolo al Liceo, come se potessimo tranquillamente ritrovarci l'indomani mattina ad entrare in classe al suono della campanella, segnalavo come se all'epoca mi avessero detto «avrai tre figli», avrei pensato che la circostanza sarebbe stata estremamente improbabile. Ed invece, per i casi della vita, ho avuto la fortuna di averli e di poter dire quanto l'arricchimento degli uni verso gli altri e viceversa sia una delle forze vitali della nostra esistenza.
C'è quella frase, in parte provocatoria ma comprensibile leggendo le sue opere, di Antoine de Saint-Exupéry, che dice: "Nous n'héritons pas de la terre de nos parents, nous l'empruntons à nos enfants". Papa Benedetto XVI ha scritto della Natalità ed offre un'osservazione pertinente con questo nostro ragionamento: «Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. E' la festa che canta il dono della vita».
La vita che cresce e si sviluppa nei bambini dovrebbe essere una luce certa in questo Natale tanto evocato.

Auguri di Natale...

Gli auguri di Natale un tempo arrivavano in due sole forme: quella scritta, con cartoncini più o meno fantasiosi e anche naturalmente di persona. Poi arrivò il telefono e le chiamate di piacere e di dovere, tipo la vecchia zia cui non si poteva far mancare l'affettuoso augurio.
L'avvento delle nuove tecnologie sta lentamente e inesorabilmente trasformando pure gli auguri di rito. Gli sms e i messaggi su "whatsapp" sono il segno dei tempi, così come la posta elettronica.
Già da qualche giorno, ma con intensità nelle prossime ore sino ad un lento esaurirsi con il "Buon Anno", ne fioccheranno i più vari.

Una sveglia per Natale...

Sveglie (di Natale?)Natale è come un flash che illumina. Ha una sua lunga premessa, fatta di attesa. Poi arriva e passa, appunto come un lampo, che riassume con la sua caduca intensità tutte quelle luci con cui lo celebriamo.
Non so bene come riuscire a comunicare i miei auguri più sinceri, perché non siano anch'essi effimeri, come colorati palloncini che si perdono nel cielo.
Allora non resta che rifarsi al tratto personale e alla combinazione del fatto che domani compio 56 anni. Un'età che un tempo sarebbe suonata come già un po' avanti con gli anni, mentre oggi per fortuna le prospettive di vita - sperando di non attirarmi una sciagura - si sono allungate. Per altro, devo dire che l'augurio sta proprio nella logica dell'equilibrio, di una qual certa saggezza che si somma ad una rispettabile vigoria fisica (quella mentale non spetta a me dirlo...). In più posso contare sullo stimolo e sull'amore di una moglie molto più giovane di me e di tre figli che sono ogni giorno una responsabilità, lieve e non gravosa. Specie perché nel loro percorso nella vita, ciascuno con la sua età e il suo carattere, mi fanno sorridere, essendo un pezzettino di me che si perpetua nel tempo.
Ma questa idea del "saggio", come riflessione su me stesso, arriva in verità da un angolo sghimbescio. Capita quando Alessia Favre, sorridente presidente dell'Union Valdôtaine Progressiste, talvolta febbrile nella sua passione civile, non sapendo bene come chiamarci, a Dino Viérin e a me ha coniato l'unificante termine di "savant". Che in francese sarebbe "Qui sait beaucoup de choses, qui a un grand savoir", che viene, come "saggio" dal latino "sapere".
Espressione che mi lusinga, anche se in certi momenti all'inizio mi aveva infastidito, perché mi pareva che fosse come una commenda che celebrasse ormai una posizione ormai tombale in politica. Ma devo dire che questo abito ho scoperto piacermi, perché dopo tanti anni in prima linea ci stava una logica di riflessione personale. Ma anche di concentrazione su temi politici di fondo, inseriti nella vita nella sua assoluta normalità fatta di lavoro ed affetti.
Ne ricavo, a dispetto di questi anni in cui assistiamo ogni giorno a tanti fatti cupi e minacciosi che ci lasciano come sospesi sulle incertezze, la fiducia per il futuro. Nulla di astratto o teorico: è qualcosa di molto concreto, cui bisogna attaccarsi per evitare che si insinui un senso di vuoto. E il vuoto non sempre viene riempito da cose belle, se vige una forma di rassegnazione e di chiusura nel proprio privato.
L'auspicio è dunque una scossa alle coscienze. Quando penso alla Valle d'Aosta di oggi mi viene in mente lo scrittore ceco Milan Hübl, citato da Milan Kundera, che diceva: «per liquidare i popoli si comincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un'altra cultura, inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E, intorno, il mondo lo dimentica ancora più in fretta».
Una sveglia come regalo di Natale...

Piccola riflessione natalizia

Paperon De' Paperoni nei panni di Ebenezer ScroogeIl "Canto di Natale" del romanziere inglese Charles Dickens, stampato nel 1843, è uno dei racconti più noti sulla vigilia del Natale e sul significato di questa festività. E' diventato noto per la semplicità e la suggestione delle vicende narrate in un'Inghilterra a cavallo tra il passato e l'affermarsi della rivoluzione industriale, ma con personaggi che restano validi in tutte le epoche. Dalla storia sono stati tratti cartoni animati, film, letture radiofoniche e pure il disneyano Paperon de' Paperoni ne è esplicitamente ispirato come immagine di una persona, che pure fa ridere, attaccata ai soldi e terribile nei rapporti con il mondo e i propri cari.
Quella raccontata da Dickens è la storia di un uomo d'affari, Ebezener Scrooge, avaro ed egoista, che trascura la famiglia e ed è incapace di apprezzare - per la sua evidente aridità - le piccole cose come il calore del Natale. Quel calore che proprio nelle ore topiche dei festeggiamenti o c'è o non c'è.
Il momento più importante è quando Scrooge, tornando a casa più arrabbiato e tetro del solito, incontra i tre fantasmi del Natale: passato, presente e futuro. Queste immagini fra lo spaventoso e l'istruttivo porteranno il vecchio taccagno a pentirsi dei propri atti egoistici e indifferenti al resto dell'umanità. Così, alla fine, Scrooge - in un lieto fine che sdrammatizza la drammaticità - diventerà un’altra persona e tutti stenteranno a credere nella sua trasformazione, invece veritiera.
Confesso che mi piacerebbe scatenare certi fantasmi contro persone di questo genere che, al di là degli aspetti caricaturali e persino grotteschi, esistono davvero. La grettezza e l'egoismo sono dei mali che ci sono purtroppo fra di noi e la Crisi (dal latino "crĭsis -is", dal greco "krísis - scelta, giudizio" ed in medicina "fase critica di una malattia", da cui il significato attuale di "fase difficile") è una bestiaccia che peggiora le persone e dà spazio ai "cattivi" (il Male purtroppo c'è!).
Oggi, nella zona neutra del Natale, dobbiamo essere buoni, ma questo non vuol dire affatto pensare che il "buonismo" cancelli le responsabilità di chi certi valori da "spirito del Natale" li calpesta con i propri comportamenti. Un "libro nero" va sempre tenuto, specie per chi agisce nello spazio pubblico e lo ricordo in un'epoca in cui si dimostra che corruzione e malaffare sono e restano un problema per l'Italia e per la Politica.
Ha scritto George Orwell, il grande scrittore britannico del Novecento: "La verità è che in Dickens il giudizio sulla società è quasi esclusivamente di tipo morale. Da qui l' assenza totale di proposte costruttive in qualunque passo della sua opera. Dickens attacca la legge, il governo parlamentare, l'istruzione e quant'altro senza mai indicare esplicitamente delle alternative. Certo, formulare proposte costruttive non è necessariamente compito di un romanziere o di un autore satirico, però l'atteggiamento di Dickens in fondo non è nemmeno distruttivo. (…) In ogni suo attacco contro la società, Dickens sembra voler auspicare un mutamento della psiche piuttosto che della struttura. (…) Più sopra dicevo che Dickens non è uno scrittore rivoluzionario nel senso universalmente riconosciuto del termine. Ma non è affatto certo che una critica puramente morale della società non sia poi altrettanto "rivoluzionaria" - e la rivoluzione, dopotutto, è un rivoltare le cose - quanto la critica politico - economica che va di moda adesso".
Insomma, quel "messaggio in bottiglia" di Dickens ha un fondamento morale intatto anche oggi e forse oggi più che mai di attualità.
Un piccola riflessione che penso sia adatta per il Natale. Ancora auguri!

Contro l'amnesia

La MemoriaCome eco dal passato, in questi giorni festivi, arrivano pensieri e memorie. Sarà quella nostalgia che deriva dalle evocazioni di fatti e persone caratteristiche di incontri familiari, ma tant'è che capita di riflettere su certe storie. E non mancheranno presto delle occasioni per tenere allenata la memoria.
Lo scrittore francese Patrick Modiano, ricevendo il "Nobel per la letteratura" giusto all'inizio di questo mese ha detto: «J'ai l'impression qu'aujourd'hui la mémoire est beaucoup moins sûre d'elle-même et qu'elle doit lutter sans cesse contre l'amnésie et contre l'oubli».
L'inverno 1944-1945 fu terribilmente freddo, uno di quegli avvenimenti secolari, come se anche la Natura volesse esprimere il suo dissenso verso quella Seconda Guerra mondiale che volgeva al termine. E pensare che non esisteva ancora una piena consapevolezza dell'insieme di errori raccolti in pochi anni.
Quel freddo lo ricavo dal diario scritto da mio papà, che su un calepino annotava la sua prigionia fra Germania e Polonia assieme ad un gruppo di alpini valdostani spediti in campo di internamento fra il maggio del 1944 e la primavera dell'anno successivo. Le temperature segnate fanno impressione, così come le nevicate. Non posso non pensare al paradosso di mio papà che accompagnava gli ebrei in fuga in Svizzera attraverso la conca di By e poi il destino di capire ad Auschwitz che i camini fumanti erano i corpi bruciati degli ebrei uccisi con il gas per la "soluzione finale". Ma più i mesi passavano e più si capiva che la fine della guerra era vicina e fu una fuga a consentirgli di riportare a casa la pelle! Al rientro non sarà mai più lo stesso, con quel pezzo di sua gioventù inghiottito e mai restituito dalla Storia.
Penso anche a mio zio Ulrico Masini, capo-partigiano di "Giustizia e Libertà" in bassa Valle e ai suoi racconti di quei mesi durissimi nel gelo, ma con la speranza che si stesse per voltare pagina. Lo ricordo, ormai ultraottantenne, quando si interrogava su che cosa non avesse funzionato in quell'agognato ritorno alla democrazia. Era la sua una rabbia sorda.
Ci avviciniamo al settantesimo anniversario della Liberazione in un contesto politico complesso e lo è anche per chi milita in quell'area dell'autonomismo valdostano che mio papà ed Ulrico condividevano. Come tanti giovani valdostani di allora si sacrificarono per la libertà della Valle d'Aosta e accettarono di vivere la loro vita nel quadro pieno di speranze dell'autonomia speciale. So bene cosa penserebbero della situazione attuale di messa in discussione del nostro ordinamento politico e di quei valdostani indifferenti o persino passivi, esattamente come a suo tempo mi ricordavano che avessero fatto, sotto il regime fascista, troppi valdostani acquiescenti al tentativo di distruzione dell'identità valdostana.
Così ogni riferimento storico è bene tenerlo a mente. Così sarà per i cent'anni dall'ingresso in guerra dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale del prossimo anno: la strage di giovani alpini valdostani dall'altra parte delle Alpi, nel dare e nell'avere con l'Italia, ha pesato come un macigno ed è bene evitare l'oblio.

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